Spirito

sabato 24 settembre 2011


I

Grida disperate, grida di odio e di rivolta nella notte assoluta della città. Nella notte gelida, dove abitano segrete lontananze, prossimità inconcepibili, ma la tragedia sempre il lutto affina, e così scompariamo nella nostra inquietudine, sostanza luminosa e oscura, regno dell’attonito silenzio in sembianze di leopardo.

A coloro che abitano la letteratura non sfugge l’armoniosa tela su cui è inscritto il gergo del naufragio, ossia la benevolenza straziata, fugace, sfrontata, delle periferie con le quali, nonostante il vizio, si è conclusa una pace.

II

Ora tutti gli orgasmi e i traumi del mondo sono concentrati in un gesto di fusione, a raccontare un postumano trascendersi traverso microchip che ricordano gli angeli e i demoni delle passate tradizioni.

Ho infatti immaginato un futuro tecnologico che converge con le antiche intuizioni metafisiche dei Veda.

Vorrei uscire dal postribolo dei secoli con la mia faccia ancora intatta, con le mie maschere tenute calde dal respiro di divinità inquietanti come tigri nel crepuscolo.

Sto sognando mitologie e compongo tutti i massacri che le renderanno sacre. Ho la lira insanguinata dei poeti prima della scrittura.

III

Dove conduce questa linea di pensiero? A quale trafittura mistica? Oh, la zanzara dello Spirito. Questo pungolo per automi. Eccitanti della volontà di vita, le religioni mantengono vivi i loro despoti.

La libertà spaventa il pollame automatico della Specie umana e chi inventa nuove gabbie è decretato eroe.

Per questo Spirito, Anima, flatus vocis, ti lascio cadere come il più orribile dei fantocci.

La libertà concessa è solo svanire musica e petalo, rabbrividire.

Abbiamo dimenticato gli antichi nomi del sole, per questo ovunque la roulette impazzita fa girare la febbre del caso e del caos.

Ettore Fobo

Caccia alle donne – James Ellroy

sabato 17 settembre 2011


Stavolta Ellroy non ci regala uno dei suoi affilati noir, ma, come nel caso de I miei luoghi oscuri, un testo autobiografico che verte sulla sua passione e ossessione per le donne, fil rouge che lega la sua infanzia alle altre età della vita. La madre Geneva “Jean” Hilliker è il fantasma edipico che si agita dietro le quinte di questa ossessione, fu uccisa in circostanze misteriose e ciò non mancò di rappresentare per lo scrittore alimento per un’ulteriore paranoia. La paranoia è accresciuta dal fatto che in un’occasione Ellroy maledisse la madre, augurandosene la morte, ciò nel romanzo diventa “la Maledizione”, cui lo scrittore bambino attribuì grande importanza. Il titolo dell’edizione Bompiani è fuorviante: non si tratta, infatti, di ricognizioni in cerca di sesso facile, piuttosto di un sofferto romanzo di formazione erotica e sentimentale. Il titolo originale era The Hilliker Curse, La maledizione Hilliker.

Il romanzo comincia con l’infanzia dell’autore, Ellroy bambino viene descritto dall’Ellroy adulto come un voyeur escluso, dalla fantasia tendenzialmente incestuosa, che spia e pedina le bambine, le ragazzine, dominato completamente da una pulsione che non riesce a dominare, a capire, a spiegare. Tutto questo reso con una scrittura cattiva, secca, colma di pathos, che, come al solito, ci tiene attaccati alla pagina. Quella di Ellroy è una scrittura ruvida, aggressiva, anche se in questo testo l’autobiografismo smorza un po’ la sua verve.

Caccia alle donne è comunque il classico libro che si legge tutto di un fiato, perché pare scritto così, un’emorragia di eventi che scorrono sulla pagina con velocità, con crudeltà, con calcolata furia.

Inizialmente Ellroy adulto pare provare poca o nessuna pietà per il suo ego bambino e l’ambiente difficile in cui è vissuto. Sembra il suo lo sguardo disincantato di uno scienziato che osserva il suo passato in un microscopio, materia ormai congelata, una volta per sempre. La freddezza in uno scrittore è qualità fondamentale, poiché il primo compito di un artista, come scrive Henry Miller, è “superare sentimento e sentimentalismo”; in questo senso Ellroy, eliminando ogni empatia con il se stesso bambino, ci restituisce un’immagine della propria infanzia, anche spiacevole, probabilmente oggettiva, lontanissima da ogni agiografia.

La sua giovinezza è poi quella del perdente, dedito alle droghe, all’alcol, al voyeurismo più efferato(s’introduce nottetempo nelle abitazioni delle donne per carpirne i segreti); frequentatore seriale di prostitute Ellroy sfiora la follia.

Alcol e droghe regolavano la mia vita di fantasieRestavo consumato dalle donne. Questo mi stava sospingendo verso la follia e la morte.”

Poi Ellroy fa pace con i propri demoni e la sua vita ha una svolta, si sposa due volte e riesce ad arginare la propria ossessione voyeuristica, da escluso, da perdente, si trasforma in uno scrittore di successo, il suo rapporto con la vita e con le donne sembra migliorare, fino al momento in cui “la Maledizione” si ripresenta sotto forma di un esaurimento nervoso. Ellroy tratteggia un paio di ritratti femminili significativi, Helen, la seconda moglie, e Joan, quella che avrebbe potuto essere la terza, descrivendo il rapporto con loro e il proprio turbamento.

Caccia alle donne è dunque il resoconto di una discesa negli inferi con relativa redenzione, è un romanzo scritto con la consueta abilità, non è certo, però, il grandioso affresco di American Tabloid, è un testo autobiografico che affonda nei turbamenti del suo autore, il cui ego può risultare però in alcune parti fastidiosamente smisurato. E’ un limite del romanzo l’ostentato egocentrismo di Ellroy, che scrive come in un raptus di egomania fortunatamente però consapevole.

Qui la materia trattata è comunque abilmente decantata dal lavorio dell’immaginazione, la prosa pare a tratti incendiaria, registrando il turbamento erotico di Ellroy, le sue piccole follie. Infatti, Caccia alle donne è un romanzo che rivela con coraggio anche le debolezze dell’autore, le sue ossessioni da ipocondriaco, la sua inettitudine sentimentale, le sue paranoie.

La redenzione avviene grazie al sorgere di un’altra fissazione: quella della scrittura, luogo in cui i demoni possono essere addomesticati o comunque cessano di essere così spaventosi.

“Ora il sesso è potere e il potere è narrazione e la narrazione ha sostituito il sesso.”

Poesie d’amore e della memoria- Costandinos Kavafis

sabato 3 settembre 2011


Per me la migliore traduzione di Kavafis rimane quella, straordinaria, di Guido Ceronetti, che però si è limitato a tradurre una manciata di poesie; questa di Paola Maria Minucci ha il pregio di essere onnicomprensiva dell’opera del poeta: tutte le sue 154 poesie sono tradotte in questa edizione Newton Compton.

La traduzione è sempre un’impresa ardua, maggiormente per un poeta come Kavafis, che si esprime utilizzando metrica e rima, in questo caso diventa davvero un’impresa proibitiva. Ciò nonostante qualcosa rimane e nel caso del poeta di origine greca è la strana commistione di aneddotica storica e commozione erotica.

Kavafis si muove al limite dell’oblio, dentro inezie che la storia trascura ma che nella sua poesia riscoprono la loro centralità. Poesie d’amore e della memoria è un titolo che ben sintetizza questo percorso: da un lato abbiamo, per esempio, epigrafi che celebrano del morto soprattutto la bellezza svanita, dall’altro annotazioni storiche, aneddoti sulla vita delle antiche città del medio Oriente, dell’Africa, della Grecia classica, che rivivono nella pagina con il lusso delle loro statue, delle loro monete, della loro cultura. Vengono colte nell’attimo della loro decadenza, del loro sfiorire, congelate da uno sguardo che però sa avvicinarle a noi con la sua precisione rammemorante.

Sono davvero poesie della memoria e della nostalgia queste, ora memoria storica, ricordo di civiltà scomparse, ora privata rievocazione di amori passati, che nel caso di Kavafis, omosessuale, sfidano la morale comune e rischiano di apparire scandalose, soprattutto pensando che sono state scritte fra il 1897 e il 1933. La paura dello scandalo imminente è ben presente, per esempio, in questi versi:

“ Cerca di non tradirsi, s’intende. / Ma a volte non gli importa. - / Del resto, sa a cosa si espone / e l’ha accettato. Non è improbabile che questa vita / lo porti a uno scandalo atroce. “

Il poeta alessandrino di origine greca è scosso dal ricordo delle labbra baciate, dei corpi sfiorati, tutto è svanito ma non la tremula fiamma della sua passione, che perdura, nonostante il tempo passato abbia consumato i volti, fatto appassire i corpi. La memoria però non si rassegna alla caducità e consegna questi amori all’eterno; la bellezza maschile è celebrata in versi pieni di commozione, belli nella loro semplicità, caldi dell’erotismo soffuso, mai volgare, che li permea.

Il passare del tempo è una delle ossessioni di Kavafis, passare delle civiltà, passare della bellezza, il suo è un omaggio in versi a ciò che rimane, fioca candela prossima a spegnersi la sua voce celebra anche questo svanire delle cose, con tristezza, con nostalgia, con dolcezza.

“Le visioni del piacere” passato sono in questi versi materiale per una chiaroveggenza che raggiunge quasi una dimensione di misticismo, sono davvero il viatico per una consapevolezza amara: tutto trascorre, i regni, le civiltà, i corpi, e rimane solo il ricordo, persistente, a dispetto di questa fugacità, persino ossessivo, ma non dolente, perché c’è una strana felicità in tutto questo, la felicità di chi accetta di rivivere con la memoria ciò che è svanito, e si lascia affascinare fino al deliquio, fino al delirio.

Alessandria d’Egitto, città natale del poeta, è fra le protagoniste di questi versi, città che oscilla fra mito e storia e con la quale il poeta vive in simbiosi, fino a registrare fra le pieghe della sua vicenda storica eventi insignificanti, che diventano però emblematici del carattere della città, della sua natura.

Le poesie storiche hanno la peculiarità di trattare di eventi minimi: la morte di un amico, monologhi di artisti intenti alla loro opera, vaticini di oracoli, per restituirci non il fasto della storia, ma la sua quotidianità modesta. Come modesta fu la vita del poeta, priva di eventi memorabili, chiusa fra l’esercizio della sua arte e un lavoro impiegatizio.

Scrive Alberto Moravia, a proposito del modo di intendere la storia di Kavafis:

“E’ una storia frantumata, polverizzata, disossata e quindi reinventata sentenziosamente o fiabescamente, come apologo, aneddoto, ricordo, confessione, illuminazione (…) E’ insomma la storia del decadentismo, ossia di un modo di intendere la vita e la cultura, come cose immobili, fuori della storia”.

Questa immobilità, questa sospensione, è un’operazione che Kavafis compie consapevolmente, realizzando nelle sue poesie l’incantesimo della distanza mitica dalla materia trattata; ogni aspetto della vita è lasciato vivere nella sua attualità extratemporale, le stesse città descritte, i moti dell’animo dei personaggi, sono come congelati nell’eternità, come se tutto accadesse oggi e sempre, da qui la freschezza della sua rievocazione. La nostalgia degli amori passati riecheggia potente in questi versi ed ha, anche in questo caso, la natura del mito e non importa quanto povero fosse il luogo in cui questi incontri si sono consumati, la passione proietta la sua luce su ogni cosa e anche ciò che è misero risplende.

Kavafis è un poeta dell’eros, come per gli antichi greci esso domina la mente e dona sensazioni di grazia, che paiono assumere su di sé una coloritura trascendentale, dove però la trascendenza è tutta nei sensi, nell’ ebbrezza sensoriale cui l’irripetibilità conferisce sostanza di sogno.