Una poesia di Salvatore Quasimodo

lunedì 23 marzo 2015




Specchio

Ed ecco sul tronco
si rompono  gemme:
un verde più nuovo dell'erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.

E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell'acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c'era.

Salvatore Quasimodo

Il senso di una fine - Julian Barnes

sabato 7 marzo 2015







Il senso di una fine di Julian Barnes, tradotto per Einaudi da Susanna Basso, ha vinto uno dei più importanti premi della letteratura scritta in inglese il Man Booker Prize. Ha come sponsor nella quarta di copertina il noto critico Antonio D’Orrico, che lo esalta definendolo: “Bellissimo, bellissimo, bellissimo”.  Ma non è il solo, anche Nadia Fusini, Goffredo Fofi, Alessandro Piperno e altri si sono prodigati in elogi.  Con queste credenziali ci si aspetterebbe un romanzo almeno decente, invece leggo un’opera scadente, sciatta, incolore, fiacca, monotona, sostanzialmente inutile. Innanzitutto stilisticamente, il linguaggio ammicca ed è fintamente profondo; sovraccarica di citazioni letterarie, quella di Barnes è una prosa finto sofisticata ed esangue.

 Il personaggio principale, nonché narratore di tutta la vicenda, Tony Webster,  è un uomo qualunque che vive una vita del tutto ordinaria finché non scopre che un suo amico del liceo si suicidato tagliadosi le vene. Questo evento scatena in lui una ridda di ricordi che lo disorientano e nella seconda parte del romanzo un’inaspettata eredità turba la sua routine.

Questo è più o meno tutto, non un personaggio azzeccato, non un’idea vincente, non un balzo oltre l’ordinarietà stilistica, un romanzo mediocre che più volte sono stato sul punto di abbandonare.  150 pagine di nulla.  Dietro un bel titolo si cela un romanzo modesto, maldestro, definirlo con tanta enfasi ”bellissimo” non ha proprio ragione d’essere, dietro il tono amicale da brav’uomo del narratore e protagonista, probabile alter ego dell’autore stesso,  s’intuisce la vacuità e  direi la vanità dell’intera operazione.

Per giunta Il senso di una fine è considerato il miglior romanzo di Barnes, il che è tutto dire. La bonomia del suo tono pare ipocrita, non sopporto gli autori che per ingraziarsi il pubblico fanno gli amiconi, ti chiamano in causa, si rivolgono direttamente a te, ti fanno addirittura l’occhiolino.  Il romanzo gira intorno a una trama debole, confusa, raffazzonata; i personaggi sono tratteggiati in maniera grossolana, Tony Webster è una figura senza carisma, una nullità contenta di sé, che nel corso del romanzo scopre pateticamente la propria inettitudine e insoddisfazione,  personaggio incolore  più adatto a una farsa tragicomica che a un romanzo drammatico. L’altro nodo è proprio questo: Il senso di una fine è un dramma o una commedia mal dissimulata? Il sentore d’agrodolce in letteratura è una dissonanza di sapori fastidiosa. Barnes ci prova a suscitare interesse con qualche considerazione sull’esistenza, ma quasi tutte paiono faticose, contorte, vacue, a volte inutilmente altisonanti e soprattutto insapori. Il romanzo si legge davvero a fatica, con fastidio crescente.

Tracce di minimalismo obsoleto, linguaggio povero, idee consumate, caratterizzazioni insipide, finale insulso e sconcertante,  nell’insieme il romanzo appare datato, confuso, noioso e persino pedante, non un guizzo, non una luce, non una frase da ricordare, gli effetti sull’immaginazione sono soporiferi.  Potrebbe andare bene per chi soffre d’insonnia. È in sostanza un’involontaria apologia della mediocrità e dell’insignificanza, una riflessione scontata sulla fallacia della memoria, sull’impossibilità di stabilire la verità di un evento storico; il personaggio principale è una comparsa di un romanzo implicito, non ha volutamente lo spessore di un protagonista. Protagonista di che, poi? Di una storia che si dimentica nell’istante stesso in cui si legge. Gli amici di Webster sono sovrapponibili, tanto si somigliano, vengono confusi facilmente e sono interscambiabili, un po’ più sostanziosi i personaggi femminili ma tutto sommato dimenticabili. La scrittura è sacrificata all’understatement,  opaca, persino scialba,  perché le idee non ci sono. A tratti è persino irritante nella sua ostentata banalità. Per tutto il libro si attende un guizzo che non arriva.  Davvero un romanzo insignificante. Da evitare. Alla faccia dei premi prestigiosi e dei critici paludati.

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