domenica 29 gennaio 2023
Ettore Fobo
La trama nascosta è più forte di quella manifesta (Eraclito)
Ettore Fobo
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Etichette: Guglielmo Aprile, Lankenauta
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Etichette: poesie, Yehuda Amichai
***
da “Un arpeggio sulle corde” – Kae Tempest- traduzione
Riccardo Duranti- edizoni e/o- giugno 2021
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Etichette: Kae Tempest, Kate Tempest, poesie
Ettore Fobo
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Etichette: Canti d'Amnios, Matteo Gennari, reading
La prima data è romana: lunedì 23
gennaio 2023. Ore 21. Teatro Hamlet, via Alberto da Giussano 13, Roma.
Andateci, se potete.
Ettore Fobo
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Etichette: Letizia Corsini, Paolo Spaziani, teatro
Un ragazzino cieco
con un cartello fissato al petto.
Troppo piccolo per stare fuori
da solo a mendicare,
ma tant'è.
Questo secolo strano
con la sua strage degli innocenti,
e il volo sulla luna-
ora mi sta aspettando
in una città strana,
nella via in cui mi sono perso.
Mi sentì avvicinare
e si tolse un giocattolo
di gomma dalla bocca
come per dire qualcosa
ma non fu così.
Era la testa, la testa di una bambola,
tutta masticata,
la tenne alta per farmela vedere.
Il duplice sogghigno era per me.
(traduzione Andrea Molesini)
***
ll 9 gennaio ci ha lasciato Charles Simic. In questo blog
potete trovare diversi articoli a lui dedicati.
Ettore Fobo
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Etichette: Charles Simic, poesie
È
con grande orgoglio che vi comunico che “Canti d’Amnios” è risultato finalista
alla decima edizione del "Premio Letterario Internazionale Città di Sarzana". Ringrazio
la giuria tutta. Riporto di seguito l’intervista che mi ha fatto la gentilissima
professoressa Marisa Vigo, in occasione del Festival degli Autori di qualche settimana
fa. Esiste anche un video a questo link. Vi ringrazio dell’ascolto.
Ettore Fobo
Marisa Vigo: Il
taglio filosofico esistenzialista Le è connaturato o trova anche
influenze e solleciti da parte di Autori letti e condivisi?
Ettore
Fobo: Penso che molti autori abbiano segnato la mia vita in maniera profonda,
in qualche caso forgiandola. Mi considero soprattutto, più che uno scrittore, più che un lavoratore, più che un consumatore, forse persino più che un poeta, un lettore.
Fra gli autori che mi hanno segnato sin dall’adolescenza
e che hanno avuto un’influenza sulla mia vita, non seconda a quella che hanno
avuto i miei genitori e il contesto sociale in cui siamo immersi, cito due nomi
su tutti: Charles Baudelaire e Friedrich Nietzsche.
Perché
esiste in me questa rottura radicale,
originaria, fondante, con gli enunciati discorsivi dominanti, direi nella nostra intera civiltà occidentale,
non solo di questa società particolare
che ne è un’espressione.
La
poesia è questa rivolta linguistica, silenziosa, non appariscente, invisibile,
ma non vana perché rinnova il
linguaggio, lo mette davanti ai suoi buchi neri, ne ritrova la musica segreta. Come ha
mostrato Rimbaud, è una rivolta contro il Tempo, contro la Morte, contro Dio.
Rivolta per ciò stesso destinata a un terribile scacco. Forse l’intero
Novecento ne è testimonianza.
2)
M.V: Vuole leggerne una, aggiungendo le Sue
considerazioni?
Si
tratta infatti di esplorare quella che io chiamo in questo testo ”musica del
principio”; ovvero ciò che precede la razionalità mercantile, come insieme di
codici normalizzanti e produce le
concettualizzazioni che ci appesantiscono e che
impediscono al linguaggio di fluire nel suo moto ondoso originario,
amniotico, e il dualismo della logica disgiuntiva sia restituito al gioco
albale e ambiguo delle ambivalenze e corrispondenze simboliche.
3
Ci parla del Suo stile colloquiale, scegliendo una lirica che lo esemplifichi?
(Lapsus a matita)
La
poesia, almeno per come la vivo io, è la manifestazione di un’
intersoggettività enigmatica, un colloquio tra le voci che ci abitano nel senso
di una moltelicità di maschere che alludono, non possono fare altro, a ciò che profondamente
siamo, aldilà di cio che ci raccontiamo coscientemente.
La
poesia quindi come insieme di voci che colloquiano, anche attraverso il tempo e
lo spazio, anzi mettendo in crisi, come ha fatto la fisica contemporanea,
queste stesse categorie.
Leggo
Lapsus a matita
4
A Suo
avviso dall'intelligere deriva la consapevolezza della superiorità
umana, il dramma della croce non cercata e non voluta, la ricerca
mai raggiunta del varco, o anche una luce consolatoria?
Dopo la Sua risposta, ascoltiamo anche una poesia che evidenzi il
tema.
Per
Sofocle “Sapere è patire”. Tutta la nostra consapevolezza sembra fermarsi qui.
Io vedo questo ma vedo anche altro, il sapere lo considero un risveglio, preferibile al sonno dell’ignorare. Non c’è
però superiorità ontologica dell’uomo sugli altri animali perché ciascun essere
vivente realizza la propria essenza secondo necessità.
Leggo I know the world
5
Completiamo con la Sua percezione dell’esistenza che non quaglia e che
l'affianca alla posizione della poetessa Piera Oppezzo, vissuta nel
secolo scorso, da Lei citata nella Sua Opera. Era convinta che “nella vita o si
vive o si scrive". Leggendo la Silloge la funzione da Lei assegnata alla
Poesia appare poliedrica, mutevole, ondivaga, tra il fluire spontaneo e
motivato di pensieri e di emozioni, il dubbio che non abbia né vigore, né
scopo, l’atteggiamento maudit di chi contesta e dissacra. Oggi, giunto
all'età di 46 anni, pensa che la Sua poesia sia approdata ad un punto fermo? A
Lei e ai Suoi versi la risposta.
Negli
anni sono stato attraversato da numerosi flussi poetici e ho fatto esperienza
di visioni differenti della poesia stessa.
Quello
che è rimasto costante è la consapevolezza di un incessante divenire che ci
plasma indipendentemente dalla nostra volontà cosciente. La poesia è proprio
quella sonda utile per captare queste metamorfosi.
Per
quanto riguarda la distinzione anche pirandelliana fra vivere e scrivere c’è
sicuramente della verità. Non fosse che scrivere ci pone nel nucleo stesso delle
nostre umane contraddizioni e quindi è un’esperienza profondamente e spesso
terribilmente vitale.
Leggo
Amnios
Pubblicato da Ettore Fobo alle 20:00 0 commenti
Etichette: Canti d'Amnios, Marisa Vigo, Premi, Premio Internazionale Città di Sarzana”
Suggerisco agli amici
romani di non perdersi l’evento teatrale di Paolo Spaziani, con Letizia Corsini
alla regia, che si terrà al Teatro
Stanze Segrete in via della Penitenza a Roma,
lunedi’ 12 dicembre alle 21. Si tratta di una versione di un poemetto di
Georges Bataille. Vi rimando al link del teatro.
Di questo straordinario duo di teatranti ho scritto a
proposito di un altro evento, che si tenne
a Milano nel febbraio 2018 Lor ga
na crur, da testi di Antonin Artaud.
Lo riporto integralmente:
“ Lor Ga Na Crur: Paolo Spaziani
incarna Antonin Artaud”
Si inizia con il silenzio,
inevitabilmente. L’attore, Paolo Spaziani, è seduto su un cubo e sembra
attendere l’ispirazione con un aspetto fra il meditabondo, lo stranito,
l’indifferente. Il pubblico lo scruta,
in attesa. Il palco è piccolo, angusto, claustrofobico. Spetterà all’attore
rivelare le sue potenzialità nascoste,
dove la parola si riscopre canto.
Ed ecco dunque, come un’improvvisa eruzione, che comincia il dire. Ed è un fiume in piena che
utilizza un testo ispirato ad Artaud, accostando le due lingue, francese e italiano, per ispezionare il limite stesso di ciò che
chiamiamo realtà e infrangerlo con l’irruzione nel linguaggio dei segni del
caos, prelinguistico e primordiale, qui annunciato anche dalle glossolalie che sono già nel titolo dello spettacolo, Lor Ga Na Crur.
Tutto ciò per restituirci le
fascinazioni dell’immediato, facendo saltare le sovrastrutture linguistiche,
per ridarci il senso di un altrove tanto più potente quanto più la parola è
spinta nel precipizio di una dizione puramente musicale. Il testo è un furente attacco ai concetti di realtà,
identità, essere, Dio, mondo; tutto
l’armamentario delle menzogne metafisiche che fanno dell’uomo un recluso sul
fondo dell’abisso.
Nell’interpretazione magistrale
di Paolo Spaziani la poesia cessa di essere un morto significato letterario per
divenire flusso melodico, rituale magico che si contrappone, anche con
violenza, alla magia nera sociale, quell’insieme di codici e convenzioni che
rendono la nostra esperienza del mondo “tristemente
carceraria” come si legge nella presentazione dello spettacolo.
La letteratura viene
disintegrata, non è più scrittura ma ritrova l’oralità come suo fondamento.
Così Paolo Spaziani riscopre Artaud come fatto musicale, lo reinventa,
mescolando con leggerezza i linguaggi, il francese, l’italiano e quello strano
grammelot glossolalico che rappresenta la cifra dell’ultimo Artaud.
L’estraneità del poeta francese al mondo, alla letteratura, all’essere, al
senso, a quello che Auden chiamava ”il
dialetto della tribù” e Artaud stesso “la
fogna del pensiero di tutti” è assoluta e con rigore assoluto la voce di
Spaziani ce la mostra in tutta la sua radicalità. E la crudeltà di questo
teatro si rivela soprattutto nella demolizione dei concetti che puntellano le
nostre prigioni mentali.
Così, in questo che è il più piccolo teatro
milanese, il Teatro Studio Frigia
Cinque, con una scenografia spartana, una luce fissa e quasi dolente, con la
regia di Letizia Corsini, il 16 e il 17 febbraio di questo 2018, Paolo Spaziani ha regalato due serate
indimenticabili di poesia allucinata,
ispirata a questo grande visionario che è stato Antonin Artaud. La voce
di Paolo Spaziani, moltiplicando i moduli sonori, ha spaziato dal soffio al
grido, dalla dolcezza all’orrore, senza mai perdere in consapevolezza musicale.
Lo spettacolo si riscopre evento
e l’attore un negromante che contrappone il rigore scandaloso della propria
musica interiore alla volgarità della rappresentazione. Così
l’irrappresentabile della poesia demolisce la scena, la disincarna, la dissipa. Essa non è più il luogo dove si
replicano i rapporti di potere in seno alla società ma la crisi stessa di
questi in un linguaggio che desidera ardentemente frantumarli. “Arte
Anarchica”, si legge nel volantino di presentazione. Tutto si dissolve tranne
la voce, tranne il corpo, questo grande
incatenato nel regno della Metafisica e dei concetti.
Paolo Spaziani diventa Antonin Artaud, se questo nome può designare
qualcosa di più di flussi, punti di forza, singolarità e ci restituisce così
un’antica idea di teatro; è colui che esce dalla folla e comincia la cadenza di
un canto tragico, al ritmo del ditirambo dionisiaco, un’idea antica certo ma paradossalmente colma di un futuro
che oggi pare impossibile, quando,
come ha scritto Foucault: “ Le parole di Artaud apparterranno al suolo stesso del nostro linguaggio
e non alla sua rottura. “
***
Andate a vedere Paolo Spaziani, in questa sua reinvenzione
batailliana se credete che l’atto e l’attimo teatrale, spezzando i codici normativi, ci possa restituire alla visione di un tempo
più profondo di quello che sperimentiamo
vivendo o illudendoci di farlo. Grazie dell’ascolto.
Ettore Fobo
Pubblicato da Ettore Fobo alle 10:30 0 commenti
Etichette: Antonin Artaud, Georges Bataille, Letizia Corsini, Paolo Spaziani, teatro
"Voi siete soltanto poeti. Io sto dalla parte della morte."
J.R
***
Sono sempre stato affascinato dal dadaismo e dalle sue figure quasi fantasmatiche come Jacques Rigaut. Scrivere e vivere rimanendo all’altezza della morte. Duro destino del poeta esule per condizione originaria e naturale.
Pubblicato da Ettore Fobo alle 13:47 2 commenti
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È di qualche tempo fa la notizia del Premio ricevuto (Riconoscimento al Merito della Giuria) al Premio Apollo dionisiaco di Roma, per l'edizione 2022.
È per la seconda volta che ricevo questo riconoscimento, importante soprattutto perché legato alle pregevoli letture critiche della professoressa Fulvia Minetti. Ci tengo particolarmente a farvele leggere perché sono fra gli interventi critici più esatti sulla mia poesia, perché in essa vi è un costante ed eternoritornante riferimento ai temi espressi dalla professoressa che li ha colti così bene. Naturalmente, non uso a caso la parola eternoritornante. Potete consultare queste critiche e leggere le relative poesie online qui.
Apollo dionisaco è un Premio in cui il binomio poesia arte si riscopre inscindibile, perché oltre a poeti premia pittori, scultori e altri artisti; esistono dei video che non commentano ma fanno da sfondo pittorico musicale alla parola della poesia. Sono molto emozionanti. Vi rimando in questo caso a YouTube.
Ettore Fobo
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Etichette: critiche su Ettore Fobo, Premi, premio Apollo Dionisiaco
Ettore Fobo
Pubblicato da Ettore Fobo alle 10:30 0 commenti
Etichette: Canti d'Amnios, Premio Internazionale Città di Sarzana”, reading
Nudi e senza pudore
i poeti lasciano in eredità
solo la vergogna che non hanno.
La mia poesia è un ridicolo reato:
un atto impuro in luogo privato.
Avido il mio cuore
cede al dolce inganno
anche stasera
e scrivo versi maldestri
ché dei poeti io non ho la purezza.
Io nasco bastarda.
***
da "Nuda"- Doris Bellomusto - Giuliano Ladolfi Editore- giugno 2022
Pubblicato da Ettore Fobo alle 10:30 2 commenti
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***
da “Lo
scambio simbolico e la morte”- Jean Baudrillard- traduzione Girolamo Mancuso-
Feltrinelli- marzo 2022
Pubblicato da Ettore Fobo alle 17:47 4 commenti
Etichette: aforismi, Jean Baudrillard
Noi gente di Cipangu
Quelle isole avvolte da nuvole dorate
non esistono in nessuna carta nautica
anche noi che di quelle isole siamo gli abitanti
non esistiamo in nessuna realtà
il mare nato dall’illusione del mercante Marco Polo
e confinante con quel mare l’oceano della mente
dei naviganti sulle cui tempeste affioriamo e ondeggiamo
noi gente di Cipangu in fondo
siamo una moltitudine non esistente sogni illusioni
non dovete credere alle nostre parole.
(traduzione di Maria Teresa Orsi)
***
da “Poeti Giapponesi”- a cura di Maria Teresa Orsi e Alessandro Clementi degli Albizzi – Einaudi- 2020
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Tornano i pescatori con le stelle marine
spartiscono il cibo con i poveri, infilano corone ai ciechi
gli imperatori escono nei parchi in questa ora che assomiglia alla vetustà
delle incisioni
e i domestici fanno il bagno ai cani da caccia
la luce indossa i guanti
apriti finestra - dunque
ed esci notte dalla stanza come il nòcciolo dalla pesca,
come il prete dalla chiesa,
dio: carda la lana agli amanti sottomessi,
dipinge gli uccelli con l’inchiostro, cambia guardia alla luna,
-andiamo a prendere i maggiolini
per chiuderli nella scatola
-andiamo al ruscello
per fare vasi d’argilla
-andiamo alla fontana perché io possa baciarti
-andiamo al parco comunale
fino al canto del gallo
affinché si scandalizzi la città
-oppure adagiamoci lassù nella stalla
dove punge il fieno e si sente il ruminare delle vacche
che poi hanno voglia dei loro vitelli
partiamo, partiamo.
1913, Mangalia
***
Da “Prime poesie “ – Tristan Tzara –cura e traduzione Irma Carannante – Edizioni Joker –aprile 2015
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Matteo Gennari nasce nel 1975 a Milano e vive per lungo tempo nella periferia milanese. Prima dei trent’anni, roso da un’insolubile inquietudine, disgustato dalla Milano da bere e da un’Italia oramai priva di realtà e drogata di televisione, decide di emigrare, per stringere in pugno qualcosa in più della solita polvere e sceglie il sud del mondo, il Brasile. Attraversa la grande acqua, non tornerà più indietro.
Decide di partecipare a un progetto umanitario nella più grande favela di Rio de Janeiro, la favela Rocinha. Passa da una periferia all’altra. Dalla periferia paranoica di Milano alla baraonda caotica e pericolosa di Rio. Cambia continente, cielo, sguardo. In favela lavora con una Ong, si occupa di bambini, l’ambiente è difficile: sparatorie, delinquenza, rischi. Incontra la religione dell’Umbanda, si interessa di spiriti guida, di possessione ma capisce presto che la sua vera possessione, il suo daimon è da sempre la letteratura.
Scrive come un pazzo o un dannato. Dalla sua immaginazione escono romanzi e raccolte di racconti come Favelado, Come perdere l’anima, Il fumo della pipa va lontano, Cristo si è fermato a Rio, poesie, canzoni. Sulla sua officina creativa non tramonta mai il sole. Poi improvvisa come una colata lavica Rio gli fornisce il materiale e lo scenario per immaginare questa storia che diventa suggestiva, nonostante sia di degrado. Conturbante e affascinante, il personaggio di Helena vi colpirà, vi sedurrà, vi ammalierà. Non la potrete più dimenticare. Perché non ne possiamo più di questa letteratura che mima miseramente il linguaggio delle fiction televisive, di questa letteratura per famiglie, di questa sociologia da torri d’avorio, e vogliamo stringere in pugno la realtà anche se ha le spine e fa male, anche se è amara.
”Helena” è un romanzo breve e perturbante, qui Gennari è alla sua prova più riuscita. Romanzo di cuore e di sesso, romanzo maledetto come il mondo in cui è ambientato, quello che Majakovskij chiamava ”l’infernaccio brutto della città”, in questo caso Rio de Janeiro, vista aldilà del mito cartolinato per turisti, nel cuore addolorato e indecente delle sue contraddizioni di megalopoli smisurata, senza misura, in quella ubris che è essenza del mondo moderno.
Helena è il personaggio attraverso cui Gennari mostra le piaghe e le pieghe di un pornocapitalismo che ci è entrato oramai nel sangue. Inutile anzi stupido continuare con le tiritere moralistiche, con l’ipocrisia di chi, ammoniva Moravia, si scandalizza, Gennari spacca un muro di carne e da questo muro gronda quel sangue che noi chiamiamo il reale. Helena emerge, splendida e forte, con le sue ferite naturalmente, i gravi traumi subiti ma è come se la sua femminilità fosse rimasta intatta e brillasse come immagine potente, essendo Helena una vittima sì di un mondo che si crede moderno e che sessualmente non è ancora uscito dalle caverne, ma anche artefice del suo destino di puttana. Destino abietto? Smettiamola con queste cretinerie parrocchiali, funzione necessaria di un pornocapitalismo ormai omnicomprensivo, divenuto scenario linguistico sempre più pervasivo. Non è un caso che il monologo di Helena sia raccontato via webcam in un incontro di sessualità virtuale con un cliente che è solo una lucina verde sul computer di lei e mai compare nel testo ma cui il testo è rivolto. Inutile girarci intorno: quella lucina verde siamo noi.
Helena è un personaggio a tutto tondo di puttana che rivendica il corpo come luogo e teatro di una guerra simbolica. Contro il Padre, Gennari a tratti pare suggerire questa lettura psicoanalitica ma c’è di più. Perché la pornografia, come ha mostrato Ballard, come ha confermato Baudrillard, è il linguaggio stesso della contemporaneità, con l’ipertrofico culto per il realismo, il dettaglio esasperato, lo zoom sulla lacrima, i funerali del papa in diretta, la descrizione scientifica di un intervento di mastoplastica, la sexy morte di Diana Spencer in crash automobilistico, raccontata nel minimo dettaglio dell’ultimo respiro… Ovunque, ovunque, pornocapitalismo in atto. Che fare? Mettersi a fare i Giovenale oggidì non conviene, ma il sesso è qualcosa che va reinventato, si sa: aldilà delle seducenti forme dei suoi feticci contemporanei.
Helena queste cose non le sa, è solo una “ragazzina”, ma attorno al suo corpo si addensano tutti i sogni e gli incubi di una Rio de Janeiro più nera che mai.
Ettore Fobo
***
Il romanzo può essere acquistato in prevendita a questo link.
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Etichette: Matteo Gennari, Prefazioni
È appena uscito, in versione cartacea, un libro di poesie da me scritto. S’intitola “Canti d’Amnios” ed è pubblicato dalla casa ed...