La poesia come musica per l’oblio - una nota su Mark Strand

mercoledì 27 novembre 2013






Mark Strand racconta soprattutto la spoliazione di sé, l’annullamento dell’essere nell’oblio. Non può essere che una questione squisitamente (o forse mostruosamente) ironica, moscerino e ombra l’uomo, sommerso dal cosmico nulla, pesante come un miliardo di pianeti, dentro la mente: e sono i pregiudizi che lo animano, pupazzo di paglia che desiderio di distruzione incendia. Strand, poeta, sa tutto questo ma sa anche che l’oblio è pietà.

Noi saremo dimenticati e il deserto copre già i nostri atti, potremmo dire che li modella, li compone.  Finché non si fa luce un’intuizione: tutto questo essere per l’oblio in realtà è una vertigine. L’uomo novecentesco, che solo Francis Bacon ha ritratto in tutto il suo lacerante grido (mi correggo, inevitabile pensare anche a Edvard Munch), nasce tutto sfigurato da questa vertigine. Penso che Mark Strand racconti la nostra epoca in poesia come pochi sono stati in grado di fare. Egli è già un passo avanti. Coglie l’ironia dell’oblio. Ed è anche consapevole che c’è qualcosa di magico nelle parole della poesia. Io credo che sia la risonanza della musica dell’altro dentro di noi. L’altro è la nostra ombra. E canta. Non può raccontare nulla, perché tutto si sfalda, non può rendere conto di nessuna realtà perché tutto è illusorio. Può solo cantare. E nell’opera di Strand “Porto oscuro”(1993) , in fondo sommamente orfica,  il canto è l’unica realtà che  può redimere il mondo, quando diventa  un inno/ in cui le forme e i suoni del paradiso sono sepolti”.

Mark Strand, in un altro  suo capolavoro “Il Monumento”(1978), ci dice cose molto contraddittorie, in un modo elusivo, evitando ogni retorica, stregandoci con il suo tono quasi dimesso: ci dice che la poesia è,  paradossalmente, la realtà più profonda poiché noi possiamo vivere solo di parole. Al tempo stesso la poesia è troppo fragile, non c’è davvero nessuna immortalità in essa, e la sua mancanza di consistenza, la sua intangibilità,  è enorme. Ogni opera è scritta con inchiostro simpatico, è una cancellazione. Ci dice anche che noi siamo un mosaico delle nostre letture, mostrando che oggi l’alta letteratura non può che essere, come aveva già spiegato Eliot, la frammentazione degli universi letterari precedenti. Da qui l’ossessione tutta moderna per la  citazione, anche per la  citazione leggermente o fortemente alterata di cui il primo interprete fu Lautréamont . Strand sviluppa in sommo grado questa propensione alla citazione. Molti sono ne “Il Monumento”  gli autori citati con interi brani (da Cioran a Whitman, da Unamuno a Stevens, da Nietzsche a Wordsworth). La poesia contemporanea è già, a partire almeno da “La terra desolata” di Thomas Stearns Eliot (1922), pensando anche ai Cantos di Pound,  un colossale ipertesto, patchwork di tutte le sensibilità che nei secoli si sono espresse.

“Il Monumento” è scritto ed eretto per l’oblio dei secoli futuri che dovranno leggere in esso la nostra epoca opaca e insieme la rivelazione di ciò che è la scrittura, materiale per l’oblio, musica per l’oblio, fondamento vuoto dell’essere che ne denuncia la divina inconsistenza.

Perché qui il discorso di Strand è ironicamente metafisico, ironicamente perché non si erge a sistema, la sua poesia fa, però, baluginare il grande vuoto che ci compone, la multiforme assenza, la mancanza originaria che ci abita. E’ questo l’epos di Strand, un’epica della sparizione del sé, destinato ad annegare nel nulla. Tutta questa tragedia è in fondo comica ma non alla maniera di un Céline, l’uomo non è grottesco. I fantasmi non fanno ridere, non sono nemmeno reali, sono invisibili. In questo Strand ci racconta il nostro essere invisibili,   nella folla indifferente, il nostro essere sradicati  e vaganti come spettri sulla superficie del mondo, egli ci racconta l’enorme anonimato della città contemporanea, tatuato sulla nostra fronte come il numero della Bestia.

“Il risveglio prova solo l’esistenza della grande Macchina,
e la luce dura ti cade sulle spalle.
Cammini tra i morti e parli
dei tempi a venire e di questioni dello spirito.”

Per questo appartiene fortemente  alla nostra epoca ma ne “Il Monumento”  il poeta si rivolge a un traduttore di un‘epoca futura: quando noi non saremo più che polvere e rovine,  il futuro  ci vorrà  conoscere. Qui Strand ci getta in una vertigine temporale.  Il testo non riesce a raccontare nulla che non sia se stesso, il proprio esistere, il proprio proliferare di escrescenza di un essere fantomatico, l’autore, che, però, nega di poter dire alcunché di se stesso, è davvero un’ombra o meglio ancora,  come scriveva Pindaro,  “sogno di  un’ombra “,  ombra che in questo caso potrebbe essere il traduttore, immaginario, ipotetico  anch’esso,  perché è  solo una sua  fantasia, come ipotetico e immaginario si rivela essere tutto, la città abitata, la lingua parlata,  l’epoca storica in cui viviamo, i nostri valori: briciole per l’oblio.

Non c’è letteratura in fondo: è tutto un sogno.
Non c’è più l’autore, morto, che fu vivo, forse.
Non c’è la Storia, se non come susseguirsi dell’oblio.
E a livello ontologico c’è l’Essere, o è un sogno dei filosofi anch’esso?
Per Mark Strand sembra che vivere coincida con l’atto di svanire e vagare come spettri nella città desolata, in una fatale alternanza d’invisibilità e mutismo.

Vado
alla deriva.
Rabbrividisco.
So che presto
arriverà il giorno
a lavare via la macchia
bianca della luna,
e che io camminerò
sotto il sole del mattino
invisibile
come chiunque altro.”

Strand è  insieme vittima e interprete del nichilismo contemporaneo e ci dice che al fondo di noi stessi siamo sconsolati;  abbiamo perso  qualcosa di più importante del paradiso: la realtà. Che era soltanto la nozione della nostra importanza e supponenza. Siamo arrivati al punto, pensate, di vedere, narcisisticamente,  una storia, in un’accozzaglia d’insignificanze.   Dove siamo ora,  quando nemmeno l’ora ha più senso? A questa domanda risponderanno i poeti del futuro nel loro modo enigmatico e segreto. Ai poeti del presente e di ogni tempo tocca modificare il linguaggio con cui l’umano denuncia la propria spettrale inconsistenza ontologica. Fornire un linguaggio a questo spettro. Come facevano gli eroi nel mito greco, nell’Ade, dove i morti muti vagano e possono parlare solo se qualcuno offre loro un sacrificio di sangue (in genere, mi pare di ricordare,  un capretto sgozzato).

Oscurato - Paul Celan

martedì 19 novembre 2013






Libro sofferto e in fondo maledetto, se mai ve ne furono, Oscurato di Paul Celan, qui proposto per la prima volta in italiano da Einaudi nella traduzione di Dario Borso, è l’esito di una ricerca che vede nella parola poetica il condensato di mille voragini semantiche, la  vertigine inconclusa  della polisemia che è il suo fulcro e il suo ritmo, dove il massimo di senso e il minimo di spazio convergono per emettere bagliori e schegge arroventate.

Scritto fra il febbraio e l’aprile del 1966,  durante la degenza del poeta in una clinica psichiatrica e quasi interamente dedicato alla moglie Gisèle, Oscurato è un canzoniere dove la parola viene forzata per darci il massimo potere di rifrazione prismatica, di sfaccettature, di ambiguità. La scrittura, quasi zen in fondo nella sua essenzialità labirintica, sembra oscillare fra oracolo e aforisma, fra lirismo ed ermetismo, dove un grido atavico, consustanziale ai primordi del linguaggio, si centellina in versi meditati, scavati, sofferti.

Il risultato di questo processo è una parola misteriosa, densa di echi, rarefatta, condensata, graffiante. L’impressione di scavo è accresciuta dai richiami a un passato preistorico (“i resti del cretaceo”) come se questa lingua si ponesse di indagare all’origine della vita, o addirittura fosse il mormorio delle prime cellule. Davanti a molte liriche l’esegesi spazia in territori di terribile e terribilmente affascinante ambiguità, che se da un alto è propria della parola poetica, dall’altro testimonia di una  tensione all’alterità.   Il compito del poeta è supremo: afferrare attraverso la scrittura “la ruota celestiale” che si trova a una “distanza impensabile”. L’impensabile è ciò in cui scava Celan,  in cerca di una dimensione in cui il pensiero, la parola, il grido, il silenzio, si compenetrino in maniera da darci almeno il ricordo di una totalità, pur nel mezzo della più accurata della frammentazioni.

Dovessi scegliere un verso per raccontare questo libro, opterei per quello che conclude la poesia Nel giro:
 “ Il grido di un fiore/ cerca di giungere a esistenza. “

E’ un’immagine potente, ricca, sintomatica di un pensiero che cerca di emergere, di una vita che vuole esplodere, ed è soffocata da quelli che Celan stesso chiama enigmaticamente “orizzonti – muraglia”. E’ un verso che racconta un anelito disperato e una vitalità disperata in cerca di un riscatto.

Il discorso di Celan verte tragicamente intorno alle possibilità e impossibilità della lingua; in un verso il poeta si definisce “alieno dalla lingua”, inseguendo ancora una volta l’alterità del “non terrestre”, in un altro si favoleggia circa “un’irruzione dell’indistinto/ nel tuo linguaggio”, altrove “Una lingua/ genera se stessa/ con ogni poesia sputata‹…›”.

Ecco poi una poesia straordinaria nella sua brevità e semplicità:

“NON SCRIVERTI
tra i mondi,

imponiti alla
varietà dei significati,

confida nella scia di lacrime
e impara a vivere.”

Qui la lotta del poeta è dare ordine alla moltitudine di significati, seguendo la via del dolore  e delle lacrime per imparare semplicemente a vivere. E’ in sé come un aforisma sofferto e carico di lucida saggezza, sintetizza mirabilmente un percorso sapienziale. Non manca la musica, prendiamo,  per esempio,  il verso conclusivo della poesia Non spegnerti del tutto: “ morgens, mittags, abends, nachts” nell’originale tedesco,   che in italiano diventa “mattina, mezzodì, di sera, a notte”.

 Poesia dura, scabra, sofferta, scavata, quella di Celan ”canto urgente dei pensieri/mosso da un sentimento”, si offre alle interpretazioni più disparate e così anche alle incomprensioni. In un certo senso è una poesia che non vuole essere compresa perché comprenderla significa porre ad essa dei limiti e l’illimitato dei sensi molteplici è la sua reale ambizione.

Il messaggio di Celan vaga nel vento gelido dell’inverno, dove sibila come un presagio il verso del gufo e lontano s’intravede un chiarore: è il chiarore che Celan ha inseguito  tutta la vita e ha distillato dalle parole, regalandoci questa poesia in fondo inimitabile, calco pietrificato della sua anima in pena.




L'ora presente - Yves Bonnefoy

sabato 9 novembre 2013






L’ora presente del poeta francese Yves Bonnefoy si configura soprattutto come un’acuta e sofferta indagine nei meandri, nei miraggi, nei sogni, nei chiaroscuri della parola. Con un linguaggio scarnificato fino all’essenza il poeta, giunto ai novantanni, in questa sua opera, pubblicata in Francia nel 2011 ed edita in italiano  nella traduzione di Fabio Scotto da Mondadori nel giugno del 2013, elabora una poesia che si situa sulla soglia, in una zona di confine fra sogno e veglia, coscienza e inconscio, realismo e allucinazione, essere e apparenza. Il libro è un prosimetro perché accanto a sonetti, poesie e poemetti, troviamo delle prose evocative, intense, rarefatte.

E’ un’operazione di grande modernità che conferma la vena di un’ispirazione che ha reso Bonnefoy fra i poeti francesi più decisivi del nostro tempo, più volte candidato al Premio Nobel. La parola, la sua ombra, i suoi miraggi, i suoi sogni, la sua pericolosa inconsistenza, la sua opacità, il suo grido, tutto viene analizzato con raffinatezza e il procedere poetico di Bonnefoy pare un fiume quieto in cui si riflette la sua voce, chiara, sommessa, torturata internamente dall’insolubile enigma  dell’amore e della morte. Questa è la creazione di un tempo sospeso, la fragile erranza di un sentimento del sacro, il divagare onirico intorno al fuoco fatuo del pensiero. La similitudine fra acqua e linguaggio è evidente nella poesia Le nostre mani nell’acqua: “Noi immergevamo le nostre mani nel linguaggio”. In quest’acqua che è il linguaggio il mondo intero riposa, tanto che Bonnefoy scrive:  Altri sapranno cercare più nel profondo/ Un nuovo cielo, una nuova terra.” In questa dimensione il poeta pare un palombaro che, immergendosi nel flusso delle parole, cerca la sostanza stessa delle cose, trovandosi, però, più spesso, impigliato in un gioco d’ombre, perché “La parola non salva, talvolta sogna”.

Davvero il girotondo di Bonnefoy intorno alla parola esprime la profonda fragilità dell’essere umano, il suo essere in balia di significati oscuri, nella consapevolezza che la parola stessa, pure riconosciuta come fondamento del mondo umano, non rende la cosa ma la sua idea, la sua ombra. Nello straordinario poemetto eponimo, L’ora presente, tutto questo si concentra mirabilmente con una serie di rimandi ed echi  fra parola, immagine, desiderio, con versi di grande intensità, come affinati dal fuoco di un’immaginazione filosofica: “E la morte come al solito? E non essere stati/ Che un’immagine ognuno per l’altra, attizzando/ Un focolare, soltanto nelle nostre memorie, […]”. Lo scopo di questa operazione è titanico: “Riprendi i tuoi vocaboli dalle mani erranti della folgore” , per sfuggire così al nulla, alla cancellazione e alla consumazione delle parole.

Evanescente, sfuggente, impalpabile, onirica, così si conferma ancora una volta la parola della poesia. Evanescente talvolta fino all’inconsistenza che serve, però,  a denunciare implacabilmente la tragica mancanza di solidità dell’intera vicenda umana.

Quella di Bonnefoy è inevitabilmente una poesia enigmatica, allusiva, umbratile, solenne, che s’avventura in territori ignoti e cerca una dimensione di sospensione in bilico fra sogno e realtà, dove il sogno scava nel reale e viceversa. “Nell’abisso delle parole” il poeta si tuffa e nuota nel mare del sogno e ”il suo volto è la maschera che sono le parole della poesia”. Ecco il segreto dei versi rivelato: la maschera. E dietro la maschera: contraddizione, moltitudine, infinità. E sempre si affonda nel mistero della parola, la sua inesauribilità, la sua potente illusione, il suo fascino oracolare ed evocatore, il suo eccedere lo stesso senso logico. Quello di Bonnefoy è il discorso di una Sfinge, la domanda che pone implicitamente al lettore è questa:  “Cos’è la parola di cui siamo fatti? Buio, notte o ”guado d'una luce”? Noi vacilliamo davanti a questa domanda e in questo tremito c’è forse l’unica possibile risposta.