Tutto va bene

sabato 29 dicembre 2012




Ora prego  il vuoto con stile. Penso, trafitto da televisioni,
conto su internet come un oracolo. Ho la visione orfica annacquata
ma l’amore mi stilla fiori, e va bene, indosso la faccia del suono.
Dirò il futuro con bocca antica, in un fremere di pioppi
c’è l’eterno che sospira:  noi non l’udiamo, distolti dal male.
Abbiamo perduto le parole. Balbettiamo analfabeti.
Ci ronza una voce dentro, che è troppo umana.
Che fare? Naufragare in un infinito dissolto.
Oh grande vuoto! Sei la salvezza.
Tutto va bene, sotto un sole di cenere.
Tutto splende, sotto una luna in polvere.

                                                                                                                             Marzo 2009
Ettore Fobo

***

Disponibile su Amazon in versione ebook a 89 centesimi.

Il Natale oggi - secondo Umberto Galimberti

sabato 22 dicembre 2012







“Non guardiamo al Natale con occhi innocenti. Non nascondiamoci dietro lo sguardo dei bambini. Nel loro incanto sappiamo che c’è provvisorietà e anche un po’ di inganno. Una festa può essere così universale solo se coglie il senso originario della nostra esistenza, non solo semplicità e innocenza, che, nel disincanto del
mondo, ormai non ci appartengono più.
Messi al margine del mondo che ogni giorno abitiamo e contatto con l’origine della nostra esistenza, a Natale proviamo la vertigine di chi si trova per un giorno e a sua insaputa gettato lungo la via faticosa della ricerca di senso, della direzione della nostra esistenza, con l’amara sensazione che il teatro del mondo ci preveda come semplici marionette, mosse da voleri che ci sovrastano e ci impongono, loro sì, una direzione ignota.
E allora il cielo sopra la grotta del presepe di Natale diventa un testimone indifferente dove, esausto, si ripete il rito della nascita di Gesù, con santi e angeli che non hanno sguardo per ciò che capita sotto i loro occhi. Il tempo della speranza che il cristianesimo ha inaugurato si fa così lontano da diventare estraneo al nostro sguardo, perché ormai siamo alla cruda accettazione della casualità della vita. 
 […]

E allora dov’è il cristianesimo che ha fatto la sua irruzione nel tempo annunciando proprio la speranza?
In Occidente se ne è persa la traccia. Resta la memoria della sua origine, di cui ogni anno a Natale si festeggia la ricorrenza, con il disagio di chi si appresta a celebrare una festa cristiana con un’anima che, ormai da tempo, cristiana non è più.
Non so se questo sia un bene o un male. E’ semplicemente così. Ma se riconosciamo che la nostra cultura è regolata unicamente dalla rigida legge di mercato ed è disposta a ospitare solo  qualche deroga in forma di elemosina, beneficenza e volontariato (utili più ad alleviare il senso di colpa connesso al nostro privilegio
che a trasformare le condizioni più disastrose del mondo), allora evitiamo almeno quella falsa coscienza che ci porta a identificare l’Occidente con il cristianesimo. Mai come oggi le due culture appaiono abissalmente distanti. E il modo con cui ogni anno festeggiamo il Natale ne segna inequivocabilmente il disagio e la contraddizione. “

***


brano tratto da:   Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto -   Umberto Galimberti – Feltrinelli – 2012 .

Donne - Charles Bukowski

sabato 15 dicembre 2012





                                                                                              Scrivo racconti e poi ci metto il sesso per vendere.”

Charles Bukowski

Bukowski sarà forse un maschilista della peggior specie, (senz’altro così gli piaceva apparire) sicuramente non si è mai nascosto  dietro un dito, non è mai stato  ipocrita, ha sempre saputo  bene che il suo pubblico da lui voleva sempre la stessa cosa: sesso e alcol. Così in questo romanzo, Donne, il leitmotiv è sempre lo stesso: il suo alter ego si sbronza, fa sesso con donne e lascia filtrare attraverso la sua prosa tutta la desolazione di una vita senza attrattive che non siano quelle sopra esposte. C’è una grande monotonia in questo romanzo, la situazione si ripete identica: l’alter ego Chinaski è pressoché simile allo stesso Bukowski, ha lavorato alle poste, è un ubriacone, è uno scrittore che si sta affermando. Così tra un reading e l’altro, tra una bevuta e l’alta, riceve telefonate da ragazze che vorrebbero conoscerlo e che invariabilmente finiscono a letto con lui.

Siamo sulle soglie della pornografia, Bukowski non esplora le dinamiche del sentimento, sarebbe patetico, la pagina è nuda, secca, oscena, senza alcun alibi, lo scrittore americano potrebbe apparire dunque antipatico, perché  mostra inequivocabilmente la natura monotona e bestiale del desiderio maschile. Qui la donna è ridotta a puro congegno masturbatorio, il sesso è dunque solo un’altra dimensione di alienazione senza rimedio, come le bevute, le corse di cavalli, i reading, che finiscono invariabilmente con sbronze colossali. Le donne descritte si assomigliano tutte, hanno in genere brutte storie alle spalle, forse sono pazze, sicuramente affamate di sesso, intrecciano con Chinaski relazioni brevi e tormentate e vengono rimpiazzate da altre e il ciclo si ripete. C’è quindi una dimensione sospesa fra allucinazione pornografica e realismo metropolitano, che, se può dispiacere, ha però il pregio di essere autentica.

Romanzo scabroso, Donne,  probabilmente non è tra le cose migliori che abbia scritto Bukowski; l’anonimato della città, l’alienazione dei rapporti, è comunque di un certo interesse, e la prosa di Bukowski, sfrontata ma a tratti tenera, è sempre in grado di avvicinarci al nucleo di quest’alienazione, senza illuderci mai, ci dà il sapore aspro della disperazione. Eppure il romanzo non è avvilente, c’è una certa comicità che riscatta dal plumbeo scenario pornografico descritto, a tratti pesante. E’ uno  humor nero sottile e insinuante che preserva Bukowski, e di conseguenza il suo alter ego, dalla disperazione e dalla follia.

Tutti i personaggi, uomini e donne, paiono vittime di una realtà che non offre loro nulla, solo la speranza di una vittoria alle corse, il mediocre piacere del sesso consumato freddamente, il calore dell’alcol che scende per la gola. Questi sono i temi di tutto Bukowski, che in questo romanzo rischiano  di apparire cliché un po’ logori; ogni tanto verità spiacevoli affiorano nel testo, la vita è questa, prendere o lasciare, sospesi come siamo fra frustrazioni e grottesche speranze destinate a essere deluse.

Così Bukowski appare ancora una volta come l’interprete ideale di un’umanità delusa e avvilita, abbruttita dal vizio, che vaga disperata in una città ostile e inclemente. La sua scrittura non conosce mezze misure o mezzi termini, Bukowski è uno scrittore autentico, sincero, schietto, la  disperazione che mette in scena è vitale ed è anche il motore della chiaroveggenza che lo contraddistingue. Vecchio saggio o vecchio porco che tutto ha visto e che di tutto si è stancato, lo scrittore americano anche nelle cose meno riuscite non abbandona mai il suo piglio sarcastico, la sua vena dissacratoria, perché nella vita qui descritta non c’è  nulla che valga la pena e l’umanità ridicola, patetica, non ha davvero nulla a cui aggrapparsi, se non,  appunto,  il fantasma del piacere sessuale, ombra tra le ombre.

La monotonia stessa dei rapporti, la freddezza con cui Bukowski descrive gli atti sessuali, la centralità della solitudine, fanno di questo romanzo un piccolo, e forse involontario, studio antropologico, dove femmine e maschi, privati delle illusioni che li rendono complici, si ritrovano gli uni davanti agli altri nella loro nudità di vittime, perché tutto è inganno, prima o poi cala su noi tutti la stessa consapevolezza del nulla che incarniamo.  

Questo nulla è davvero senza ornamenti, gelido e ripugnante, qui siamo aldilà di ogni consolazione,  dentro una disperazione nera e a tratti davvero squallida. Ma neanche il nulla va preso troppo sul serio, sembra dirci Bukowski, la vita è una farsa, non resta che ridere di essa, anche se  ci sta schiacciando, non  ci resta che opporre un ghigno stralunato all’orrore che dilaga.

Niente - Janne Teller

sabato 8 dicembre 2012





La letteratura spaventa, se essa non si limita ad essere mera confezione di storie consolatorie o sterile intrattenimento della nostra ebetudine quotidiana. E ancora oggi quando essa indaga il reale e ce lo riporta scevro da illusioni, talvolta arriva la censura a imbavagliarla. Così questo romanzo, in apparenza così inoffensivo, Niente di Janne Teller,  poco più di cento pagine, è caduto fra le maglie di una subdola censura in diversi paesi,  Norvegia, Germania, Francia, Spagna, trovando  l’opposizione dei librai che si rifiutarono di esporlo, arrivando ad essere escluso dai programmi scolastici perché ritenuto pericoloso.

Fu pressoché ignorato nel 2004,  al tempo della prima edizione italiana di Fanucci, intitolata L’innocenza  di Sofie, ritorna nelle nostre librerie in una edizione Feltrinelli, con la traduzione fedele del titolo originario,  dal danese  Intet, Niente,  appunto.  Si tratta ormai,  a dodici anni dalla sua uscita in Danimarca, di un romanzo di culto e come spesso capita le polemiche ne hanno  accresciuto la fama di libro maledetto. Perché di questo si tratta, di un romanzo maledetto, che ci parla in termini freddi  e crudeli dell’adolescenza,  ricordando in questo senso Il signore delle mosche di William Golding.

Lo scandalo è accresciuto dal fatto che il romanzo sembra inizialmente rivolto a un pubblico di ragazzi, ma è un’illusione, Teller costruisce una fiaba nera, un thriller psicologico,  ambientato fra i ragazzini danesi,   che parla però della crisi di valori della nostra epoca, parla in termini che mescolano crudeltà e candore del nichilismo che permea i nostri giorni  e invade subdolamente  le nostre coscienze.

All’alba dei suoi quattordici anni, un ragazzino danese, Pierre Anthon, fa la scoperta dell’inutilità della vita, della sua mancanza di senso. Come il Barone rampante di Calvino, si rifugia allora  su un albero da dove, simile a  un filosofo nichilista, sferza i suoi compagni con considerazioni amare  sulla vacuità dell’esistenza.
Tale condotta sconcerta i suoi compagni che  rispondono  al suo precoce nichilismo pensando di proporgli una raccolta di cose che nel loro mondo hanno significato.

Partono con cose banali: un pallone da calcio, un paio di sandali, una bicicletta, una canna da pesca,  ma la faccenda prende loro la mano e ben presto si trovano a fare i conti con le logiche  del branco, in un  vortice di vendette personali, in un crescendo parossistico di sacrifici.

Tutti questi oggetti finiscono ammonticchiati in un magazzino, a formare quella che loro stessi chiamano “la catasta del significato”, luogo che ben presto si rivela un inquietante patchwork, un mostruoso totem, a cui i ragazzini in un crescendo di follia  dedicano tutte le loro energie, nel disperato tentativo di ridare senso all’esistenza.

In questo mondo gli adulti sono assenti, la loro legge, smascherata come finzione, non serve a contenere la rabbia di questi adolescenti che progressivamente perdono il senso della realtà, soggiogati da quella che inizialmente pareva una dimensione ludica, e si rivela infine, in un freddo gioco al rilancio, simile a quello che nelle antiche culture dei nativi americani si chiamava potlach, cerimonia in cui beni di prestigio venivano distrutti. La ricerca di significato precipita così nella farsa, nella blasfemia, nell’incubo.

Perché fatalmente il  tentativo di dare senso alla vita finisce per  coincidere con la dissipazione della stessa, la loro ricerca di significato li mette davanti al deserto e al niente, che il mondo degli adulti nasconde a se stesso, mentre essi sono costretti dall’improvvisa diserzione del loro compagno a fissare questo baratro di insensatezza e vanità del tutto.  L’esito, proprio come ne Il signore delle mosche,  è la follia e la barbarie.
La “catasta del significato” sembra così essere una metafora della nostra epoca, luogo in cui i valori sociali, religiosi, politici,  finiscono ammucchiati come carabattole senza valore.

Janne Teller così,  mettendo insieme genialmente  pochi elementi,  crea un romanzo asciutto, crudele e definitivo, che dietro il niente del titolo nasconde tutto l’orrore di una adolescenza abbandonata a se stessa, obbligata a trovare da sola un senso alla vita, senso che il mondo degli adulti ha ormai rinunciato a dare.

Schegge - Giovanni Papini

sabato 1 dicembre 2012





Fra il 1954 e il 1956, anno della sua morte, Giovanni Papini tenne, con cadenza quindicinale, una rubrica sul Corriere della Sera, intitolata Schegge. Questa rubrica racchiudeva scritti eterogenei: slanci lirici, considerazioni religiose, analisi della situazione italiana, sociale e anche politica, ricordi commossi della propria fanciullezza, recensioni sui generis, scritti tutti legati da uno stile di scrittura prezioso,  acuto, vivace, recuperando Papini, in parte, il lirismo che aveva caratterizzato le sue prime opere. Queste schegge furono pubblicate postume in volume da Vallecchi nel 1971 ed è in tal edizione che io le ho lette.

Ai tempi della stesura di queste note, Papini era già paralizzato e praticamente cieco e a tali  sventure si aggiungevano da una parte l’ostracismo del mondo culturale di allora, che non gli perdonava la sua compromissione con il fascismo,  dall’altra la fredda indifferenza con cui la gioventù  del tempo  accoglieva  ormai le sue nuove opere, ritenendolo colpevole di aver abbandonato le posizioni da incendiario della sua giovinezza, in favore di una visione più pacata.

Rilette oggi a distanza di quasi sessanta anni queste schegge mostrano un’intelligenza affilata, un’anima probabilmente pacificata dalla conversione al cristianesimo, e soprattutto quello stile di scrittura, insieme mordace e lirico, che fece di Papini uno scrittore ammirato.

Furono molte, però, forse troppe, le contraddizioni della sua vita: da fervente interventista dalle conclusioni malthusiane divenne un pacifista intriso d’incenso, da spietato avversario di Dio divenne un suo servo pio e infervorato, da rabbioso vate dell’azione si tramutò in un mistico contemplativo. Ce n’è abbastanza da sconcertare e per ricevere l’accusa d’incoerenza.

Prese degli abbagli clamorosi in materia di poesia; profetizzando l’oblio per Dino Campana e Dylan Thomas, che tuttora splendono nel firmamento dei poeti, non accorgendosi invece della pochezza enfatica delle sue stesse poesie, su cui invece l’oblio è calato sì, forse misericordioso. Perché questo va detto, se Papini fu uno dei prosatori più geniali della sua epoca, non fu altrettanto abile come poeta e risulta in questo senso oggi giustamente dimenticato. In questa rubrica con un certo infantile sussiego pubblica alcuni suoi versi: pedanti, pesanti, oziosi, scolastici nei loro ritmi ingenui, e più volte si definisce poeta, come uno scolaretto contento di ricevere questa investitura.

Se Papini fu un poeta, lo fu in prosa: certi scorci paesaggistici, anche in questa raccolta di scritti, sono esemplari stilisticamente e quando, per esempio, ricorda sua madre, la sua prosa diventa commovente e in sostanza Papini non ha paura di parlarci di cuore e di sentimento, non ha paura di apparire ingenuo.  
Anche quando parla di Cristo, con il suo fervore di convertito, l’efficacia della sua prosa sormonta ogni dubbio circa la validità dei contenuti. E’ uno dei pregi di Papini: la forma è quasi sempre affascinante e queste prose, pensate per il principale quotidiano italiano, sono intrattenimenti piacevoli, e direi, usando una parola forse oggi caduta in disgrazia, istruttivi; sono prose adatte cioè al pubblico vasto ma generalmente un po’ distratto dei giornali. C’è  in esse  l’ispirazione di una ritrovata  giovinezza  e il mestiere di una ben accettata vecchiaia.

Papini aveva sempre avuto un’indole da moralista sui generis, da fustigatore dei costumi, e anche in questi scritti essa affiora, anche se forse un po’ smorzata dagli acciacchi e dall’età. Il lascito migliore di Papini si trova dunque nel suo sguardo sulle cose, insieme lucido e incantato, nella ferma convinzione che la vita sia un’avventura che bisogna vivere fino in fondo a dispetto della coscienza delle amarezze e delle opacità di cui troppo spesso consiste.  

Se c’è l’ottimismo della fede, ciò non impedisce a Papini di sentire l’immane vacuità che avanza. Perciò davanti ad alcune sue profezie rabbrividiamo sentendone acutamente l’esattezza:

Se tanto mi dà tanto e se questo processo di livellamento diventerà sempre più rapido, i mei prossimi posteri si ritroveranno a vivere in un magma umano formato da esseri indistinti e indistinguibili, uniformi e conformi, dove non saranno più visibili neppure quegli ultimi resti di personalità che sono sopravvissuti, per inaudito miracolo, fino alla metà di questo secolo sciagurato.”