giovedì 10 aprile 2025
avamposto mitorealista di lotta poetica
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Ettore Fobo.
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Ettore Fobo
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Paolo Spaziani e Letizia Corsini
sono da anni impegnati in una ricerca teatrale difficile da definire perché profondamente
disallineata ai modelli teatrali contemporanei. In una società in cui l’evento
teatrale è una sorta di refugium peccatorum per divi televisivi in
declino o un confessionale autocompiaciuto di problematiche sociali, Spaziani
parte da Bataille, inevitabilmente, per circuire “i segni del caos” e proporceli
nell’immediatezza di un teatro di grande rigore estetico, in cui l’originale
francese si alterna alla traduzione italiana in un formidabile controcanto.
Così lo spazio fra le due lingue, gli interstizi fra musica e silenzio, diventano
luogo incandescente di evocazione degli spiriti. Ciò che proviene dalla notte
dei tempi dilaga sulla scena e la polverizza. Rimane il canto a sfolgorare nel
buio. La nostra stessa esistenza è gioco. Lo
spettacolo s’intitola “La morte ride” e si terrà a Milano al teatro Argomm
(zona Niguarda) via Graziano Imperatore 40, il 23 febbraio 2023 alle ore 21.
Andate a vederlo, cambierà il modo con cui vedete e sentite il teatro.
Ettore Fobo
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La prima data è romana: lunedì 23
gennaio 2023. Ore 21. Teatro Hamlet, via Alberto da Giussano 13, Roma.
Andateci, se potete.
Ettore Fobo
Pubblicato da Ettore Fobo alle 10:00 0 commenti
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Suggerisco agli amici
romani di non perdersi l’evento teatrale di Paolo Spaziani, con Letizia Corsini
alla regia, che si terrà al Teatro
Stanze Segrete in via della Penitenza a Roma,
lunedi’ 12 dicembre alle 21. Si tratta di una versione di un poemetto di
Georges Bataille. Vi rimando al link del teatro.
Di questo straordinario duo di teatranti ho scritto a
proposito di un altro evento, che si tenne
a Milano nel febbraio 2018 Lor ga
na crur, da testi di Antonin Artaud.
Lo riporto integralmente:
“ Lor Ga Na Crur: Paolo Spaziani
incarna Antonin Artaud”
Si inizia con il silenzio,
inevitabilmente. L’attore, Paolo Spaziani, è seduto su un cubo e sembra
attendere l’ispirazione con un aspetto fra il meditabondo, lo stranito,
l’indifferente. Il pubblico lo scruta,
in attesa. Il palco è piccolo, angusto, claustrofobico. Spetterà all’attore
rivelare le sue potenzialità nascoste,
dove la parola si riscopre canto.
Ed ecco dunque, come un’improvvisa eruzione, che comincia il dire. Ed è un fiume in piena che
utilizza un testo ispirato ad Artaud, accostando le due lingue, francese e italiano, per ispezionare il limite stesso di ciò che
chiamiamo realtà e infrangerlo con l’irruzione nel linguaggio dei segni del
caos, prelinguistico e primordiale, qui annunciato anche dalle glossolalie che sono già nel titolo dello spettacolo, Lor Ga Na Crur.
Tutto ciò per restituirci le
fascinazioni dell’immediato, facendo saltare le sovrastrutture linguistiche,
per ridarci il senso di un altrove tanto più potente quanto più la parola è
spinta nel precipizio di una dizione puramente musicale. Il testo è un furente attacco ai concetti di realtà,
identità, essere, Dio, mondo; tutto
l’armamentario delle menzogne metafisiche che fanno dell’uomo un recluso sul
fondo dell’abisso.
Nell’interpretazione magistrale
di Paolo Spaziani la poesia cessa di essere un morto significato letterario per
divenire flusso melodico, rituale magico che si contrappone, anche con
violenza, alla magia nera sociale, quell’insieme di codici e convenzioni che
rendono la nostra esperienza del mondo “tristemente
carceraria” come si legge nella presentazione dello spettacolo.
La letteratura viene
disintegrata, non è più scrittura ma ritrova l’oralità come suo fondamento.
Così Paolo Spaziani riscopre Artaud come fatto musicale, lo reinventa,
mescolando con leggerezza i linguaggi, il francese, l’italiano e quello strano
grammelot glossolalico che rappresenta la cifra dell’ultimo Artaud.
L’estraneità del poeta francese al mondo, alla letteratura, all’essere, al
senso, a quello che Auden chiamava ”il
dialetto della tribù” e Artaud stesso “la
fogna del pensiero di tutti” è assoluta e con rigore assoluto la voce di
Spaziani ce la mostra in tutta la sua radicalità. E la crudeltà di questo
teatro si rivela soprattutto nella demolizione dei concetti che puntellano le
nostre prigioni mentali.
Così, in questo che è il più piccolo teatro
milanese, il Teatro Studio Frigia
Cinque, con una scenografia spartana, una luce fissa e quasi dolente, con la
regia di Letizia Corsini, il 16 e il 17 febbraio di questo 2018, Paolo Spaziani ha regalato due serate
indimenticabili di poesia allucinata,
ispirata a questo grande visionario che è stato Antonin Artaud. La voce
di Paolo Spaziani, moltiplicando i moduli sonori, ha spaziato dal soffio al
grido, dalla dolcezza all’orrore, senza mai perdere in consapevolezza musicale.
Lo spettacolo si riscopre evento
e l’attore un negromante che contrappone il rigore scandaloso della propria
musica interiore alla volgarità della rappresentazione. Così
l’irrappresentabile della poesia demolisce la scena, la disincarna, la dissipa. Essa non è più il luogo dove si
replicano i rapporti di potere in seno alla società ma la crisi stessa di
questi in un linguaggio che desidera ardentemente frantumarli. “Arte
Anarchica”, si legge nel volantino di presentazione. Tutto si dissolve tranne
la voce, tranne il corpo, questo grande
incatenato nel regno della Metafisica e dei concetti.
Paolo Spaziani diventa Antonin Artaud, se questo nome può designare
qualcosa di più di flussi, punti di forza, singolarità e ci restituisce così
un’antica idea di teatro; è colui che esce dalla folla e comincia la cadenza di
un canto tragico, al ritmo del ditirambo dionisiaco, un’idea antica certo ma paradossalmente colma di un futuro
che oggi pare impossibile, quando,
come ha scritto Foucault: “ Le parole di Artaud apparterranno al suolo stesso del nostro linguaggio
e non alla sua rottura. “
***
Andate a vedere Paolo Spaziani, in questa sua reinvenzione
batailliana se credete che l’atto e l’attimo teatrale, spezzando i codici normativi, ci possa restituire alla visione di un tempo
più profondo di quello che sperimentiamo
vivendo o illudendoci di farlo. Grazie dell’ascolto.
Ettore Fobo
Pubblicato da Ettore Fobo alle 10:30 0 commenti
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Carmelo Bene a vent’anni dalla scomparsa lo ricordo con questo video dell’Amleto televisivo, uno dei tanti Amleti reinventati, parodiati, squartati, messi in musica e in “musica per gli occhi”- così Carmelo definiva il suo cinema- pensiamo almeno a “Un Amleto di meno, dove l’artefice si rifiuta di mettere in scena la Storia, e così facendo opera da delinquente del pensiero, sregola i sensi e i segni logici, infrange i “codici normalizzanti” come nelle parole di Maurizio Grande a ancora e ancora ricordiamolo stirneriano nelle midolla del suo interno girare a vuoto, attore dell’impossibile che in tutte la arti che lo hanno attraversato ha lasciato il segno delle sue ferite di grande poeta incarnato e disincarnato nella scena vuota.
Poeta della scena, della pagina scritta e cancellata insieme, letterato di razza, autore di romanzi memorabili, di saggi parodiati e perfetti nel loro beffardo ghigno alla Ubu Roi. Artefice sommo di un poema dove si sente nitida la voce di un classico, sempre parodia di una classicità oramai impossibile. Poeta dello schermo cinematografico dove l’immagine rinunciava alla sua egemonia moltiplicandosi forsennatamente fino a cancellarsi. Dissolvenza in niente.
Attore le cui metamorfosi non vestivano il ridicolo manichino di un io ma stracciavano il suo copione e lo confinavano in una angolo della scena a biascicare avemarie. L’influenza di Carmelo, su tutti noi iperborei abitatori del sottosuolo, è stata ed è enorme. Il futuro è suo e speriamo che finite le dispute legali sull’eredità, noi si possa leggere l’ingente materiale letterario inedito e specialmente il suo poema “Leggenda”.
Ettore Fobo
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Pubblicato da Ettore Fobo alle 08:12 0 commenti
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Avevo vent’anni (lasciamo riecheggiare il celebre incipit di Paul Nizan) e vagavo nelle aule universitarie milanesi come un reduce ferito di qualche guerra psichica, stralunato leggevo, scrivevo, ai margini del tempo rubato agli studi che così placidamente si dissolvevano, quando un giorno in una libreria del centro di Milano mi imbattei in questo In exitu, che scoprii essere l’ultimo romanzo di Giovanni Testori, che ai tempi conoscevo soprattutto come il poeta di quel libro memorabile che è Suite for Francis Bacon. Lo sfogliai, lessi qualcosa, mi colpii particolarmente essendo reduce dalla lettura dell’AntiEdipo di Deleuze- Guattari, dove, trasognato, leggevo della natura psicotica della grande letteratura. Mi spaventò, anche, questo libro, perciò lo lasciai lì, optai per altre scelte. Ora quell’esperienza di lettura fuggevole in libreria (era il Libraccio vicino via Larga, per chi conosce Milano) mi era rimasta dentro, In exitu si rivelò uno di quei libri magnetici cui si dedica un culto tutto sotterraneo ma è a distanza di più di vent’anni che lo leggo in questa edizione Feltrinelli del luglio 2020, impreziosita dalla splendida copertina di Riccardo Vecchio.
La grande letteratura è attraversata sempre da flussi psicotici, così suona il concetto di Deleuze- Guattari, frase utile per avvicinare questo magnifico e terribile canto, alterato, delirante, dove il linguaggio esplode, s’inceppa, cerca una via di fuga impossibile, diventa un flusso che disarticolando il parlato fin quasi sulle soglie della glossolalia, ce lo restituisce nuda e cruda esperienza epifanica ai limiti del dicibile, linguaggio che si squama come un serpente, s’inceppa, rivela la sua natura originaria di montaliano ”balbo parlare”.
Qui lo ”scrivano” Giovanni Testori accoglie le ultime parole, le invettive, i ricordi, le farneticazioni di un tossicodipendente oramai prossimo alla dose fatale, Riboldi Gino, in una Milano soffocata e soffocante assistiamo alla rottura dei codici linguistici normalizzanti, operata con precisione chirurgica dallo scrittore milanese.
Pastiche linguistico che, se sembra acclimatare fra le nebbie milanesi la lingua di Artaud, destruttura un intero mondo di conformismi linguistici. La trama è disseminata nel testo, s’intuisce in filigrana traverso un linguaggio sbriciolato, stordente, martirizzato, ibridato profondamente con il dialetto milanese a sua volta deformato dall’irruzione di altre lingue (soprattutto il latino e il francese).
Testori configura così una lingua altra, una lingua ombra per raccontare una vita marginale, la lingua dei bassifondi che oltre che sociali sono prima ancora psichici.
Qui tutto è condensato in questo stile scabro, duttile, fluttuante ma marmoreo quasi nel riprodurre il fragile balbettio vicino alla demenza di un ”nessuno” che scopriamo abitato da voci dell’infanzia (la mamma, il papà, la maestra…) abbandonato da una città moralista e assassina al proprio personale privato naufragio. Gino Riboldi è nelle sue stesse parole un “nessuno” ma anche un Cristo flagellato, aggredito da forze che sono linguistiche prima che materiali. Così scopriamo che ai margini della città, luogo psichico, l’essere umano, deviando dalla norma sociale, deraglia, delira, sprofondando in una trappola e denunciando la normalità come zona di una banale e brutale sopraffazione di tutto ciò che, diverso, non si allinea.
Questo linguaggio ombra è una caricatura blasfema, parodia allucinata di quello comune, mostra che fuor di mente, nella demenza brilla la luce di una ferita che il sociale infligge alla vita puramente e selvaggiamente umana. È la luce delle nostre profondità nascoste dal velo - muro dei luoghi comuni legiferanti. Qui il linguaggio di Riboldi Gino, eroinomane in fase terminale e omossessuale che si prostituisce per una dose, esplode dall’interno, spezzando con la forza della sua primordiale disperazione il diamante del Senso codificato che tiene unita la lingua.
Blasfemo, struggente, colmo di un desiderio deluso di sacralizzare la vita, melodioso canto infranto contro le scalinate della Stazione Centrale di Milano, dove tutto accade e dove nel 1988 si svolse una leggendaria rappresentazione teatrale del testo; il monologo del protagonista Riboldi Gino mette in crisi le nostre più elementari coordinate linguistiche mostrando che esse formano solo un illusorio senso laddove trema solo l’insensato della vita forse come epifania sacra ma è un sacro dirottato dalla sua solennità verso le regioni del grottesco.
Il grido di dolore di questo tossicodipendente unisce le bestemmie di chi crede ma non sa alle accuse contro un mondo feroce e indifferente e come una sotterranea, delirante, preghiera sembra confluire in questo fiume che trascina come detriti linguistici i pensieri di un giovane che sta per essere ucciso dall’eroina. Cortocircuitata da una forza tellurica interiore, la lingua spezzata di Riboldi Gino sembra testimoniare l’indicibile di un dolore germinato nel territorio dell’esclusione sociale.
Sono quelli di Testori i lacerti di una lingua perduta, dimenticata, faticosamente riaffiorante dalle nebbie milanesi. Lingua perduta nel suo sforzo di dire ciò che si deve tacere, questa diversità irriducibile, sessuale, sociale che fa di Riboldi Gino un Cristo crocifisso al nulla che sente emergere in sé. Lettura di una gioventù perduta che Testori conduce sul filo di una rigorosa follia sintattica che sembra fare luce sugli abissi che la parola sempre cela in sé.
Per dire il vuoto di questa generazione perduta, è necessario aggredire le fondamenta del linguaggio, mettere in discussione la dicibilità stessa del reale, finalmente tarpato nella sua pretesa di essere un dato assoluto, incontrovertibile, evidente.
Qui Milano, città matrigna e cannibale, è il luogo in cui si consuma la tragedia di Riboldi Gino, nell’indifferenza e nell’ombra. Tragedia di un ridicolo ”nessuno”, di un ego annientato da un male di vivere denso, melmoso come l’infida, la nemica, nebbia milanese che ne diventa il correlativo oggettivo.
Il corpo emerge: nelle sue secrezioni, nel sangue, nella materia celebrale, nel vomito. Noi umani siamo scagliati fuori dal sesso femminile, espulsi come scarti gettati fuori, dalla carne alla carne, alla vita malsana della metropoli, alla vita non vita dell’eroina, alla vita prigioniera degli stereotipi, che intasano la mente e soffocano il pensiero. È questo un linguaggio che tende a ripristinare il fascino grezzo dell’oralità, un’oralità sempre interrotta, spezzata, come se ciò che si vuole dire fosse proprio l’interdizione sociale che ci induce precocemente al silenzio.
La parola trema di paura davanti allo specchio che Testori le porge e noi con lei. Chi siamo? Tumulto di significanti senza più alcun rassicurante significato.
La figura di Cristo emerge, s’inabissa,
riemerge in questo flusso di parole come se egli stesso fosse chiamato in causa
per testimoniare l’abisso del dolore umano, nel pieno di questo delirio che
esonda potentemente intriso di una verità che, come scrive Sonia Bergamasco
nell’introduzione, ”ci attrae e ci repelle” allo stesso tempo. Perché è come
sollevare la pelle del linguaggio e vederne le nervature, il sangue, ciò che sta sotto.
“Narri chi era quest’indiziato. Lui. Quest’esecrato questo. ‘Sto giudicato. ‘Sto bollato, anca. Condannato, anca. Dagli. Dai. Libertari. Dalla coscienza-scienza-merda.”
Pubblicato da Ettore Fobo alle 09:56 0 commenti
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Il Forum Anterem è un‘occasione speciale per incontrare amici e amiche. Ci si vede poco ma si condivide molto ed anche quest’anno la manif...