Da Ultimi scritti- Charles Baudelaire- Feltrinelli

lunedì 29 giugno 2009

“ Il mondo ha iniziato la sua fine. La sola ragione per cui esso potrebbe durare è il fatto di esistere… Ma non è nelle istituzioni politiche in particolare che si manifesterà la rovina universale…Sarà nello svilimento dei cuori… Allora quello che assomiglierà alla virtù- che dico- tutto quello che non sarà ardore per Pluto sarà considerato immensamente risibile…Quanto a me, che sento in me talvolta il ridicolo di un profeta, so che non troverò mai la carità di un medico… sono come un uomo esausto, il cui occhio, dietro di sé negli anni profondi non vede che disillusione e amarezza, e davanti a sé una tempesta in cui non vi è nulla, né insegnamento, né dolore. Quella sera in cui quest’uomo ha rubato al destino qualche ora di piacere, cullato nella sua digestione,dimentico, per quanto possibile, del passato, contento del presente e rassegnato al futuro, inebriato dal suo sangue freddo e dal suo dandysmo, fiero di non essere tanto in basso come quelli che passano , egli si dice, contemplando il fumo del suo sigaro: Che m’importa dove vadano queste coscienze ?Credo di essere scivolato in quello che gli uomini del mestiere chiamano un fuori programma. Tuttavia lascerò queste pagine ,perché voglio dare una data alla mia collera”.

(traduzione Franco Rella)

Diario del ladro- Jean Genet

mercoledì 24 giugno 2009

Genet si è posto nella vita e nella letteratura in violento contrasto con la società, rubando, mendicando, prostituendosi, ha raggiunto quella zona in cui la violazione di ogni legge è il sintomo di una caduta e al tempo stesso la ragione di un'enigmatica ricerca del bello e del sublime, nella dimensione del sordido. E’ proprio questa la sfida di Genet: isolare momenti di bellezza, laddove per la mentalità comune sembra esserci solo sporcizia e degrado. Egli è un isolato, nessuna possibilità di vera comunicazione può essere raggiunta, da una parte c’è la società, con le sue leggi inflessibili, dall’altra colui che le trasgredisce, e nessun ponte di letteratura può unirli. Così Genet usa il voi, quando si rivolge ai lettori, i quali, in quanto rappresentanti del senso e del vivere comune, gli sono lontani come la luna. Nelle pagine di Diario del ladro lo scrittore francese rievoca la sua giovinezza di sbandato e di teppista, per le vie di Barcellona, Brno, Anversa, e altre città d’Europa, città di cui egli frequenta bar di infimo ordine, malavitosi con i quali condivide la sorte, il letto, le avventure, in un contesto in cui i valori vengono ribaltati, e così l’abiezione più profonda, l’immoralità più scandalosa, assumono le veste di fantomatica rivincita, per coloro che la società umana ha espulso come indesiderati. Nel compiere “l’ascesa verso l’umiliazione “ Genet mostra un’enorme vitalità, sebbene disperata, gira tutta l’Europa, Spagna, Francia, Cecoslovacchia, Serbia, Italia, da tutti i paesi ottenendo l’espulsione, per via dei suoi crimini, infiammandosi talvolta di passioni violente, sempre assillato da una fatalità di abbruttimento. In questo c’è la coerenza di un santo al contrario, una vocazione a una sacralità sconosciuta, tanto che Sartre intitolò il suo saggio sullo scrittore francese Saint Genet, e ne mostrò l’assoluta sete di beatitudine spirituale, ottenuta attraverso l’infrazione dolorosa di ogni regola. Dolorosa perché tale è il male in Genet, una necessità e una maledizione, sicuramente una libertà pericolosa che si sconta con l’esclusione perpetua dal consorzio umano. In questa disperazione senza fondo Brno, Barcellona, e tutte le città citate sono terribili e malinconici sfondi privi di attrattive, come se il malessere stesso di Genet le prosciugasse nel profondo. Lui e i suoi amici sono dei paria pronti a tutto, consci della loro realtà di perduti a ogni convivenza sociale, essi recuperano la loro umanità sul piano dell’audacia, che fa compiere loro le azioni più turpi. Nel folgorante incipit i delinquenti sono accostati ai fiori, tanto brutali gli uni quanto delicati gli altri, e il tentativo di Genet è di far risaltare il suo amore per questi strani compagni di strada, pronti a tradirsi per pochi soldi, ad amarsi selvaggiamente, a uccidere, per affermare la loro natura di eslege, destinati a una vita disperata, dal fondo di un malessere in cui talvolta come una boccata d’ossigeno affiora una gioia straziata, una felicità macellata. Non sono certo eroiche le figure che Genet descrive, ma nella loro spesso ostentata vigliaccheria egli coglie una bellezza indecifrabile che lo commuove e in questa commozione, egli ritrova il senso della propria esperienza. I vari Pepe, Stilitano, Armand, sono personaggi di un mondo picaresco, che Genet rievoca con nostalgia, nonostante tutto l’orrore che essi hanno attraversato, conservano una specie d’incanto, sebbene questo incanto non sia altro che il segno di un’abitudine al crimine e al vizio così radicata da disgustare i benpensanti. In Genet l’immoralità dei comportamenti non è mai scevra da un sottile senso di colpa, ma lungi dall’allontanarlo dal crimine questo stesso senso di colpa diventa un ingrediente indispensabile per gustare la pienezza di una caduta inevitabile. Così Diario del ladro è la cronaca di un inferno, in cui non manca lo spazio per la tenerezza, la vita di Genet nella sua lucida disperazione è testimonianza di una realtà in cui la regola principale è sopravvivere nonostante tutto, immergersi in ciò che c’è di infimo per uscirne con le stigmate di uno splendore perverso. Una dimensione poetica pulsa in queste pagine, Genet si mette dalla parte dei ladri, degli accattoni, diventandone il cantore e in questa operazione dà voce a quelle realtà marginali che in letteratura sono spesso dimenticate. Se c’è un limite in tutto questo è nella fin troppo esibita pietà di sé; in questa apologetica del crimine, sebbene la colpa sia sempre presente e mai edulcorata, il pathos di una solitudine senza rimedio fa apparire freddo e scostante anche lo slancio più amorevole, Genet mostra un’Europa dei bassifondi, in cui la crudeltà non è mai separata da una certa grazia equivoca, il cui senso è tutta una paradossale affermazione della propria diversità sia erotica- Genet è omosessuale- che sociale, e la parola redenzione è svuotata di significato, una crudele fatalità spinge questi individui a una vita disperata, e sebbene carnefici essi paiono le vittime di un meccanismo che però lo scrittore francese non ha la forza di indagare fino in fondo. Non è una vita di ribellione che Genet descrive, tutt’altro, i suoi personaggi sono schiacciati e non ambiscono a nulla, sono ridotti spesso alla pura dimensione della sopravvivenza senza gloria, paghi della loro condizione miserevole, essi scontano la loro esclusione, e solo nel castigo cui sono destinati recuperano la dignità che il mondo non vuole e non può riconoscergli. In questo libro c’è qualcosa di profondamente alieno all’opera, qualcosa di freddo, una fondamentale rinuncia al decoro, una rabbiosa rassegnazione si mescola alla furia criminale, lasciando talvolta nel lettore una sensazione di macabro autocompiacimento, che può disturbare. Nel raccontare la propria vita violenta Genet non ha il coraggio o la voglia di andare fino in fondo, in certi momenti appare sdolcinato anche il crimine, e la sensazione è che lo scrittore francese inganni i suoi lettori, presentandosi ad essi con un candore che a un’attenta analisi appare posticcio. Meglio sarebbe stato mettersi dalla parte del male, senza quella svenevolezza che fa apparire equivoche e forse eccessivamente patetiche certe pagine del libro; la parola di Genet sa dunque di imbroglio calcolato e di tranello, in questo rivelandosi parola letteraria, da qui il grande successo di critica che accompagna il libro da quando nel 1948 uscì la prima edizione censurata.

Una poesia di Bhartrhari

sabato 20 giugno 2009

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Scarno, guercio, zoppo,
privo di orecchie, con la coda mozza,
pieno di pustole, molle di putredine,
il corpo avvolto da colonie di vermi a centinaia,
magro di fame, secco di anni,
con un orlo di coccio intorno al collo,
segue la cagna il cane:
Amore invero uccide anche chi fu già ucciso.

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da Sulla saggezza mondana, sull'amore e sulla rinuncia- Bhartrhari-traduzione di Alessandro Passi- Adelphi

Tempesta elettrica- Jim Morrison

mercoledì 10 giugno 2009


La poesia di Morrison è un tentativo di coniugare le influenze beat alla grande tradizione decadente europea, con tracce di mitologie disparate, dai greci, ai pellerossa, che scorrono nei suoi versi. E’ certamente un mondo misterioso che egli cerca di mettere in luce, con una tendenza gnomica che talvolta lascia dei bagliori di illuminazione, altre volte si cela in una dimensione più colloquiale. L’occhio di una telecamera sembra a volte presente per cogliere gli umori di un'umanità di ragazze chiamate “Libertà “, ballerini invasati, bambini dalla mente “fragile come un guscio d’uovo”, satiri, gnomi, e numerosi sono gli animali -cobra, pantere, leopardi, leoni , cavalli- che abitano queste poesie, dove riferimenti alla cultura greca si innestano su un tessuto di matrice celtica, con frequenti riferimenti alla poesia di William Blake, soprattutto nella costante creazione di un mondo magico e mitico, con il caos che sembra sempre voler irrompere sulla pagina e solo raramente vi riesce, con esiti a volte sorprendenti, altre volte invece si rimane stupiti per la loro vacuità.

Una natura selvaggia e pericolosa viene costantemente evocata da Morrison che però talvolta manca di efficacia, perdendosi in una strana confusione di parole, legate analogicamente, ma in maniera forzata,o abbandonandosi alla scrittura aforistica con esiti quasi mai convincenti. Credo dipenda in parte dal fatto che questi testi sono stati pubblicati rovistando fra i suoi taccuini e operando una scelta fatalmente diversa da quella che il poeta avrebbe compiuto, perciò alcune poesie sono poco più che appunti, abbozzi su cui non si è operato in maniera definitiva. Talvolta pare deficitaria la necessaria revisione e limatura dei testi, che è fondamentale per l’ attività poetica, ma bisogna dire che nel clima culturale della beat generation la scelta di Morrison di una scrittura spontanea, germinazione di significanti in tensione musicale, è più che comprensibile. Del resto la poesia di Morrison non è immune da influenze dadaiste, e una rilettura in chiave surrealista di Rimbaud è una delle matrici della sua poetica e l’oralità, la recitazione in pubblico, l’immediatezza corporale del verso, giocano un ruolo preponderante.

Al di là di certe ingenuità, in questi versi vi è indubbiamente una potenza oracolare all’opera, Morrison persegue una follia di nomadismo psichico, appartiene all’epoca che credeva che le droghe amplificassero la coscienze, estendessero gli stessi domini dell’anima.

In tale contesto, la poesia è un nuovo idioma che racchiude folgorazioni e visioni che ci liberano dalla schiavitù del senso comune, e Morrison in questa operazione mostra talvolta una chiarezza visionaria, altrove smarrisce la strada, devia verso l’ovvietà detta con una certa supponenza,ma nel complesso quel tanto di indecifrabile che vibra in questi versi basta a fare di Morrison un poeta che si può leggere.

Così egli ci invita ad abbandonare la tranquilla, domestica, paranoia per entrare nelle foreste degli antichi, dove elaborare nuovamente una mitologia, parlare “alfabeti segreti” e incontrare lo spirito della musica, complice” un’intensa visitazione d’energia”. Abbandonando tutto ciò che ci è stato insegnato Morrison ci suggerisce di iniziare il nostro viaggio verso la libertà, modellando la nostra percezione a partire da uno stravolgimento di tutti i sensi, che permetta alla nostra natura di volare aldilà delle sterili convenzioni del linguaggio e affermando l’individualità contro ogni progetto di massificazione: giacché siamo dominati dalle televisioni e “placidi ammiragli” pretendono il sangue giovane ,per far girare il grande macchinario della guerra, noi abbiamo una chance solo nel approfondire la nostra visione personale, lasciandoci incantare dalle dinamiche inconsce di una psiche che ha scelto vivere accanto agli dei della tradizione, ritrovando in essi la corrispondenza segreta fra intuito e ragione e il trait d’union che lega il mondo moderno alla natura.

Un “ pensiero senza mente “ cerca di affiorare nelle parole di Morrison, che elabora uno strano misticismo che pare più una concessione alla moda dell’epoca che un sincero anelito spirituale; Buddha e Cristo si incontrano in un intelletto che considera la contemplazione del cielo il suo destino naturale e il suo apice di godimento estatico. Ecco, se l’artista è colui che persegue l’estasi, i versi di Morrison testimoniano della sua vocazione a sciogliere i legami mentali per far emergere quella tentazione d’infinito che troppo spesso risulta essere al tempo stesso un salto nel vuoto, o una caduta verso gli oscuri regni della morte. L’affresco offerto dal rocker americano è sicuramente vitale, ma troppo spesso i suoi versi combattono la vacuità uscendone malconci, ma quando la visione si innesta sulle parole in maniera convincente abbiamo versi belli, che offrono uno scorcio di dimensioni dimenticate, dove “il mondo è un film inventato dagli uomini “e il sesso quella realtà iniziatica che ci fa assaporare la nostra natura di Buddha e al tempo stesso il buio della tomba.

Bisogna godere assolutamente del momento presente perché “ nessuna ricompensa eterna ci / perdonerà ora / per aver sprecato l'alba /e gli dei sono sul punto di irrompere nella nostra vita per sconvolgerla e portarci la consapevolezza di un’energia cosmica che può farsi musica oppure silenzio inesprimibile. L’amicizia rappresenta per Morrison qualcosa di sacro che è più potente della sua evidente fascinazione per la morte, ma il bisogno di far parte di un gruppo collide con la sua vocazione ad una aristocratica solitudine, intessuta delle voci che si alzano dai libri, amuleti contro il conformismo, talismani che ci proiettano in una realtà, dove è possibile benedire il momento presente, implorare” un’ora di magia” al “grande creatore dell’essere” e sfuggire alla morte “ “terrificante ospite compagnona “ consapevoli che sfuggendole, incappiamo in lei ancora più rovinosamente. Possiamo però diventare come “folletti innocenti “ desiderosi solo di sballare e “mandare a quel paese gli dei “, essere come dei “fiori lussureggianti”, colti nel loro effimero sfiorire, che dice qualcosa delle meccaniche universali.

Nei versi di Morrison, perlomeno nei più belli, un incantesimo di morte si allea alle forze più vitali della natura umana, mentre entità occulte “stanno facendo del nostro universo uno scherzo”, e tutto frantumato non può che danzare , il desiderio di “mutare mentalmente la realtà" emerge come una sfida alla totalità e direi niccianamente anche alla verità. Perché è un mondo di illusioni quello che Morrison prepara per noi, confidando alla nostra ombra che un mondo segreto sta per scoppiare, e che la poesia potrebbe dilagare nella realtà, diventando la sua nemesi più veritiera. Se un poeta va giudicato dalle sue opere migliori, penso che tutto Morrison vada visto alla lente dei suoi versi più efficaci - fra tutti quelli di Una Preghiera americana- che fanno presagire,che se fosse vissuto più a lungo, abbandonando certe pose narcisistiche, avrebbe potuto lasciare un corpus poetico meno frammentario e confuso, e più letterariamente compiuto.

Sono questi i versi - non sempre riusciti -di un apolide spirituale, che non si sente a suo agio in nessuna dottrina, ma le osserva tutte con interesse, cercando di fondere totem, crocifissi, sciamanesimo e oracoli, dal fondo spettrale di una parola che, sebbene minacciata da afasia, cerca di restituirci il fascino dell’ignoto, talvolta precipitando frantumata, altre volte mascherandosi da grido animalesco, per impressionare meglio la pellicola della nostra mente.

Tempesta elettrica- Jim Morrison- Mondadori

Blues in memoria- W.H Auden-poesia

lunedì 8 giugno 2009

Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforti, e tra un rollio

smorzato
portate fuori il feretro, si accostino
i dolenti.
Incrocino aeroplani lamentosi lassù
e scrivano sul cielo il messaggio Lui E'
Morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco
dei piccioni,
i vigili si mettano guanti di tela nera.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est
ed Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo
la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte,la mia
lingua, il mio canto.
pensavo che l''amore fosse eterno: e avevo
torto.
Non servon più le stelle: spegnetele anche
tutte;
imballate la luna, spegnete pure il sole;
svuotatemi l'oceano, e sradicate il bosco;
perché ormai più nulla può giovare.

Da La verità vi prego sull'amore- W.H Auden-traduzione di Gilberto Forti-Adelphi






Nudo di donna in posa- Carol Ann Duffy- poesia

mercoledì 3 giugno 2009

Sei ore così per pochi franchi.
Ventre tette e culo alla luce della finestra,
mi succhia via il colore. Ancora un po' a destra,
Madame. E prova a star ferma.
Sarò rappresentata analiticamente e appesa
in musei importanti. I borghesi rimarranno di stucco
davanti a un 'immagine così di una puttana di fiume.La
chiamano Arte.

Sarà. Lui si preoccupa del volume dello spazio.
Io del prossimo pasto. Stai dimagrendo,
Madame, così non va bene. I miei seni sono
un po' calati, lo studio è freddo. Nei fondi del tè
vedo la Regina d'Inghilterra che osserva
le mie forme. Magnifica, mormora
passando oltre. Mi viene da ridere. Lui si chiama
Georges*. Mi dicono che sia un genio.

Certe volte non riesce a concentrarsi
e si indurisce al mio calore.
Mi possiede sulla tela mentre affonda il pennello
più volte nei pastelli. Che piccolo uomo,
non hai soldi per le arti che vendo io.
Tutti e due poveri, ci guadagniamo il pane come possiamo.

Gli chiedo perché lo fai ?Perché
devo. Non c'è altra scelta. Basta chiacchiere.
Il mio sorriso lo confonde. Questi artisti
si prendono troppo sul serio. Di notte mi sazio
di vino e ballo attorno alle sbarre. Quando è finito
me lo mostra orgoglioso, s'accende una sigaretta. Dico
dodici franchi e prendo lo scialle. Non sembro neppure io.

* Si tratta di Georges Braque.

(traduzione di Bernardino Nera, pubblicata sul numero di Giugno della rivista Poesia)