Uomo - massa

domenica 27 ottobre 2013



Ciascuno nel profondo è una moltitudine di spiriti contrastanti, un miscuglio di entità in lotta fra loro, volontà che si elidono, naufragi di pensiero incommensurabili,  strano ne venga  vien fuori  per lo più un essere monotematico, cosciente come un bullone, con la rivoltella in tasca del buon senso, adatto alla schiavitù e alla riproduzione.

 Chi guarda dentro di sé e vede tutto questo, è forse uno che ha molto tempo, qualcuno potrebbe biasimarlo per questo,  ma  bisogna considerare  che il tempo libero, che è sempre tempo perso alle logiche della produzione, è  anche tempo dolorosamente conquistato, strappato al lavoro, certo,  ma soprattutto, e questo è il bello, alla noia. Prendiamo Nietzsche, come tutti i filosofi è sicuramente scampato all’agricoltura, ma non è forse giusto che ogni tanto si apra uno spiraglio e  venga fuori gente come lui? Non se l’è conquistate Nietzsche le sue maschere, la sua follia, e la sua chiaroveggenza?

No, per il filisteo, per l’uomo -  massa,  il filosofo, l’artista, è sempre sospettato di segreta scioperataggine e di mangiare  a sbafo, di schifare i suoi loschi piaceri, e di denigrarlo apertamente, con la sua condotta di vita che non è  affatto purtroppo originale, oggi non lo è più nulla, se non nel tentativo di recuperare l’origine, cioè l’infanzia, il luogo ciò in cui la parola vien meno, e la glossolalia, la frase balbettata, ci riconnettono a qualche lontanissimo tremolio stellare. Il filisteo di cui parlo, l’uomo massa,  che vuole distruggere ogni differenza, è un bambino annientato e odia coloro che invece sperimentano in ogni loro gesto la segreta complicità col bambino che è in loro e perciò rabbrividisco quando allo specchio lo vedo farsi beffe di me e di tutto ciò in cui credo.


                                                                                                                                                                      

Cantos romani - Fernando Acitelli

mercoledì 23 ottobre 2013






La Roma di Fernando Acitelli, descritta in questo poemetto intitolato Cantos romani, è una città in cui il passato e il presente si compenetrano,  i vivi e i morti si confondono, l’antichità prende vita e il mondo contemporaneo sembra essere un’eco di quest’ultima, una sua emanazione. Viene in mente Kavafis e la sua operazione di rielaborazione del passato, qui in un florilegio di nomi l’Antica Roma si scopre ancora vivente,  i profili degli imperatori emergono da antiche monete, le lapidi e le urne rievocano uomini ed epoche sommerse, al tempo stesso la Roma di oggi ci sorprende con i suoi bar, le sue strade, i suoi palazzi, i suoi negozi, visti attraverso un obiettivo fra il cinematografico e il metafisico, che ci restituisce una città sospesa fra sogno, memoria,  realtà. Ecco un verso che sintetizza bene questa dimensione: “uno strato diffuso di polvere/poneva un velo sulle cose antiche/ che al riparo sfioravano l’eterno[…]”

Così i morti della storia convivono con i vivi del presente, in un’alleanza che costituisce il fulcro misterioso di questo poemetto interessante anche se diseguale nella resa. Non sempre, infatti, la poesia di Acitelli colpisce nel segno, a volte pare cadere nella trappola di un esoterismo fine a se stesso, con versi un po’ involuti e di difficile comprensione. Nel complesso, però, è apprezzabile questo tentativo di disegnare la fusione fra la Roma del passato e quella del presente e il poemetto ha dei momenti di alta poesia:

“Una ospitalità definitiva chiedevo, una stanza/ sotto il campanile, da parroco del Delfinato/ con quell’essenziale così rarefatto/ da sembrare una natura morta osservata troppo:/letto, comodino, bacile, anfora, candelabro, vis à vis ad ante/ cigolanti. Una perpetua pure, di quelle con il viso/ da santino, avrebbe vegliato sulla mia ombra e di notte/ mi sarei messo in ascolto del suo respiro  come a incitarla/ a resistere.”

Il tono narrativo permette ad Acitelli di raccontare la città, di fotografarla nelle nervature dei bassorilievi e dei marmi, intuendo una dimensione spettrale, notturna, ambigua che fa da sfondo alla sua magnificenza di “città eterna”. In realtà si capisce che molte città si agitano dentro di essa, ognuna con il suo mistero.

C’è la Roma dei reperti e della storia,  la Roma precristiana che ignora il Natale e quella cristiana che lo celebra, c’è la Roma quotidiana un po’ sbiadita, e quella del mito con le fantasmagorie dei suoi colori, c’è la Roma dei negozi, come il Viganò che vende abbigliamento inglese, la Roma sotterranea delle fogne, quella pagana dei mitrei, quella delle prostitute e dei magnaccia,   quella popolare, in cui si può stare come per magia ”a due isolati dalla verità”  conoscendo “un tempo protetto”  che non ha ora e che si fa beffe degli istanti  e altro ancora. Soprattutto,  la città sembra un luogo della mente, onirico,  magico, dove i fantasmi del quotidiano si sposano con le ombre del passato, dove le esperienze biografiche di Acitelli si confondono con il mito e con la storia di Roma.

Il titolo rievoca i Cantos di Ezra Pound, nel complesso il poemetto sembra una mescolanza di echi di Montale, Pasolini (soprattutto quando racconta della Roma più popolare) e Kavafis come già detto, perché c’è lo stesso sentimento epico, e malinconico contemporanemente, del tempo passato. Il passato in questo poemetto è “un aldilà a portata di mano”, qualcosa di tangibile come una moneta accarezzata per ravvisarvi il profilo di un imperatore e al tempo stesso evanescente come la memoria. Acitelli disegna una mappa che, prima ancora che geografica, è emotiva e lascia nel lettore una sensazione di nostalgia, un quid di struggimento davanti alla bellezza un po’ triste delle rovine.

Un incontro al Bar Gonzaga (estratto da "Sotto una luna in polvere")

sabato 12 ottobre 2013






Si potrebbe inventare un personaggio,
che parlasse più veloce del fiume,
che amasse gli aironi e le ore piccole,
scoria dell’invisibile  la sua visione
del mondo, ma  anche personale, umana:

“Io cerco l ’oscurità, l’anonimato
esattamente il blu di Mirò
 con  un punto giallo al centro,
cerco un gioco di specchi,
in cui io veda l’altro, il detentore
dei segreti della mia esistenza”.

Lei invece ha il riso più vasto dell’oceano,
l’anima sulle labbra, e un cuore di bambola,
ha sogni da educanda ed incubi da carnefice
 e molto  si racconta, a voce bassa,
della sua animalesca superbia.

“ Io voglio l’oro fradicio di un sottobosco,
dove si imperla di lucciole la foglia”.

Il terzo è un lunatico nottambulo,
che ha la follia nel sangue, questa passione
per l’impossibile,  ad una stanchezza d’esistere
 combinata in uno strano arabesco,
e gli porgono una tavola
del test di Rorschach, con un sorriso lento :

“ Io qui vedo Anubi, nudo, con un fallo enorme,
che balza da una  fratta e sullo sfondo
il solstizio delle streghe, dove uno
viene impiccato all’albero del linciaggio “.

Si sono incontrati al Bar Gonzaga,
nei loro occhi è  brillata un’intesa,
poi tutto è finito, perché in questo mondo
solo sfiorarsi è  davvero divino.

                                                                                              Dicembre 2008

                                                                                                                                             Ettore Fobo
***
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La cura Schopenhauer – Irvin Yalom

sabato 5 ottobre 2013




 

Quando un libro piace, di solito, si sente usare l’espressione “l’ho letto tutto d’un fiato” oppure lo si loda dicendo che è scorrevole, si legge facilmente, eccetera. Nella mia esperienza invece ho notato che non sempre un libro del genere è necessariamente un bel libro, un libro da ricordare. Capita che letto tutto d’un fiato, tutto d’un fiato si dimentichi, a volte libri ostici nella lettura, o nella prima lettura, si rivelano poi fondamentali per la costruzione di una visione del mondo.

Questa premessa per dire che questo romanzo di Irvin Yalom,  La cura Schopenhauer,  appartiene per me alla categoria dei romanzi letti tutti d’un fiato, dei libri divorati con avidità. Oltre tutto in questo caso, diversamente da quello che ho appena detto, si tratta  davvero di un bel romanzo, con personaggi ottimamente descritti, una trama fluida, costellata di piccoli o grandi  colpi di scena, ben calibrati all’interno del testo, che si configura come un meccanismo narrativo esemplare. Lo ricorderò? Ho l’impressione che si tratti di uno dei romanzi migliori da me letti quest’anno.

L’edizione americana risale al 2005,  esattamente come quella italiana di Neri Pozza, tradotta da Serena Prina.  Si tratta di una, a tratti davvero prodigiosa, fusione di filosofia, psicologia, biografia, narrativa, ed è il secondo romanzo di Irvin Yalom, psichiatra americano di una certa fama, che si sta dedicando alla narrativa, con ottimi risultati. E’ quasi l’invenzione di un genere letterario a parte, narrativa psicologica con incursioni filosofiche che hanno una certa efficacia.  Prima di questo  Yalom aveva scritto Le lacrime di Nietzsche, dopo ha pubblicato invece  Il problema Spinoza, trasformando forse quella che era in origine  una sua genuina intuizione in un cliché, in un marchio di fabbrica.

Il protagonista de La cura Schopenhauer è uno psichiatra di 65 anni,  Julius Hertzfeld, che scopre un giorno di essere affetto da una malattia incurabile. Allora comincia una serie di riflessioni che lo scuotono nel profondo e lo inducono a ripensare alla sua vita. Sarà il contatto con un suo paziente del passato, Philip Slate,  a metterlo in relazione con Schopenhauer, terapeuta ante litteram, maestro di vita, figura fondamentale  della filosofia di ogni tempo, di cui il romanzo racconta la vita e descrive per sommi capi il pensiero.

Si tratta di un romanzo corale, avendo come protagonista non un solo personaggio ma un gruppo, per inciso il gruppo di terapia gestito da Julius. E’ quindi anche la storia dei cambiamenti che occorrono alle persone coinvolte nella terapia. Così il romanzo vive su due piani: il primo costituito dalle dinamiche interne di questo gruppo, il secondo riguarda invece la biografia di Schopenhauer, la cui vita è analizzata, soprattutto,  nella misantropia e nel pessimismo che l’hanno caratterizzata. Così da una parte abbiamo persone che cercano di superare le loro difficoltà relazionali, dall’altro la storia di un filosofo che ha fatto della solitudine il metro della propria libertà.

Il romanzo narra di trasformazioni psicologiche, di avventure dentro il pensiero, d’illusioni e di finzioni pericolose per l’integrità dell’individuo. I suoi limiti sono paradossalmente legati ai suoi pregi: a tratti sembra un libro troppo ben fatto, troppo conforme alle regole della narrazione,  i cui colpi di scena arrivano al momento giusto e tengono il lettore letteralmente incollato alla pagina. Il tutto sembra uscire da un manuale di scrittura creativa, togliendo forse al romanzo un po’ di caotica spontaneità.  Inizialmente il personaggio di Philip è raccontato in maniera troppo negativa, incarna in maniera troppo sfacciata la figura del capro espiatorio,  pare un’inverosimile macchinetta di citazioni che solo nel proseguimento del romanzo acquista solidità. Bisogna, però, leggere tutte le oltre 450 pagine del romanzo per capire appieno la portata di questa trasformazione e ciò che all’inizio può apparire artificioso o stereotipato si risolve in una rivelazione. Altro difetto è nella descrizione delle dinamiche di gruppo, davvero qualche volta l’eccessiva tensione al politicamente corretto risulta stucchevole ma si tratta davvero di cercare il pelo nell’uovo. Questo è un ottimo romanzo, costruito con maestria, pieno di spunti interessanti.

In definitiva La cura Schopenhauer è un’intelligente parabola sul senso della vita. Ed è forse  paradossale che per scrivere questo racconto lo psichiatra - scrittore abbia preso come fulcro la vita e il pensiero di uno dei filosofi più pessimisti della storia.   Tra le altre cose  ha messo in crisi uno dei miei assiomi, di cui parlavo all’inizio di quest’articolo: che l’eccessiva leggibilità di un romanzo sia quasi una prova contro di esso. In questo caso il romanzo è scritto con semplicità ma questa semplicità, lungi dall’essere un limite, è funzionale a raccontare le avventure e le disavventure interiori dei personaggi coinvolti e ad avvicinarci alla figura, scontrosa e solitaria, di uno dei filosofi più geniali della storia, avendo anche il coraggio di evidenziarne i limiti caratteriali. In un passo Yalom arriva a scrivere che Schopenhauer sarebbe stato, nella nostra epoca, come diverse personalità di genio, il candidato ideale per una terapia psicologica. Però,  Yalom non cade nella trappola di psicanalizzarlo  e realizza così un’interessante fusione di narrativa, psicologia, divulgazione filosofica, biografia, riuscendo nella difficile impresa di armonizzare istanze così diverse.