Non dormire

sabato 29 ottobre 2011


Non dormire in questo tedioso pomeriggio,
puramente umano nel sussulto inzaccherato
di tremila ferite, milioni di scalfitture.

Non dormire in questo suono profondo
di eucalipti già toccati dal vento,
fra le loro gambe c’è un segreto
che cogliere bisogna, e poi morirne.

Non dormire fra le spighe della parola io,
nell'aria c’è un richiamo di nevischio,
che incendia brillantezza e impiega
l’energia segreta e dimentica del vento.

Non dormire in questo lampo immaginario
di versi filati da una moira e da un drago,
svegliati, è giunto il momento di partire
per la terra dove si può ricominciare.

Aspetta, non dormire,
in quest’alba livida di mondo,
sotto la luce di questo neon
non lasciare il pentimento,
aggrappati al disprezzo,
sei un uomo, ergiti
contro il festoso inizio
di questa fine del mondo,
liquida ogni delusione,
spara il tuo seme mentale.
Non soffocare Orfeo nel suono del tamburo
crea anche la forma che ti uccide,
quella che ti celebra, gioca
con tutte le deformità della mente,
e ozia dormi dimentica respira.

Ettore Fobo

Memorie di una beatnik - Diane di Prima

domenica 23 ottobre 2011



Diane di Prima, oltre che una poetessa di talento, deve essere anche una donna forte, dalla personalità prorompente, spregiudicata. Questa è la prima impressione leggendo Memorie di una beatnik, testo autobiografico che è una sorta di romanzo di formazione erotica e intellettuale, in cui la pornografia viene usata per raggiungere esiti artistici anche scioccanti, pensando che le scene di sesso raccontate risalgono agli anni cinquanta, nel cuore della puritana America.

In queste memorie, pubblicate nel 1969, la forte componente pornografica non è però separabile dal candore con cui tutto viene raccontato, perché la presenza di una sessualità anche brutale non è quasi mai fastidiosa o opprimente, c’è una certa innocenza e una grande gioia di vivere che pulsa nelle pagine di questo romanzo, che è come un fiume in cui la stessa Beat generation arriva a specchiarsi ebbra di sé, della sua giovinezza. Nella nota iniziale però Diane di Prima riconosce lucidamente che quella straordinaria esperienza era già finita, al tempo dell’uscita del romanzo: ” i beat ora si sono svenduti e sono diventati hippie”, ora sono impazziti, si sono suicidati, sono diventati monaci zen. Nello stesso anno Ginsberg ne La caduta dell’America decretava anch’egli la fine di quell’esperienza.

L’importanza di questo libro di Diane di Prima è soprattutto storica, la sua rievocazione della New York degli anni cinquanta ci permette di vivere dentro quella città come se fosse nostra, sperimentiamo così l’idea di una sessualità liberata dalle costrizioni di una società ipocrita, a avvertiamo come essa inondi l’esistenza della scrittrice con la sua potenza di rivelazione. Fra amori saffici, poliandria, permanenze in una comune, lavori di modella, Diane di Prima si muove attraverso l’America, esplorando la dimensione del piacere in ogni modo e raccontandocelo senza il velo dell’erotismo, ma con tutta la potenza eversiva della pornografia; con la sua scrittura dell’osceno scava dentro l’indicibile del sesso per cantare la sua supremazia.

E’ frutto di una vitalità che non accetta confini questa sessualità così esibita, è frutto anche, veniamo a sapere nella postfazione, delle pressioni dell’editore, cui Diane di Prima si piegò, perché vivendo in una comune di gente squattrinata, l’anticipo per quel romanzo le faceva comodo. Ma il romanzo non perde autenticità e acquista in freddezza; il sesso qui raccontato è un vortice di sensazioni voluttuose che a tratti sopraffanno la protagonista. Solo in certi momenti la scrittura pare routinaria e gli eccessi erotici sembrano cliché, ma utilizzando un genere, in questo caso la pornografia, il rischio è inevitabile. All’interno del genere la poetessa americana si muove con energia e consapevolezza, non tanto scandalizzare sembra il suo fine, tutto è qui molto semplice e naturale, quanto far emergere la verità del corpo e del desiderio.

Questa è la storia di una donna che con semplicità rivendica il diritto di poter sperimentare il piacere e soprattutto di raccontarlo, prerogativa maschile, in questo avviando una trasgressione anche verso il mondo patriarcale, che pretende dalla donna il silenzio, verso la letteratura stessa. Bisogna contestualizzare all’epoca in cui tutto ciò è stato scritto, con il suo stile di vita Diane di Prima è stata precorritrice dell’esperienza dell’amore libero, ma d’interessante in questo romanzo c’è anche il suo percorso intellettuale, fra scrittori come Dylan Thomas, Herman Hesse, sodali come Gregory Corso e soprattutto Allen Ginsberg, l’ascolto del jazz, o dei Carmina Burana, o di Vivaldi. Il jazz ha un ruolo centrale nella Beat generation, artisti come Miles Davis, Charlie Mingus, Charlie Parker, sono venerati come leggende viventi, e alla base del linguaggio di questi scrittori si sente pulsare una vena jazzistica profonda, il cosiddetto hip language.
New York è la “città magica”, dove vive la gioventù disinibita che descrive Diane di Prima, che a questa città dedica una descrizione meravigliata:

“Un amore sconvolgente per i vicoli e i magazzini, per lo strano cimitero downtown a Trinity Curch, per Wall Street nel cuore della notte, e Cathedral Parkway la domenica pomeriggio, per il grattacielo della Chrysler che splendeva come una torre fiabesca al sole di ottobre, l’incredibile prana ed energia dell’aria, fonti di una creatività che sembrava sgorgare dal centro infuocato della terra ed esplodere come mille vulcani nella musica e nella pittura, nel ballo e nella poesia di quella città magica. “

La Beat Generation era una generazione di ragazzi e ragazze animati da un confuso ma vitale amore per la libertà, affascinati dalla spiritualità orientale come dal jazz e dal sesso, hanno tracciato la loro parabola negli anni Cinquanta, fecondando il ventre dell’America con il loro linguaggio stradaiolo e le loro anticonformiste pose hipster. Diane di Prima fu una di loro e New York continua a viaggiare nel nostro immaginario anche grazie al suo contributo.

La donna sulla luna - Carol Ann Duffy

lunedì 17 ottobre 2011


E’ uscita nel marzo di quest’anno per la casa editrice Le lettere una bella antologia della poetessa scozzese Carol Ann Duffy, con le sue poesie tradotte da Giorgia Sensi e Andrea Sirotti. S’intitola La donna sulla luna e raccoglie poesie scritte fra il 1985, anno del suo debutto con Standing female nude, e il 2005, anno della sua ultima raccolta Rapture. E’ un evento nella piccola cronistoria dell’editoria di poesia, perché la lirica di Duffy scuote da anni il Regno Unito, dove ha raggiunto un successo inconsueto per un poeta, successo che le ha permesso di essere riconosciuta Poet laureate del suo paese, prima donna a ricoprire tale ruolo e anche primo poeta di orientamento omosessuale.
La poesia di Carol Ann Duffy è in costante evoluzione negli anni e l’aspetto più affascinante è per me rappresentato dai monologhi drammatici, che danno voce a dei personaggi.
Prendiamo per esempio Nudo di donna in piedi, dove la voce narrante è quella di una modella, che evoca la figura di un pittore (forse Braque) incapace di ritrarla, impossibilitato, data la miseria, a comprarsene i favori (la modella è anche una prostituta). Oppure Insegnamento per il tempo libero dove la poetessa inglese mima il linguaggio di un assassino, in un crescendo epico nella sua ostentata banalità di follia, o quello di una professoressa d’inglese nella poesia omonima, tutta incentrata sulla presentazione alla scolaresca di un “poeta vero, vivente, pubblicato”. E’ una presentazione fra il nevrotico e il caricaturale, in cui il poeta è solo un’ombra appena evocata. O ancora la figura della cameriera cui la padrona assegna un compito strano: portare le sue perle al collo per riscaldarle in vista dei suoi appuntamenti. Allora la cameriera immagina che il proprio odore disorienti i maschi che la signora incontra, e nella notte mentre i gioielli si raffreddano, brucia di passione per la sua padrona(interessante la dinamica freddo- caldo di questi versi) . O ancora in Anne Hataway, moglie di Shakespeare, dove Duffy dà voce al lato in ombra della storia, spandendo un’eco di leggenda sulle vicende di questa relazione.
Duffy legge dentro queste esistenze la quintessenza della loro banalità, e ce la restituisce nella talvolta fredda maniera dell’arte.
Negli anni approfondisce la scrittura amorosa, con esiti splendidi, innestando metafore e analogie sul tessuto di un discorso amoroso, in cui talvolta affiora la perdita, il lutto. La lirica d’amore della Duffy esalta l’amore eterosessuale e quello omossessuale, più ancora una sostanziale ambiguità, che i traduttori riconoscono possibile in inglese, meno in italiano. Nella raccolta Rapture in particolare racconta con tono commosso e partecipato l’inizio e la fine di un amore, in ciò ricordando Musica da camera di Joyce.
Nella poesia Bellissima incarna il mito dell’eterno femminino, descrivendo una creatura femminile fra storia e leggenda, che alla fine diventa riconoscibile nella figura di Marylin Monroe, destinata a una strana immolazione sotto i flash fotografici. Lo stile è sincopato:
E ancora filmarono, di più, buttarono quello che non/potevano usare/sul pavimento della sala montaggio, filmarono ancora, silenzio/azione, taglio, silenzio, azione, taglio, silenzio/azione, taglio, finché non poté morire quando morì/ non poté invecchiare, stare male, non poté smettere di dire le battute/o di cantare canzoni. “
In alcune poesie affiora una consapevolezza ecologica: nella poesia eponima che chiude il libro, in cui la luna si rivolge alle donne terrestri e chiede loro: “Carissime, cosa avete fatto alla terra ? o in Vendere Manhattan: “Io canto con amore vero per la terra;/inno all’aurora, ballata del tramonto, salmo delle stelle.”
In La moglie del diavolo Duffy entra nella mente di un’assassina e ancora una volta con dei flash rende palpabile l’angoscia per la condanna all’ergastolo:

” Dissi non è giusto non va bene non è vero/ non è così. Non ho visto non ho sentito non sapevo. / 
Forse sì forse no non son sicura forse non so./ Non ricordo non ho idea è stato lui è stato lui.

Carol Ann Duffy rende bene il grido di disperazione attraverso questo stile frantumato, riprodotto in maniera accurata nella traduzione.

Anche la vicenda evangelica, in La vergine che punisce il bambino (episodio che ricorda un quadro di Ernst), è ricondotta alla sua dimensione quotidiana: Duffy mette in scena il turbamento della madre di Cristo, sconvolta da un bambino che non capisce e che si proclama Dio, il quale per giunta rimane impassibile quando lo si percuote e su cui si staglia l’ombra di un destino nefasto.

Sono belle anche le poesie che raccontano di un lutto, in particolare In morte di un’insegnante, dove anche la perdita e la morte sono raccontate con semplicità scevra da retorica. In Sonno di una bimba Duffy esprime invece il suo amore di madre(ha avuto una figlia con inseminazione artificiale) e la sua delicatezza. L’amore materno qui trasfigura la realtà fino a trasformarla in un paesaggio con cui è possibile fondersi dolcemente.

“ La fitta oscurità / fuori dalla stanza/ restituì lo sguardo, materna, saggia,/ con la sua faccia di luna.”

In sostanza mi sembra che Duffy operi sul versante di una poesia sia colta che popolare, il suo mondo poetico, popolato di donne soprattutto, mette al centro la voce della strada e la sua lirica amorosa ha profondità e bellezza rare. La donna sulla luna è un’antologia intensa in cui la ricchezza di temi e personaggi è al servizio di una poesia che sa mescolare il linguaggio della strada con la ricerca della bellezza, i toni aulici con quello più dimessi e quotidiani.

“Le parole sono l’amnio del non detto” è un verso geniale che si trova nella poesia Epifania, due anime sono ”intrappolate nel tempo”, “in fila per la morte”, nella poesia Estasi, dove desiderio e passione si confondono “nell’aria che pensa”. Tutto concerta per comporre una lirica in cui la bellezza delle immagini è sostenuta da un linguaggio proteiforme, che può affrontare tutti i temi con efficacia sintetica, poiché grande è la capacità mimetica di Carol Ann Duffy, in grado di immedesimarsi in assassini e prostitute, ma anche di figurarsi una poesia amorosa di grande bellezza. Ecco, in conclusione, gli ultimi emozionanti versi della appena citata poesia Estasi:

“Poi giunge l’amore, come un volo improvviso di uccelli,
dalla terra al cielo dopo la pioggia.Il tuo bacio, rievocato
sfila, come perle, questa collana di parole.
Cieli immensi ci collegano, unendo qui a lì.
Desiderio e passione nell’aria che pensa. “

Fermata nel deserto- Josif Brodskij

lunedì 10 ottobre 2011


“ … per chiunque abbia preso la penna in mano, non v’è destino migliore che conquistarsi un pezzo di esistenza all’ombra di Dante.”

Josif Brodskij


Fermata nel deserto è il titolo di una silloge del poeta russo Josif Brodskij, la cui vita- fu perseguitato dal regime sovietico fino all’internamento in un ospedale psichiatrico carcerario e all’ espulsione dal paese - è in contrasto con la realtà letteraria. I temi biografici pur così stringenti, infatti, sono raccontati di rado e con distacco, non rappresentano il fulcro di una ricerca che va in direzione tutta letteraria, sintesi linguistica di un universo interiore, a dispetto di ogni contingenza. Proprio poesia del distacco e di distacchi mi sembra quella del poeta russo, attenta anche a registrare la tangibilità delle cose, la loro manifesta natura, la loro superficie. Alcune poesie ruotano, infatti, intorno alla celebrazione dell’oggetto, alla sua potenza di cosa inanimata.

Brodskij riconosce lucidamente che ogni forma di trascendenza è ormai retaggio di un passato anche ammirevole ma superato, e agisce di conseguenza, non sostituendo a ciò nemmeno la trascendenza della parola poetica, anzi a volte denunciandone l’inutilità, o meglio, come ha scritto Pasolini, l“ inutilizzabilità”.

Talvolta però strane figure angeliche in Enigma a un angelo o in Colloquio con un celeste, per esempio, diventano gli interlocutori privilegiati di un discorso che arde di una febbre mistica parodiata, perché in qualsiasi fede è sempre riconosciuto un vicolo cieco, “ un senso unico” del pensiero. Brodskij sa lucidamente che la sua preghiera resterà inascoltata.

E’ una poesia direi stranamene distaccata, a tratti cinica, mai consolatoria e nemmeno lasciva o aggressiva, misurata nella sua ricerca formale, e che in russo si esprime quasi unicamente utilizzando metrica e rima. La traduzione è opera di Giovanni Buttafava, in questa seconda edizione del 1987, nella collana de Lo Specchio Mondadori, arricchita anche da una breve ed esemplare nota introduttiva dello stesso traduttore. Non conoscendo il russo, mi devo fidare delle mie impressioni sull’italiano, che suona bene poeticamente, aldilà di qualche oscurità, si percepisce lo sforzo di Buttafava nel rendere nella nostra lingua le peripezie di Brodskij, i suoi pericolosi viaggi di scavo nella parola e nei concetti.

In questi versi, scritti fra il 1962 e il 1974, “un’angoscia inesplicabile” serra le vie di Mosca, dove la stessa passante è abitata da “un’angoscia che non sa spiegare”, un ”taxi pieno di malati “ imbocca una via, verso case in cui “soltanto la credenza sembrava avere un’anima” e che gli stessi spettri abbandonano.

E’ una dimensione di perdita in cui il poeta vaga solitario, tagliato da una risata “ obliqua” che “tormenta anche la strada”. Ci sono visioni in clima di surrealtà che si alternano ad altre di stretta quotidianità, su tutto aleggia la richiesta di un nulla in cui risposarsi dalle fatiche dell’esistenza, che passa comunque sotto “cieli vuoti”, e in cui il poeta è costantemente “ in disparte, fuori bordo”.

E’ una poesia lenta, meditata, che regala anche sentenze come questa “Non c’è maggiore solitudine/ della memoria del miracolo” oppure come “ Ma anche l’idea - oh sì - dell’immortalità, /amico mio, è un’idea di solitudine.”, che l’immaginazione non fatica a riconoscere come propri principi ferrei.

Qui si compie un curioso destino: “Barattare quiete in cambio di sottomissione”, per diventare delle pietre, in tutto simili a un “morto oggetto”, forse per sfuggire a un’epoca in cui sono i deboli a schiacciare i forti, e non viceversa, come nel rovesciamento operato da Nietzsche. E leggiamo anche quella che potrebbe essere considerata una bella definizione della poesia, della sua Musa: “Nube e parvenza della donna, quindi per l’uomo, o Musa, parvenza dell’anima”.

Perché prima o poi tutto tace, e tacere qui è morire e allora anche l’eternità ci sommergerà con i suoi zeri.

“ Sempre non è una parola, è una cifra,
che quando su di noi crescerà l’erba,
coprirà il tempo e l’ora coi suoi zeri

E’ interessante anche il modo con cui Brodskij rielabora la classicità greca e latina, molto presenti nei suoi versi, a significare la profonda adesione del poeta russo alle fonti stesse della nostra cultura, ma anche in questo caso Brodskij sceglie uno sguardo diverso, una prospettiva di stupefacente modernità. Perché l’Odisseo che si rivolge a Telemaco è un uomo disilluso, disgustato dalla guerra, la cui unica consolazione sembra essere che il figlio sia stato liberato, data la propria lontananza da casa,” dai tormenti di Edipo”. Quest’Odisseo a molto a che fare con la visione novecentesca di Adorno, potrebbe essere uno degli “uomini impagliati” di una poesia di Eliot, o venir fuori dal bar de L’età dell’ansia di Auden.

In cosa consiste questa deserto lo chiarisce un po’ la poesia eponima, tutta incentrata sulla distruzione di una chiesa greca per far posto a una sala da concerto, distruzione della vecchia era per far posto alla nuova. E il poeta si domanda cosa dovremo portarle in sacrificio.

E’ un mondo poetico quello di Brodskij in cui bisogna entrare con deferenza, consci di stare partecipando a un evento dell’immaginazione.

Perciò questa silloge, che ho trovato casualmente su una bancarella, è un gioiello prezioso, la poesia di Brodskij, nella traduzione di Giovanni Buttafava, ha una sua potenza lenta, s’insinua nella mente con la forza delle cose appena accennate e subito svanite, ma s’imprime a fuoco come un esempio di traduzione, direi, perché l’originale è soltanto una traccia, su cui Buttafava ha operato restituendoci sicuramente qualcosa dell’originale, ma agendo anche, io credo, sul versante della creazione artistica.

Troppo intraducibile la grande poesia ha bisogno di un interprete che in altra lingua rinnovi lo stesso incantesimo da cui la poesia nasce. In questo libro, l’interprete di Brodskij mi sembra adatto, si compie una forma di interscambio magico fra due lingue: l’italiano e il russo, fra due ombre, il premio Nobel Josif Brodskij e il critico cinematografico e slavista Giovanni Buttafava e la sensazione di assistere comunque a un piccolo miracolo si fa sentire: l’incontro, il confronto, lo scontro, di due intelligenze linguistiche.

Merita un pensiero anche la natura eversiva di queste poesie, invise a un potere, quello sovietico, che misteriosamente da esse si sentiva minacciato. Per me approfondire la lettura di Brodskij sarà la sfida per comprendere questo meccanismo.

La consapevolezza di Brodskij è illuminante nella nota che chiude il libro, scritta per l’edizione italiana:

In ultima ana­lisi, anche se uno scrit­tore pensa il con­tra­rio, egli è sol­tanto uno stru­mento della lin­gua, uno dei mezzi dell’esistenza della lin­gua. Siamo immersi nella lin­gua come dei corpi nell’acqua».

Questa è la grande consapevolezza che anima la poesia e tutti i poeti, perché forse solo la poesia può cogliere tutte le vibrazioni di quest’acqua immemore, e mostrarci, tra le altre cose, come sia vera e definitiva l’affermazione di Lacan per cui “il significato è un sasso in bocca al significante”.

La poesia però è inutile, malvista, questo straordinario libro, Fermata nel deserto, è ormai quasi irreperibile, mai più ristampato.

Tutto si è allontanato…

Tempo. Destino. L’idea del destino.
La memoria di sé è rimasta, solamente,
una voce sommessa. Niente più.”

.

Una poesia di Tomas Tranströmer

giovedì 6 ottobre 2011

LA ROCCIA DELL'AQUILA

Dietro il vetro dell'urna
i rettili
stranamente fermi.

Una donna stende il bucato
nel silenzio.
La morte è immobile.

Nelle profondità della terra
scivola la mia anima
silenziosa come una cometa.

***
Da Poesia numero 211, Dicembre 2006, traduzione di Maria Cristina Lombardi - Crocetti

Una poesia di Josif Brodskij

domenica 2 ottobre 2011

ODISSEO A TELEMACO

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita. Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.

Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.

Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

1972

***

da Fermata nel deserto- Josif Brodskij - traduzione Giovanni Buttafava - Mondadori(1987)