Incipit di Altri Libertini- Pier Vittorio Tondelli

mercoledì 30 dicembre 2009

“Sono ormai giorni che piove e fa freddo e la burrasca ghiacciata costringe le notti ai tavoli del Posto Ristoro, luce sciatta e livida, neon ammuffiti, odore di ferrovia, polvere gialla rossiccia che si deposita lenta sui vetri, sugli sgabelli e nell’aria di svacco pubblico che respiriamo annoiati, maledetto inverno, davvero maledette notti alla stazione, chiacchiere e giochi di carte e il bicchiere colmo davanti, gli amici scoppiati pensano si scioglie così dicembre, basta una bottiglia sempre piena, finché dura il fumo”.



Su Stalker di Andrej Tarkovskij

lunedì 28 dicembre 2009

In Stalker ci sono tre personaggi che definiscono uno spazio esistenziale e culturale, lo scienziato, lo scrittore, e l’idealista, e poi c’è la zona, luogo miracoloso, in cui un ‘invisibile presenza è in grado di esaudire tutti i desideri . Ma il suo segreto si svela pian piano nella dinamica del film: questa entità sconosciuta,realizzando il tuo desiderio più profondo, non ti reca la felicità, ti permette di conoscere la tua essenza sconosciuta, e così facendo ti uccide. La morale evidente del film è che la felicità non è mai nell’esaudire i desideri dell’Es, ciò è distruttivo, perché la natura umana è fondamentalmente malvagia, lo scrittore così rinuncia a entrare nella stanza dove alberga questa entità , consapevole del fatto che essa gli avrebbe rimandato un’immagine di sé troppo brutalmente vera.

Conoscere se stessi aldilà dell’impalcatura sociale che ci protegge dall’esterno e dall'interno, e che noi potremmo chiamare io, in senso freudiano, è pericoloso e destabilizzante. Si ricade così nella visione cristiana dell’Apocalisse, dei Vangeli, e il film diventa una meditazione sulla felicità, e di come essa sia incompatibile con il desiderio. Lo stalker è una funzione cristologica, ma il suo sogno di salvare fallisce, l’uomo è condannato,come in Kafka, a restare sulla soglia del tempio a lui destinato, attonito, conscio che il proprio desiderio più profondo gli è ignoto, e che realizzarlo non porta felicità, più facilmente la morte. Quindi questa prodigiosa macchina della felicità che lo scienziato vuole distruggere, che lo scrittore teme come specchio della sua depravazione, e che lo stalker idealizza fino probabilmente a identificarla con Dio, è inquietante come l’apparizione del nostro sosia sconosciuto, della nostra nemesi inavvertita.

Sommario di decomposizione- Emil Cioran

sabato 19 dicembre 2009


Mi sono immerso per l’ennesima volta in un libro di Cioran, e per l’ennesima volta la sua delusione cruenta, il suo scetticismo, il suo tagliente disincanto, mi sono parsi efficaci antidoti contro quella scriteriata e sempre esaltata voglia di vivere, che è alla base di tutto il fanatico dimenarsi delle persone umane, causa di così’ tante disgrazie, in ogni epoca e in ogni luogo. Lapidario, Cioran ha uno sguardo capace di disintegrare tutte le nostre illusioni, le favolette che ci raccontiamo per continuare a dormire, devastando il mondo con l’imperizia del nostro sonnambulismo. La sua convinzione profonda è molto semplice: “Tutto ciò che non è indifferenza è patologia”. Convinzione in profondo contrasto con quella fede nell’engagement che caratterizzava il pensiero di molti intellettuali negli anni in cui Sommario di decomposizione vide la luce, sul finire degli anni quaranta del secolo scorso. Le fedi, politiche, religiose, lungi dall’essere viatici verso la salvezza, sono propaggini di quel fanatismo che ci fa proiettare i nostri ardori dementi e le nostre follie ovunque, fino a fare del mondo quel “serraglio di alienati” di cui scrisse già Nietzsche, per puntellare con la stampella delle convinzioni “il fondo bestiale dell’entusiasmo”, per cui Cioran scrive che attraverso l’attaccamento a un’ideologia, o a una fede, qualunque essa sia , “il passaggio dalla logica all’epilessia è compiuto”.

“Perda l’uomo la sua facoltà di indifferenza, diverrà virtualmente assassino” e tutta la Storia e lì per provarlo, per cui le argomentazioni di Cioran mostrano come tutti massacri nascono dalla fondamentale incapacità dell’uomo di accettare il proprio vuoto. Come già in Schopenhauer ma in maniera forse più radicale, ”il principio del male sta nella tensione della volontà”, per cui le “larve che predicano”, coloro che sono abitati da convinzioni, coloro che vogliono essere “fonte di avvenimenti”, sono i peggiori nemici di colui che invece ha scelto la via del distacco da sé e che non crede più in nulla, si dissocia dal fanatismo dell’atto, e diventa un essere vuoto, senza sostanza, ma per questo non più vittima del “gioco universale”, non più aggiogato all’idea delirante di essere centro e fulcro dell’universo. Certo questo è pericoloso, se “la vita si crea nel delirio e si disfa nella noia”, riconoscere il proprio nulla, fa di coloro che si sottraggono all’universale delirio, dei fantasmi di anemia, dei traditori della specie. L’esempio estremo è il filosofo Diogene che liberatosi di tutto, morali, metafisica, buon gusto, uccidendo il maestro dentro di sé, e la sua vanagloriosa voluttà di cambiare gli altri, di migliorarli, di offrir loro l’esca di un sistema che li induca ad agire, è animato unicamente da “un orrore testicolare del ridicolo d’essere uomo”, raggiungendo quella dimensione in cui si mescolano “ saggezza, amarezza, farsa”. Cioran può così deplorare l’“’arroganza della preghiera”, poiché attraverso qualsiasi fede vince il desiderio di “perpetuarsi nell’’eternità”, e questo è il penoso delirio di grandezza di un individuo che ha smarrito ogni senso reale di sé, una forma di megalomania che irrita Cioran che a certo punto scrive, come in un’impennata di lucidità: “Chiunque non accetti la propria nullità è un malato di mente”. Si capisce così che l’umanità è per Cioran uno spettacolo insostenibile, ed egli non offre alcuna ricetta di salvezza, non propone nient’altro che la propria chiaroveggenza, l’uomo è un animale caduto nella trappola della storia, nell’abisso senza fondo dell’azione insensata, per cui risuonano ancora le parole di Pascal: “L’infelicità degli uomini viene da una sola cosa, non sapersene stare in pace in una camera”.

Ciascuno si inganna sulle proprie reali dimensioni, è allucinato dal proprio ego , così potente da desiderare di rispecchiarsi in Dio, sua estensione metafisica, e poiché “In ogni uomo sonnecchia un profeta e quando si risveglia c’è un po’ più di male nel mondo “, chi si dissocia dall’attività attraverso la pigrizia, dalla megalomania attraverso la modestia, riconosce il proprio nulla,”nell’amarezza di ogni cellula” . Breviario di tutti i disgusti, summa della modernità, “epopea della lucidità “ come scrive Mario Andrea Rigoni, Il Sommario è uno di quei libri che lacerano il velo di Maya delle nostre esaltazioni di bipedi sconvolti nel profondo da angosce incommensurabili. Per Cioran, “apolide metafisico “, come per tutti noi , non c’è più patria, in cielo o in terra, solo la solitudine ci spinge a cercare, nel gran caos delle nostre esistenze, qualcosa che assomigli al vuoto, che ci liberi finalmente dalle farneticazioni dell’agire, sempre epilettico, sempre insensato, giacché la vita è male, quaggiù, dove “i secoli si sono appesantiti e opprimono l’istante“,ed è un insulto alla beata pace dell’inorganico il nostro forsennato desiderio di esistere. Togliamoci dagli occhi le bende che la nostra vanità così premurosa ci ha fornito, guardiamo in alto, verso le stelle, l’enorme silenzio, l’assurdo vuoto che c’è lassù, è anche il nostro; fare questo affinché una “disciplina della sterilità”si impadronisca di noi, preservandoci in ugual misura dagli “ entusiasmi e dalle angosce”, e affinché, contro ogni morale della sensibilità ad ogni costo,“ nessun sentimento ci turbi più, e che l’anima diventi la più ridicola delle anticaglie …”.

I miti del nostro tempo- Umberto Galimberti

domenica 6 dicembre 2009

Di alcuni libri vi è necessità e a questa categoria appartiene l’ultima fatica di Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo, edito da Feltrinelli. Se ciascuna epoca si interroga su se stessa, lo fa attraverso i suoi filosofi, e il pensiero oggi più che mai è necessario come l’ossigeno, per irrorare i polmoni della contemporaneità, guastati dalla cattiva aria dei luoghi comuni, che sembrano spesso avere il sopravvento in virtù della loro micidiale semplicità, e che la filosofia ha il compito di de-mitizzare. C’è bisogno come l’ossigeno di riflessioni che separino ciò che è fittizio e frutto di illusioni da ciò che un’epoca ha di più vitale; i miti del nostro tempo sono appunto quei pensieri elementari “che ci possiedono e ci governano” inconsciamente, pensieri con i quali si vuole sommariamente rispondere ai quesiti che ci pone la vita, sono quelle idee fisse da cui è necessario liberarsi per approdare a uno sguardo il più possibile lucido e oggettivo, fuori dalla modalità delle ideologie contemporanee. Così Galimberti passa in rassegna questi miti, che illusoriamente si presentano alla nostra sensibilità come verità metastoriche, mostrandone invece la natura storica, profondamente intrisa delle logiche della produzione. Maternità, identità sessuale, giovinezza, felicità, intelligenza, tecnica, mercato, Galimberti cerca di ripensare il loro effetto su di noi, di mostrare in controluce la distanza che separa certe idee che diamo per scontate dalla verità difficile del nostro personale percorso. Questi miti sono i pensieri semplici indubitabili e rassicuranti, che non mettiamo in discussione perché ci fanno comodo, ma che in profondità ci minano, soffocandoci con la loro pretesa di spiegare una realtà che invece solo attraverso la fatica di un pensiero critico può accedere alla sua verità sepolta. Il pericolo da scongiurare è l’assolutizzazione delle idee; lo smontaggio dei miti, individuali e collettivi, è quindi un’operazione assolutamente vitale perché essi ci condizionano inconsciamente, determinano un malessere diffuso, sono alla base di quelle farneticazioni che alla lungo ci rendono la vita invivibile.

E’ il tema dell’ambivalenza che viene enunciato in più punti dei primi due saggi, molto organici, molto strutturati, ambivalenza dell’amore materno con il suo misto di amore ed odio, che può arrivare fino all’omicidio; ambivalenza dell’identità sessuale, che ha in sé, a livello biologico, la possibilità di essere molteplice e sfuggire alla dicotomia del maschile e del femminile, imposta culturalmente da millenni, i millenni se non altro della società patriarcale. Ma Galimberti ci ricorda che nella modernità si assiste a un evento inedito, poiché è cessato quello scambio vitale fra società e famiglia, ciascun nucleo famigliare è isolato e ciascun individuo lo è di conseguenza, per via dell’imporsi di una visione esasperata della privacy, vero culto contemporaneo. Dentro questo isolamento si consumano le tragedie di follia, perché cessando lo scambio fra interno ed esterno, tutto non può che deflagrare nella “cantina buia “ della nostra anima, che non può rassegnarsi all' “ottundimento emotivo … l’alienazione , l’apatia, l’anomia, la solitudine di tutti nella vita di città”. Dietro il mito della giovinezza Galimberti coglie tutte le deformazioni di una società che ci impone di essere efficienti, esteticamente belli, eternamente giovani. Ma se “la faccia del vecchio è un bene per la comunità”, come scrive Hillmann, la vecchiaia può essere vissuta non come un declino, ma come un apice, in cui si può conoscere l’amore senza scopo, l’amore disinteressato.

La felicità, altro mito contemporaneo, è la fantasmagoria di un desiderio senza limiti, dell’avidità, poiché un ego strapotente, che desidera tutto, viene allevato dalla nostra cultura, quando invece porre dei limiti alla “miopia del desiderio” era il richiamo della tragedia greca. Colla felicità si ha a che fare col desiderio oceanico di fusione, che ricorda la sensazione primordiale del feto, si ha a che fare con qualcosa di aleatorio che non si può conoscere, ma solo vivere. Ma altrettanto poco definitivo è il dolore: “La signoria del tempo non ci consente di morire né di dolore né di felicità”. Al tempo stesso la propensione alla felicità è necessaria ma questa non discende dal ceto sociale, dall’aspetto fisico, o da alcunché su cui non sia abbia un reale controllo, è piuttosto racchiusa nell’esortazione di Nietzsche: “Diventa ciò che sei”. Ed è questo un dovere etico, non farsi dominare dalle fantasie spesso indotte, da un desiderio sconfinato, infatti è proprio questo desiderio, sono proprio queste fantasie, scrive Galimberti, che generano infelicità, piuttosto è necessario accedere come i greci alla “giusta misura” di chi conosce se stesso e i propri limiti mortali.

Il culto di un’intelligenza standardizzata è uno dei problemi di questa società che anche attraverso la scuola impone una visione dell’intelligenza pericolosa; il problema è che di intelligenze ce ne sono molteplici, e quello che più conta è “l’inclinazione” cioè ciò che ci detta il daimon, non quella ”intelligenza convergente” che è versata in tutto, flessibile e che viene idolatrata culturalmente. Ciò che più conta è l’individuo, io credo si possa dire, con la sua personale visione, le sue passioni, non un mito astratto, che per di più impedisce una reale eccellenza, perché l’eccellenza è sempre uno squilibrio, le facoltà non sono distribuite a pioggia, ciascuno ha la sua propria intelligenza, ed è un rischio normalizzare la sensibilità , per far emergere quel pensiero semplificato, di natura binaria, che domina nell’ambito dell’informatica, per esempio, ma è un segno di millenni di stratificazioni culturali. Ciò che più conta non è esibire le qualità della propria intelligenza, ma porre ad essa dei limiti, che permettono una reale comprensione dell’altro, perché è attraverso la comprensione dell’altro che noi possiamo superare le anguste strettoie del narcisismo.

Nella moda, attraverso una lettura di Barthes, Galimberti vede il luogo per eccellenza in cui si consuma l’estasi contemporanea della novità; la moda è dunque essenzialmente nichilistica nella sua essenza, poiché per esistere deve negare se stessa. A rischio c’ è dunque l’identità che vive della continuità fra presente e passato, la moda trae la sua potenza dalla dialettica fra apparenza e sparizione del corpo, dal fatto che ci affascina imponendoci un eterno presente in cui però la nostra individualità pare dissolversi, esattamente come si dissolvono una dopo l’altro i suoi prodotti.

L’eccesiva medicalizzazione del male di vivere è un altro dei problemi che Galimberti individua, in un mondo in cui tragicamente la sofferenza depressiva subisce un vertiginoso incremento, il filosofo ci ricorda che questa perdita di significato del mondo, questa “indifferenza dell’anima” prima di essere un problema dell’individuo, è una grave questione sociale. Se un bambino è abbandonato a ”eserciti di baby sitter”, all’invadenza del mezzo televisivo, non può certo elaborare quegli anticorpi necessari per evitare l’orrore della depressione, che può essere scongiurata solo dalla possibilità di condividere con qualcuno il proprio vissuto, altrimenti destinato a incancrenirsi nella solitudine senza scambio. La risposta al disagio di certi bambini, di certi adolescenti non può essere solo farmacologica, se la vulnerabilità è l’essenza stessa dell’uomo, per curare certe ferite è necessario che esse divengano parola, narrazione, e di questo disagio della contemporaneità non è solo la psicologia a doversene occupare, ma la filosofia stessa è chiamata a restituire senso e prospettive, laddove l’ottundimento emotivo lascia le sue scorie di malessere profondo.

Successivamente Galimberti si sofferma su uno dei suoi temi principali, la tecnica, e di come essa sia diventata la vera dominatrice della storia; se i greci si ponevano di fronte al mondo nella condizione di coloro che ne contemplano le leggi, impossibilitati a modificarle, con il cristianesimo assistiamo a una trasformazione: la natura non è più considerata esistente da sempre, ma come “prodotto” di una volontà, quella di Dio, il mondo diventa quindi qualcosa su cui l’uomo può intervenire e per strappare ad esso i suoi segreti affida alla scienza il compito di indagarne le leggi oggettive e alla tecnica ”essenza della scienza” il compito di piegarlo alla sua volontà. Ma nei secoli ciò gli si ritorce contro e la tecnica diventa “il vero soggetto della storia” riducendo l’uomo a “funzionario dei suoi apparati”e rendendolo alienato nella continua ricerca dell’efficienza a tutti i costi, riducendo la complessità del reale attraverso la glorificazione di un pensiero “calcolante”, capace solo di quantificare, un pensiero cui interessa solamente ciò che è “utile e vantaggioso” , rendendo così l’uomo incapace di accogliere orizzonti più ampi. La riflessione di Galimberti è inquietante, anche attraverso il web si compirebbe quella trasformazione dell’uomo, quella mutazione antropologica, per cui sarebbe in discussione la stessa capacità degli uomini della nostra epoca di pensare “Il buono” ,"il vero” , "il giusto” . Anche l’attuale sogno che il web diminuisca la solitudine dell’uomo contemporaneo svanisce nelle parole di Galimberti, la nostra società pare ormai votata a non vivere più nel mondo, ma, attraverso le nuove tecnologie, a consumarne l’immagine: "Il mondo può diventare illeggibile per overdose di informazioni e l'uomo può perdere il bene più prezioso che è la capacità di fare esperienza. Non siamo infatti onnipotenti come i mezzi di cui disponiamo, e non saranno certi mezzi onnipotenti capaci di mettere in comunicazione milioni di solitudini e fare di tutti i solitari, privati proprio dai mezzi di comunicazione della possibilità di fare un'esperienza condivisa, gli abitanti di un mondo comune".

C’è poi il mito tutto contemporaneo della globalizzazione che per Galimberti è essenzialmente un fenomeno che a livello mondiale tende ad eliminare le differenze fra i popoli, imponendo il trionfo del pensiero unico, a livello individuale a sopprimere la specificità di ognuno, generando quella sensazione di assurdità dell'esistenza che ciascuno ben conosce. Sembra si stia compiendo, col plauso di tutti, la terribile profezia di Nietzsche : ” Chi pensa diversamente va spontaneamente in manicomio". Anche il terrorismo con le sue atrocità sarebbe uno degli effetti perversi della globalizzazione, che per sua essenza è ingiusta, in quanto il suo fondamento è l'enorme disparità nella distribuzione della ricchezza sul pianeta, dove il 18% della popolazione gestisce l'83% delle risorse.

Così, scrivendo anche del mito della guerra, del mercato, della crescita, della razza,Galimberti naviga nel mare della contemporaneità, cercando di indicarci la rotta con la bussola del pensiero critico, mostrandoci in filigrana i condizionamenti della nostra era e affidando alla filosofia, ”terapia della mente “, il compito di liberarci dall’oppressione dei pregiudizi assurti al rango di miti collettivi.