I romanzi di Pier Paolo Pasolini

domenica 31 gennaio 2010


Ecco che improvvisamente mi sono stancato di sentir dire che i romanzi di Pasolini sono brutti, non all’altezza dei suoi versi o dei suoi film. Mi riferisco soprattutto a certi commenti sprezzanti sui romanzi di Pasolini, che sono arrivati per esempio da Guglielmi, Bevilacqua, Testori. Certo, se io penso alla sua opera, mi vengono subito in mente gli Scritti corsari, o Il caos, raccolte di suoi scritti giornalistici, in cui uno stile impeccabile nutre riflessioni tragiche e taglienti, che sembrano proiettare Pasolini molto aldilà, in quello che è il nostro presente, se non addirittura il nostro futuro.
Ma io penso che Pasolini abbia lasciato la sua impronta geniale anche con dei romanzi, uno dei quali io trovo addirittura splendido, Il sogno di una cosa, che parla dell’emigrazione dei braccianti friulani nell’ex Jugoslavia, ed è assolutamente da consigliare a chi ha dimenticato che un tempo erano gli italiani a emigrare. C’é in questo romanzo una straordinaria storia di giovinezze che si intrecciano, personaggi memorabili di un’Italia che non c'è più. Storia di una gioventù povera, ma pulita e splendida, disperata, ma allegra, su uno sfondo di puro sacrificio di sangue e sudore.
Altre cose in Una vita violenta o in Ragazzi di vita hanno la potenza della ricostruzione sociologica, lo sguardo di Pasolini è sempre esattamente posto nel cuore delle cose, il suo linguaggio unisce grazia e brutalità in uno strano intreccio.
Spesso vivificata dall’intrusione del dialetto, la sua lingua registra gli umori di una gioventù di sbandati, per la quale egli ha un rapporto di passione, intellettuale e carnale. Anche nei romanzi, Pasolini non è mai consolatorio, non ti vende speranze, non costruisce alibi alla società, sempre barbara, sempre oppressiva, sempre più violenta dei suoi ragazzi di vita. E’ uno sguardo che secondo me ha una sagacità e a volte una crudeltà antropologica, l’immersione nel sottoproletariato sembra avere un valore iniziatico. E’ il mistero del reale.
In Teorema, tanto criticato, creando questo interno borghese in maniera psicologicamente minuziosa, lo polverizza poi facendo irrompere il dionisiaco, il sacro pagano, restituendo a Milano la sua ombra dimenticata. E’ come quando Penteo ne Le baccanti di Euripide, come in un sogno vede Tebe sdoppiarsi; questi personaggi, presi da una inspiegabile mania erotica, abbandonano ogni decenza. Il borghese si accorge così di essere posseduto e più non possedere, posseduto da una realtà misteriosa su cui prima era caduto il velo opaco dell’interesse. Una realtà che ritorna reale, da ideologia che era. Tutto il mondo borghese, che ha posto fine alla mitologia e al sacro, torna a soccombere per l’irruzione della follia erotica dei protagonisti, che ha proprio risonanze mitologiche. Il deserto e il grido sono l’ultima chance per chi scopre di aver vissuto una povera vita da schiacciato. Questi borghesi sono dei fantasmi, cui un’esperienza di delirio restituisce la carne e con essa il dolore, prima assopito con gli strani riti della quotidianità. Si possono deplorare gli eccessivi riferimenti psicanalitici, ma i tempi erano quelli. E’ un romanzo strano e folle, con inserti poetici, che costituiscono il coro di questa tragedia contemporanea. Pasolini ci ricorda che l’unico modo per agire è “agire prima di capire”: per i borghesi del romanzo con la maschera sociale cade anche la faccia e l’identità si scopre vuota.
Forse la bellezza del suo cinema, o delle poesie, ha oscurato i romanzi, ma non mi sembra che la produzione narrativa di Pasolini non abbia l’efficacia di Medea, o de Le ceneri di Gramsci, quindi dire che fosse un mediocre romanziere, o snobbarlo, secondo me, è improprio. Pasolini aveva passione, e il suo linguaggio anche nei romanzi freme di tutte le lacerazioni e gli ossimori del reale.

Altri libertini - Pier Vittorio Tondelli

giovedì 21 gennaio 2010



Il protagonista dei romanzi di Tondelli è il linguaggio, ha detto non ricordo più chi, forse Francois Whal, ed Altri libertini ne è la prova evidente; quella di Tondelli è una scrittura costruita su un flusso di continuo ripensamento, che dà la sensazione di essere scritta di getto, come un’improvvisazione jazz; operazione quindi di estrema complessità stilistica. La sua è una scrittura spontanea solo in apparenza, tutta giocata su questo fraintendimento mimetico. Imitazione di una lingua di strada, che diventa talmente forte, rude, pervasiva, da diventare lingua di una poesia contemporanea e assumere la voce di una generazione. E’ una scrittura dai rimandi vividi, che vuole essere oggettiva e, come un fiume che trascina tronchi, esplodere nella sua dimensione orale. Tondelli fa rivivere linguisticamente gli anni settanta, però non in astratto, piuttosto incarnandoli in un gergo, la sua lingua sembra a tratti un fuoco d’artificio, a tratti ti violenta con immagini durissime, altrove fa vibrare questa nostalgia appena schizzata sul muro dell’umana vacuità.

Perché questa umanità è ben triste alla fine, vera e spietata come una cronaca e in questo senso solo Andrea Pazienza ha fatto meglio. Tuttavia l’allegria disperata delle Splash, la loro solitaria contestazione del tedio provinciale, il loro piccolo scandalo così tenero, mi fanno pensare che Tondelli registrasse anche ciò che di straordinario c’è, non tanto in una generazione, ma nella giovinezza stessa.

La prosa di Tondelli è fluente e comprende le voci più diverse, i toni più grevi si alleano con le tenerezze più ancestrali. I tic linguistici rivelano sempre la natura profonda della mente di una persona, e allora abbiamo questo gergo di naufragio, le parole vogliono bestialmente l’infinito, le frasi si interrompono dopo un crescendo che è un vortice. Tondelli crea questa gioventù eroticamente intensa, tesa al viaggio, su cui incombe però la desolazione, che è già nell’incipit,ed è quindi la sintesi di quello che Tondelli voleva esprimere. Il viaggio è quella dimensione che ci permette di fuggire le “belve dello scoramento” a tutto vantaggio di una vitalità alla Kerouac. Curiosamente la provincia italiana appare una manifestazione esotica, mentre il resto d’Europa, forse troppo ricalcato su stereotipi letterari, sembra familiare. Altri libertini voleva forse essere un libro beat, ma la realtà italiana degli anni settanta non poteva permettersi il lusso di una poetica visionaria, così diventa la testimonianza di una felicità impossibile, ma assai presente, come assenza e come anelito. Perché sbatterti in faccia la realtà, tramortirti, e poi accarezzarti per far rinsavire in te la fantasia, è il dono della prosa di Tondelli, il cui maestro era soprattutto Alberto Arbasino e non è un caso.

E’ un peccato che dopo un libro così intenso, Tondelli abbia virato verso questa letteratura stereotipata, quasi di genere, scrive Guglielmi, giallo per Rimini, rosa per Camere separate, perdendo così la sua vocazione a costruire un linguaggio che rendesse il flusso di coscienza una realtà fisica, prima che mentale, perché Altri libertini è una danza, è un fumetto schizofrenico. Il resto della sua opera, a parte Pao Pao, è televisivo, è già fiction.Qui, infatti, il linguaggio perde la sua centralità a vantaggio della ben risibile trama, ma tant’è, aver scritto Altri libertini per me è sufficiente
.

Il Vangelo secondo Gesù Cristo- José Saramago

sabato 16 gennaio 2010


“Profanare significa restituire all’uso comune ciò che è stato separato nella sfera del sacro”.

Giorgio Agamben

Ormai saturi di Cristo e di romanzi, film, fiction, su di lui, e sulla sua figura, ci si immerge stancamente in questo libro di Saramago, e stancamente, per puro abuso di sé, si insiste nella lettura e qualcosa si coglie qua e là di affilato e interessante, una rivisitazione dei miti del vangelo, una decostruzione della millenaria cartolina parrocchiale. Il Gesù di Saramago diventa perciò un eroe minimo, casualmente dotato da Dio di facoltà soprannaturali, Dio Padre senza scrupoli, che intende sfruttarlo come attrattiva commerciale, ed è avido di conquistare il mondo grazie al sangue di questo figlio, che si trova autore di miracoli per caso e controvoglia, serbando dentro di sé un’inquietudine incalcolabile. E nessun Padre Eterno buono lo consola, lo ama, o cose del genere, egli, come tutti, è preso in giro da un dio invadente, in evidente combutta con il diavolo, e di chiara origine gnostica.


La Chiesa si scandalizza davanti a un libro del genere, anche per le solite ragioni di bottega, per il suo desiderio forsennato di negare al povero Cristo e ai suoi parenti l’ombra di un’avventura sessuale qualsiasi, perché lo scopo della chiesa è negare il corpo e il coito, a tutto vantaggio di una risibile anima da eternare. Così nel romanzo Cristo si congiunge carnalmente con la Maddalena, in pagine che però ho trovato incolori, assolutamente non all’altezza, per esempio, della rovente e realmente carnale versione di Lawrence. Il libro in sé è più interessante nel far emergere la figura di Giuseppe, il padre di Gesù, e nel descrivere la quotidianità, anche sessuale, con la mediocre e un po’ ottusa moglie Maria, in una ricostruzione attendibile, ma ben lontana dall’essere scandalosa. O forse sì, esiste ancora qualcuno che si scandalizza, se gli fanno a pezzi l’immaginetta da sagrestia e gli propongono un Cristo umano, reale, una sacra famiglia vista nella povertà dei suoi affetti, con personaggi qualunque, in un mondo qualunque, e quindi liberandoci dalle pericolose idealizzazioni infantili. Questo è sicuramente un pregio di Saramago, e rende questo romanzo comunque un libro da leggere, con cui magari, e questo è il mio caso, instaurare un conflitto.


Perché in fondo la sua decostruzione del mito evangelico non riesce fin in fondo ad essere distruttiva di tutti i pregiudizi, le stratificazioni mitologiche, che si sono addensate cupe intorno alla figura di Cristo, perché Saramago non intaccando la lingua, non mandandola in corto circuito, non crea personaggi o risonanze memorabili, non seduce e neanche sconcerta.

Il Cristo di Saramago a me pare un mediocre burattino poco interessante, il suo Dio è, ora una colonna di fumo nel deserto, che ha l’autorità e la solennità di un preside invasato, ora un barbuto affarista che d’accordo col diavolo, vuole sfruttare la fama e il martirio del suo povero figlio. Tutto questo fatto da Saramago con una certa crudeltà, che però, per chi ha letto per esempio Lautremont od Artaud, è troppo debole rispetto alla vastità del compito che può assegnarsi un artista, quello di essere iconoclasta. Rappresentare Dio come un cinico spregevole, indifferente alla sorte umana, non mi stupisce, non mi scandalizza, non mi dà il fremito del sacro, né della sua irrisione. Il testo di Saramago mi sembra perciò una satira non riuscita del vangelo, una satira che spesso annoia, e non produce pensiero di vera alterità, è caricaturale, pur nel suo naturalismo ostentato, senza conservare oltretutto nessuno spazio all’immaginazione, anche distruttiva, di un pensiero realmente liberato dalla presenza di Dio.


E nemmeno ci lusinga con le possibilità della divina imperscrutabilità e neanche ci seduce con l’assenza di Dio, che, come mostra Holderlin in un suo verso, è la massima consolazione. Il suo Padre eterno che vuole dominare il mondo e il diavolo suo simpatico alter ego non hanno risonanza, non sono terribili (e qui giova ricordare che sacer ha anche il significato di terribile in latino).

Sul piano del pathos, Saramago non ci trasferisce sulla pelle tutta la tragicità di Cristo, lo fa apparire sminuito, provinciale, una specie di Renzo Tramaglino turlupinato da Dio, e sul piano della ricostruzione storica, priva l’epoca delle sue profondità religiose, e oltretutto non ci restituisce neanche l’ombra di un mistero. Non so se questo sia un bene, o un male, ma fa apparire tutto consumato e invecchiato, come se questa vicenda cristica fosse un cumulo di rovine riscaldate da un sole pallido e mai abbastanza strafottente, un reperto di antiquariato culturale. Avesse il romanzo almeno qualcosa di realmente indecente, e cattivo, un digrignar di denti, un vivo disgusto dei nervi!


A meno che Saramago non abbia preso in giro tutti, presentando come romanzo storico quella che voleva essere soltanto una farsa, una pernacchia al lettore e al credente, ma allora il romanzo è gravato dalla troppo ostentata verosimiglianza e la pernacchia è troppo bene educata. Il libro mi convince unicamente perché mostra l’inutilità del sacrificio di Cristo; l’estrema futilità di tutta la faccenda può essere letta come una critica a qualsiasi macchinario mitologico, un tentativo, secondo me non riuscito, di smontarlo, per vedere di cosa è fatto. Operazione che rispetto a Saramago, Dürrenmatt ha fatto con più forza ne La morte della Pizia, per esempio.


A qualcuno potrebbe anche piacere questo Cristo assolutamente non vocato, antieroico, ma non aggiungendo sale o zolfo alla sua profanazione, Saramago, secondo me, non riesce a dare vita a un personaggio veramente interessante e anche il Padre Eterno pappa e ciccia con il diavolo è solo una povera macchietta d’avanspettacolo, che non fa più ridere, una specie di gangster altolocato. Oltretutto, sul piano della pura rappresentazione storica, l’epoca di Cristo, la Gerusalemme di duemila anni fa, rimane sullo sfondo, incomprensibile.


Il testo di Saramago mi ha fatto proprio l’effetto di una gaffe cinematografica, del tipo”l'antico romano con un orologio al polso”, perché il senso profondo, nascosto, di quell’epoca, è al servizio di un’idea molto moderna, quella dell’Assurdo; il rapporto con Dio, centrale nel periodo storico in cui Gesù Cristo è vissuto, non è provvisto nella prosa di Saramago, di quelle sottigliezze, anche demoniache, che il discorso meritava. Tutto mi sembra caricaturale, alla fine, specie l’incontro fra Gesù e il Padre, però in un contesto troppo naturalistico. SI percepisce una vena comica, che però non fa esplodere quel folle riso pieno di bile, che i francesi chiamano rire jaune e quindi il libro non è efficace neanche come sconsacrazione.

Sul piano psicologico i tormenti di Gesù appaiono patetici e i personaggi, insignificanti, hanno Dio sulla bocca costantemente, ma in cuor loro sono vuoti. In questo io vedo una visione dell’esistenza che ha più a che fare con la nostra contemporaneità di “Hollow Men “, che con l’umanità rappresentata nei Vangeli.


E’ tutta una faccenda molto domestica, con questa Maria tanto piccolo borghese, e questo Giuseppe, despota mite e gran lavoratore; una vicenda plausibile, e un po’ sordida, come tutte le vicende umane, in cui Gesù fa la figura di una vittima poverina; è un personaggio che ci fa provare quel tipo di compassione un po’ schifata che di solito riserviamo, senza ammetterlo, a chi sta peggio di noi. Non ha nessuna tragicità, zero mistero, niente fascino.


Avesse esagerato col grottesco almeno, no, invece si vira verso questo naturalismo, questa prosa gonfia. Mi è sembrata nel complesso un’operazione a tavolino, con una scrittura avviluppante e vischiosa, ma questo potrebbe essere un problema della traduzione. Secondo me, il romanzo non raggiunge quasi mai la potenza della narrazione esatta, tranne, come ho già detto, nel ricostruire la figura di Giuseppe, perché Saramago ridimensiona senza profanare realmente, dando ai vangeli una veste forse ridicola, ma politicamente scorretta ad arte, certo non scurrile né inquietante, cosa che perlomeno avrebbe avuto il senso di una vera e propria profanazione. Fare a pezzi il sacro, piuttosto, frantumarlo, restituirci di esso solo le macerie, affinché noi si possa giocare con esse.


Saramago si tiene nei limiti, nella sua parodia- oltretutto gravata dal tentativo di costruire una verosimiglianza da romanzo storico- è incapace di eccedere, cioè di arrivare alla crudeltà della vera e propria satira, e non riesce neanche a farci percepire il Male, o il suo fascino, ne fa una questione irrisoria. Così sembra il resoconto di una vita qualunque, poco interessante, per nulla tragica, ma solo patetica; il che potrebbe anche essere per alcuni una rivelazione. Ciò fornirebbe perlomeno una sorta di alibi a Saramago, il cui tentativo di una scrittura satirica, se c’era, è fallito, perché il liberatorio sberleffo della satira in questo libro, in fondo così classico ed educato anche nello stile, sempre eccessivamente didascalico, non c’è, manca, e allora a che pro, mi chiedo io? E chiudo il libro con un bah, rimpiangendo piuttosto l’indecifrabile “L’Amore assoluto”di Jarry, che perlomeno si regge su una scrittura misteriosa; oppure rimpiangendo, sul piano metafisico, il Dio da scagliare sulla terra che c’è in una poesia di Baudelaire. E se si stratta di decostruire i miti, anche della letteratura, preferisco piuttosto il geniale sberleffo al concetto di romanzo storico, che c’è in Super Eliogabalo di Alberto Arbasino.


Qui si sente troppo la Storia, la volontà comunque di essere attendibili, si sente troppo la fatica di ricostruire in maniera verosimile un’epoca scomparsa- secondo me non riuscendoci- ma non viene frammentato Cristo in un montaggio schizoide, il solo che possa rendere ancora interessante il concetto di Dio; e penso anche a certi brani su Cristo del poema L’mal de fiori di Carmelo Bene. Non mi dice niente questa prosa piana, magniloquente, classica, monotona, che lo scrittore portoghese affastella in pagine e pagine, senza darci mai un fremito, omettendo in maniera impropria tutto l’apparato mistico e religioso, oppure riducendolo a pura appendice di un’affabulazione contemporanea. Se noi pensiamo in maniera moderna, riduciamo a zero tutte le fascinazioni di un’epoca, e questo mi sembra abbia fatto Saramago, che crea la sua favola dalle misere macerie di Dio.

Sul piano storico, il suo Cristo, che non ha nessuna autorità, nessuna solennità, spaesato come un pulcino appena nato, preso in giro da una divinità crudele, non ha molto dell’ebreo antico, e nulla del profeta. Dove sono tutte le vicissitudini interiori che hanno fatto interessante la figura di Cristo? E il Padre Eterno, e il diavolo suo aiutante, mi sembrano due personaggi senza profondità, troppo riconoscibili come derivazioni contemporanee; e il tutto sembra essere una favola moderna, magari un po’ amara, ma neanche tanto, in cui Gesù Cristo non ha più senso di Peter Pan, o Pinocchio. Cosicché mi chiedo se questo non fosse in realtà lo scopo di Saramago, allora però avrebbe dovuto stilisticamente stracciare la veste di”romanzo storico”che ha voluto dare al suo libro. Non è solo il mito di Cristo che deve essere smontato, a questo punto, anche quello della letteratura merita lo stesso trattamento.

Quello che voglio dire è che questo romanzo, per differenti ragioni, ai miei occhi sparisce subito, se si sono letti, oltre agli autori già citati, Sade, Artaud, Nietzsche, Lagerkvist, o anche soltanto Giuseppe Berto, autori che sul corpo di Dio e di Cristo hanno scritto la loro solitudine e la loro condanna, o il lusso di una risata demistificatoria. Questo Dio onnipotente ma troppo umano, che Saramago descrive, è una caricatura senza mistero, che non fa ridere, e che non è degna nemmeno di essere oltraggiata, rendendo così inutile il gesto di una qualsiasi profanazione. Io sono convinto che in letteratura uno debba giocarsi la pelle, ”la mente alla roulette dell’assurdo”, come scrive Artaud, e non affabulare per intrattenere, senza per altro riuscirci, come fa Saramago in questo libro, narratore onnisciente con linguaggio appesantito, che strizza troppo l’occhio al lettore, e ammicca.

Detto questo, è un libro che si può consigliare a coloro che hanno di Cristo una visione idealizzata, per riportare sulla terra e nella carne la sua esperienza, ma perché negare come fa Saramago, tutta la misteriosità che, in effetti, circonda la figura del Nazareno? Rimprovero anche questo allo scrittore portoghese, oltre al fatto che il ghigno demoniaco che profana ridendo, gli manca. Poteva essere ancora più liberatoria l’affermazione di una blasfemia più profonda; abbandonarsi a questo punto a una scrittura veramente crudele, che violentasse profondamente la nostra sensibilità verso il sacro e ci lasciasse sgomenti, profondamente vuoti, e senza Dio.

Quello che comunque mi piace di questo libro, è che tenta timidamente la via di una profanazione, che però ci lascia senza mistero, senza zone d’ombra; è una parodia a cui manca la vera crudeltà demistificatoria, la sola, secondo me, che potrebbe rendere ancora interessante questo soggetto letterario ormai esausto. Scarnifica il burattino Gesù, in un certo modo lo umilia a puro strumento di un Padre cinico, ma lo priva talmente di spessore, che quella evangelica diventa una vicenda più patetica che tragica. Per questo dico “almeno avesse virato nel grottesco !”, come fa Carmelo Bene, per esempio, nella raffigurazione di Giovanni Battista, degli apostoli, di Cristo stesso, che c’è nel film Salomè. In questo romanzo non c’è neanche il folle e sano antistoricismo, che si ritrova, per esempio, nell’Eliogabalo di Arbasino, il quale ci concede, aristocraticamente, il lusso di ridere della Storia, e della pretesa di rappresentarla- qui tutto pare molto, troppo, assennato.

.

Altrove Saramago butta a mare ogni culto mariano, prima raffigurando questa Maria mediocre e insignificante- e in questo senso è apprezzabile la sua vena dissacratoria - in seguito mostrando che è evangelica, cioè si trova nelle stesse parole di Cristo, una delle più fenomenali negazioni della famiglia; del resto, cosa ci si poteva aspettare da un asceta, che fosse mondano? In questo Il Vangelo secondo Gesù Cristo può essere anche illuminante; credo che per altri lettori possa essere comunque una rivelazione, perché la ricostruzione dei rapporti umani, anche se non avvincente, è plausibile, ma, secondo me, gli manca il sacro pathos sia della preghiera, sia della bestemmia.

in questo senso, mostra che Dio è veramente morto, è un concetto sorpassato, è uscito dalla Storia, è giusto una cosa buona per la pubblicità della Lavazza, e la cosa non desta più la minima preoccupazione, o l’ombra di un rimpianto, chi potrà resuscitarlo? Certo non la letteratura.

Frammenti e Distillazioni- Gottfried Benn

mercoledì 6 gennaio 2010



“Ma adesso basta, io ardo/di magma e di nucleo, /di prequaternario e primordi, / via da parola, bronzo e scrittura”.
Gottfried Benn

“Frammenti, / espurghi dell’anima, / coaguli di sangue del ventesimo secolo” sono questi gli estremi sussulti che l’ispirazione in declino di Gottfried Benn lascia brillare in queste che sono due tra le sue ultime raccolte di versi, Frammenti e Distillazioni, che Einaudi ha pubblicato in un'unica soluzione, qualche anno fa, nella traduzione di Anna Maria Carpi. Autore di alcuni dei libri più memorabili del Novecento, il poeta tedesco ebbe la sventura di infatuarsi del nazismo, per poi rinnegarlo dopo poco, ma lo stigma gli rimase addosso per tutta la vita, impedendogli di raggiungere in vita quella notorietà che la sua opera avrebbe meritato. Subì un doppio ostracismo, prima da parte dei nazisti stessi, che mai si riconobbero nelle parole di questo outsider, innamorato di Nietzsche e che addirittura gli proibirono di pubblicare i suoi libri, in seguito da parte degli alleati che mai gli perdonarono la sua iniziale e breve adesione al nazismo.

Benn cerca la dissoluzione dell’ego, una regressione ai primordi pre-umani, un ritorno alle origini, che tradisce il suo fondamentale nichilismo,così questa raccolta testimonia della crisi di un’epoca, del suo declino, di un’interiorità avvolta nel bozzolo di un’inquietudine che solo il consumo di cocaina e alcol ha potuto alleviare, ma non si trova nelle sue parole nessuna esaltazione del vizio, si beve per “ coazione, impulso, fuga” . Anche la fede nella scrittura sembra vacillare, Benn sottopone la sua parola a una lacerante scarnificazione, e “distruzione” è una delle parole più ricorrenti nelle due raccolte, dove “ persino le rovine invecchiano”, rimane solo una domanda senza risposta: “perché esprimiamo qualcosa ?”.

Per questo esteta, la cui creatività andava spegnendosi, esistono solo abbozzi di risposta, “un priapismo formale”, un’eccitazione fine a se stessa, spinge la mano a tracciare i suoi ghirigori letterari, quando l’uomo è una creatura probabilmente penosa, costretta da un “interno vuoto” a ricercare nella scrittura la realizzazione di una possibile catarsi. Poiché “ciò che grande ha in sé la sua rovina” nulla sfugge alla dissoluzione, i regni passano, le idee si frantumano, cosa rimane? Per il poeta tedesco pare non esserci una soluzione positiva, né individuale, né collettiva, “brandelli di conversazione “, “ suoni morti”, “ultime luci, lungo bui giardini “ sono ciò cui inutilmente ci si aggrappa.

E’ l’impasse di un'ispirazione che vede la propria dissoluzione, le poesie registrano il declino personale e quello di un’epoca, e nemmeno l’arte, feticcio della giovinezza, può dare giustificazione all’esistenza, che rimane così mutilata del suo senso e delle sue profondità ignote. Allora non resta altro che celare se stessi “ con maschere e trucchi”, appagarsi unicamente di frammenti di voci appena udite, e subito dimenticate. Vi è in questi versi il riecheggiare della disfatta, una stanca nostalgia della vita, un’arida consapevolezza da cui non germoglia che l’anelito a un cielo” prossimo a spegnersi “.

Una “ smania di trasfigurazione “, destinata ad essere delusa, abita nel profondo di ognuno, ciò che si costruisce per l’eternità, nel “ flusso del tempo” ritorna “frantume”, il tempo logora ugualmente religioni, rose, torri, così “tutto va in pezzi, in attimi/ si frange rabbrividendo”. Ma se il tempo è condanna alla consunzione, “ che è davanti agli oceani ?” si chiede il poeta, aggiungendo che essi “c’erano prima/ di concepimento e coscienza”, così davanti a questa vertigine di regressione ai primordi della vita Benn sembra trovare il tanto agognato riscatto dell’esistenza tutta, altrimenti destinata a essere un “crollo” e una caduta senza alcun senso. Poco amante dei viaggi, Benn ha però una sensibilità particolare, capace di rendere allo sguardo l’incantesimo di terre lontane, la cui magia è però spesso tutta nel suono del loro nome, così La Paz, Fiesole, Ohio sono i segni musicali cui il poeta tributa una venerazione unicamente uditiva; ma su tutti i luoghi “ sull’estraneo, il lontano” incombe indifferente e feroce la distruzione.

E se “non c’è felicità che ti rianimi”, forse solo nel canto, nell’esaltazione di questa legge immutabile di annichilimento, noi possiamo ritrovare “ i motti e atti soavi” che diano profondità alle nostre parole, altrimenti destinate ad essere nient’altro che un inutile e forse volgare “ vago brusio” o, come Benn stesso ha scritto altrove, uno sterile e alienato “dialogo fra sedie”.

Scritte fra il 1951 e il 1953 le poesie di Frammenti e Distillazioni non sono forse l’esito più alto della ricerca di Benn, in qualche modo ne testimoniano il declino, ciò nonostante conservano una luciferina, fredda bellezza, che, nonostante la disperazione di cui sono intrise, le fa apparire necessarie epifanie di una mente che, sebbene “distrutta”, ha faticosamente raggiunto con esse la cupa quiete della maturità.




Da Nostra Signora dei Turchi- Carmelo Bene

martedì 5 gennaio 2010


“I cretini che non hanno visto la madonna, hanno orrore di sé, cercano altrove, nel prossimo, nelle donne – in convenevoli del quotidiano fatti preghiere – e questo porta a miriadi di altari. Passionisti della comunicativa, non portano Dio agli altri per ricavare se stessi, ma se stessi agli altri per ricavare Dio. L’ umiltà è conditio prima. I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto comunque. Essere più gentile dei gentili. Essere finalmente il più cretino.
Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione".