Questo fiore marcito che è l’Italia – il “caso Braibanti”

sabato 25 febbraio 2017






Aldo Braibanti,  a quasi  tre anni dalla morte avvenuta nel 2014,  è figura dimenticata. Negli anni Sessanta fu implicato in una vicenda giudiziaria che ebbe anche eco internazionale: fu condannato,  infatti, incredibilmente,  per plagio, l’unico cui questo reato del codice fascista,  poi abolito,  fu imputato. Dietro il pretesto del plagio si condannava la relazione omosessuale con Giovanni Sanfratello, non gradita ai genitori di quest’ultimo,  cattolici, ultra-conservatori, fascisti.  Braibanti fu condannato a nove anni di cui sette gli furono condonati  perché aveva partecipato come partigiano alla Resistenza.  Giovanni Sanfratello fu invece ricoverato in manicomio dalla famiglia dove subì contro la propria volontà trattamenti radicali di tipo insulinico e dove fu sottoposto a diversi elettrochoc.

Questa vicenda mi è nota perché ne parlò Carmelo Bene, nel suo libro intervista con Giancarlo Dotto nel 1998. Ecco le sue parole:

“Un fatto ignobile. Uno dei tanti petali di questo fiore marcito che è l'Italia. Fu condannato a undici anni, [sono nove in realtà, fonte Wikipedia] per un reato mai tirato in ballo fino ad allora. Il plagio. Per giunta ai danni di un maggiorenne... Tutto è plagio, che scoperta! Qualunque soggetto pensante e parlante è quotidianamente sottoposto a plagio. In seguito, sempre troppo tardi, questo reato fu cancellato dal codice penale. Contro Braibanti si scatenò la rappresaglia del sociale, la vendetta delle masse. Era l'intellettuale migliore che avesse l'Italia all'epoca. Aveva interessi pittorici, letterari, musicali. Profeta in anticipo di trent'anni. Fu uno dei primi a condannare il consumismo. I “diversi” allora in Italia si contavano. Lui, Pasolini, pochi altri"

Così leggo oggi questo interessante libro di poesie, a tratti davvero straordinario per intensità e precisione, Frammento Frammenti, edito da Empirìa nel luglio 2003, che raccoglie una grande parte dell’opera poetica di questo intellettuale, scritta fra il 1941 e il 2003. Man mano che si procede con la lettura delle poesie,  che sono ordinate cronologicamente, aumenta la percezione di trovarsi alle prese con un libro importante.  Sorta di romanzo autobiografico, Braibanti nella lucida  nota iniziale  chiarisce le ragioni del titolo scrivendo  le varie opere di un autore sono in realtà frammenti di un’unica opera”.

Così il linguaggio conosce le sue fratture, le sue ellissi, le sue frantumazioni. Difficile parlare di un’opera così vasta che per la stessa volontà dell’autore sfugge alle facili etichettature. Ciò nonostante mi sembra che questo laboratorio da principio abbia a che fare con le avanguardie degli anni Sessanta,(a cui Braibanti fu però orgogliosamente estraneo) sebbene se ne distacchi per una maggiore fiducia nelle potenzialità significanti della poesia e per le lotte civili che il poeta intraprese, contro il nazifascismo, contro il razzismo e le varie discriminazioni che come visto subì in prima persona,  contro il consumismo, prendendo le difesa di un certo edonismo che è rivelazione della sacralità delle pulsioni vitali  e infine proponendo  una visione ecologica di una certa potenza. Tutto questo lo rese intellettuale dissidente cui anche la dimensione di quello che allora si chiamava ’”impegno” andava stretta.

Questa è  dunque un’operazione poetica di grande valore,  lasciare sulla pagine sillabe che sono “luminescenti tessere sparse” che insieme rivelano e nascondono il loro senso, in una tensione intellettuale che si intuisce solitaria, e negli anni via via sempre più isolata. Questo anche perché Braibanti non rientra in facili classificazioni. Sebbene di formazione marxista,  l’intellettuale,  nato a Fiorenzuola d’Arda,  in provincia di Piacenza,  nel 1922,  scrive versi feroci contro Stalin (si allontanerà progressivamente dal PCI), così come contro  Hitler,  è consapevole della miseria rappresentata  dalla religione, ”l’ebreo Gesù è il più grande nemico del cristo”, condannando, come Artaud,  i preti, i muezzin,  i lama,“ cinici predicatori degli dei “e questo è pericoloso in una società cattolica come la nostra,  allora come oggi,   sebbene Dio sia a volte usato nei versi giovanili come orizzonte con cui si confronta un’ umanità forse stanca e disillusa. Più tardi diventerà “dio astenico e beffardo” o addirittura con lucidità nietzschiana ”una vecchia e  ingrata  malattia da cui possiamo guarire.” E più tardi Dio non rappresenterà nient’altro che una ” ingorda voglia di onnipotenza.”

Il suo si configura in seguito nella splendido poemetto  Declamatio,  per esempio, e  più o meno in tutta l’opera,  un anticlericalismo radicale, che,  forse, dato  il profondo gnosticismo che affiora, bisognerebbe definire un “ateismo eretico” . Bisogna essere grati a quest’uomo che scrisse, nell’Italia bigotta del 1963,  questi versi: “o vecchio o prete o foschi/ tiranni dei bambini!” La modernità fluida di questo poemetto, il suo ricorso alla biologia per decifrare la metafisica, il suo richiamo alla dimensione subatomica, credo sarebbero piaciuti molto al Deleuze de” L’anti – Edipo”. Questo poemetto mi sembra che sia una macchina che produce flussi desideranti che decodificano la grande macchina religiosa, dal Cattolicesimo al Buddismo  zen passando per Induismo e  Tao. Altri straordinari poemetti o poesie lunghe  costellano il libro:  La ballata di Anticrate, Mobile segno, Confidenziale, Lettera a Cornix…  in cui Braibanti condanna la cultura dominante con toni definitivi.

Figure  come Arlecchino, Pierrot,  o il chapliniano Charlot,  sono spesso  protagoniste delle poesie giovanili forse a raccontare  la vita come farsa in cui tutti indossiamo una maschera. Sono versi sfuggenti,  non direi ermetici, ma in cui qualcosa è perennemente nascosto, probabilmente la natura omosessuale degli amori raccontati e più tardi un enigmatico gnosticismo, filosofico e concreto, carnale.  Poesia come atto politico dunque e monologo solitario in cui svettano versi quasi cruenti nella loro condanna del conformismo:

A dodici anni s’impicca e prima scrive: ciao mamma tanti saluti a Dracula/ La gente dice cuore e vorrebbe dire culo” Versi che Carmelo Bene citò nel prosieguo dell’intervista di cui sopra.

Emozionante la poesia dedicata a Fausto Coppi - Morte di un campione - il quale ha regalato alla popolazione di tifosi ”molti sogni innocenti” e la cui morte giovane lo consacra definitivamente a mito e a simbolo.

 Anche Pasolini scrisse in un articolo di Aldo Braibanti, lodandone la mitezza e l’imperturbabilità dinanzi a una società che si accanì contro di lui fino a fargli scontare due anni di carcere per quella assurda vicenda del plagio. Questo scrisse, fra l’altro, Pasolini su Braibanti:
“La sua presenza nella letteratura è stata sempre intelligente, discreta, priva di vanità, incapace di invadenze.”

Proprio in virtu’ di questa mitezza,  che fu scambiata per debolezza,  egli divenne un  perfetto capro espiatorio cosicché l’opinione pubblica  poté scagliarsi contro di lui con la veemenza da linciaggio sua propria. Alcuni giornali della destra di allora lo definirono: “il mostro” , “il professore”, “l’omosessuale.” Ecco dunque che la “pubblica opinione/ è il tiranno arrogante.”    e profeticamente Braibanti già nel 1978 parla di “videodroga” e addirittura di  un mondo “a misura di computer […]nella giungla delle informazioni informali”.

 Egli non s’identificò conformisticamente con l’intellettuale di sinistra, cosa che ai tempi della vicenda giuridica in cui fu coinvolto forse lo avrebbe salvato, né si lasciò inquadrare dall’allora nascente industria culturale; in seguito  mantenne per tutta una vita la discrezione di cui parlava Pasolini negli anni Sessanta. Si riparlò un po’ di lui per il sussidio della legge Bacchelli  che gli fu assegnato nel 2006 dal governo Prodi.

Affiora,   prepotentemente a partire dagli anni Settanta,  l’amore che Braibanti nutriva verso gli animali. A lui dobbiamo alcuni dei versi più penetranti contro la realtà dei macelli o una poesia straordinaria sui lupi che “ululano  per malinconia” mentre il poeta confessa di non amare “chi vince”. Riconobbe agli animali la loro dignità, li sentì come vittime dell’uomo, fu vegetariano,  condannando  a più riprese “ le tribù senza luce dei mangiatori di carne”. Braibanti era anche un esperto di formiche a livello scientifico, un mirmecologo.

Affiancando  versi e prose poetiche, mescolando tutto con abilità, tirando fuori dal suo cilindro questa  lingua scabra e tagliente;  Braibanti esplora una dimensione in cui alla parola è restituita una facoltà oracolare e a tratti  quasi una valenza mistica, espressa con grande pudore. Nelle ultime poesie di questa raccolta necessaria il tema ecologico si fa sempre più pressante a riprova della capacità di Braibanti di vivere il presente.Tutto sotto il segno di una razionalità quasi insonne.  C’è l’autobiografia di una maschera in questi versi, dove  Braibanti persegue lo straniamento linguistico proprio della poesia con sobrietà  a volte con freddezza.  Il mistero della parola poetica si conferma così inesauribile e la sua opera  ne è scaltra testimonianza.

Così Aldo Braibanti da caso giudiziario  può essere restituito a caso letterario, in quella dimensione fuori dal tempo che è propria della poesia, che pure è così potentemente storica  da  poter essere  usata come radiografia di ogni epoca. Ammiriamo così la tremenda attualità di questi versi, scritti nel carcere di Rebibbia nel fatale 1968:

“lo so – presente è la violenza – ancora di metafisica si muore
la tolleranza del pubblico merita solo i sondaggi della pubblicità
il consumatore ha quello che vuole – il consumatore l’avete inventato voi
voi avete venduto abusato massacrato per sole parole
voi siete fermi all’orda- perseguitate torturate braccate il diverso[…]
la vostra idea è natura
castrata “.

Una poesia di Zbigniew Herbert

giovedì 9 febbraio 2017





Supposizioni in merito a Barabba

Che  ne è stato di Barabba? L’ho chiesto nessuno lo sa
Liberato dalla catena è uscito sulla strada bianca
poteva girare a destra andare dritto girare a sinistra
fare un giro su se stesso cantare allegro come un gallo
Lui Imperatore delle proprie mani  e della testa
Lui Governatore del proprio respiro

Lo chiedo perché in qualche modo ho preso parte
alla faccenda
Attirato dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo
come gli altri libera Barabba Barabba
Urlavano tutti se io solo avessi taciuto
sarebbe accaduto esattamente quel che doveva accadere

E forse Barabba è tornato alla sua banda
sulle montagne uccide veloce rapina abilmente
Oppure ha aperto una bottega da vasaio
E pulisce le mani macchiate di delitto
nell’argilla della creazione
È un acquaiolo un mulattiere un usuraio
un proprietario di navi – su una delle quali  Paolo ha
navigato alla volta di
Corinto
oppure – non lo si può escludere –
è diventata una stimata spia al soldo dei romani

Osservate e ammirate il vertiginoso gioco del destino
oh possibilità potenze oh sorrisi della fortuna

E il Nazareno
è rimasto solo
senza alternativa
con il ripido
sentiero
di sangue.  
***
poesia  tratta da “L’epilogo della tempesta”- Zbigniew Herbert- traduzione di Francesca Fornari – agosto 2016 - Adelphi

La legge e la leggenda - Piero Bigongiari

giovedì 2 febbraio 2017





Leggendo Bigongiari si vive una costante epifania del pensiero, del linguaggio,  del pensiero sul linguaggio. È un poeta estremamente consapevole di cosa sia la parola, di quante contraddizioni essa si nutra e quanto debba necessariamente essere evanescente, sfuggente, enigmatica la parola che noi definiamo  poetica. Così la sua è una scrittura ermetica e vertiginosa, che si cancella nel momento in cui è offerta allo sguardo, offerta all’oblio, che ricorre nel poema con insistenza;  scrittura come atto assoluto perché etimologicamente sciolto, ab- solutus,  da tutte quelle convenzioni che sono irrigidimenti del pensiero, che, come dimostra questo bel poema, Le legge e la leggenda, vuole solo fluire, intuendo quella circolarità misteriosa che pare essere il Tempo.

Ci si immerge dunque in un linguaggio potentemente allusivo, analogico,  rimaniamo incantati dal suo disfarsi in ritmo, flusso che disarticola il significato per rivelare che l’enigma è la sostanza stessa delle parole. A volte l’uso di allitterazioni, assonanze, rime interne, può risultare persino eccessivo ma nel complesso l’operazione del poeta è quella di farci evadere,  per tutta la durata della lettura,  dalle opacità linguistiche dominanti. “Cosa sta dicendo?” è probabilmente l’espressione che taluni potrebbero usare davanti a questa poesia delle implicazioni filosofiche così evidenti. Cos’è il linguaggio, cos’è l’io, Dio, l’altro? Oppure cosa significa questo “tu” così reiterato,  che sembra chiamare tutti come testimoni di un pellegrinaggio fra le ombre di cui si consiste. Il poeta è davvero un’ombra che si aggira fra le ombre e vagando per la Terra di Nessuno ci tiene svegli con il suo monologare, ci riconnette all’origine,  ci tiene desti davanti allo stupore di una parola che racconta il nostro esilio, il nostro  essere stranieri a noi stessi.

Come un fiume che straripa  il  verso di Piero Bigongiari esce dal rassicurante alveo dei codici linguistici  che usiamo per comunicare, cioè per evitare di pensare la parola come luogo di un abisso.
 È la parola poetica pura, vive di connessioni  fra il noto e l’ignoto, sintesi apotropaica, dove il concetto è obliato -  e il male è quello di uno sguardo ovvio, che viola il segreto e l’enigma - poesia come scaturigine di silenzi sacri,  esplosione del concetto i cui frantumi vengono usati per riecheggiare l’ombra, far pulsare gli archetipi,  o per dar voce ai daimon che sono il fondamento della mente inconscia… La nota finale allarga il poema di Bigongiari a  una dimensione filosofica ancora più vasta di quella che nel poema s’intuisce faticosamente estratta fra le maglie dell’ indicibile e resa discorso in cui incontriamo l’altro, il Nessuno che noi stessi siamo e che diventò tale  per ”troppa numerazione”.

Parola di un estremo dinamismo, nomadismo,  ritmo di una voce che si rivolge proprio  all’altro, al tu di un incontro che è amore, sullo sfondo del mito greco di Ulisse, per ritrovare l’origine storica della nostra presenza nel mondo,  per recuperare l’origine filosofica del nostro vagare in quella terra di Nessuno che si apre come una rivelazione carica dei profumi mediterranei del cappero, dell’olivo; con la brezza marina che accarezza le nostre ferite.  

Siamo così trasportati nella labirintica visione di un poeta cieco, Omero, nel suo non detto,  che per paradosso ci sprofonda nella contemporaneità filosofica di allora (il testo uscì per Mondadori nel 1992 e i brani del poema sono stati scritti nell’arco di tempo che va dal 1986 al  1991), cioè delle più argute riflessioni di Deridda, Foucault, Lacan; Omero che segue i nostri passi e presiede alle nostre fughe. All’origine vi è il silenzio, di cui la parola poetica è specchio. Deformante forse, illusorio sicuramente. Bigongiari è un poeta che chiede attenzione, non può essere letto distrattamente, pena il trovarsi in mano dei frantumi che il poeta invece ha voluto legare in un ordito indistruttibile, fino a farne un poema, cioè un’unità di senso e di dissipazione del senso, luogo di una Terra promessa originaria a cui si torna, consapevoli che “si torna sempre/ dove non si è mai stati” .

È il paradosso che attraversa tutto il poema dove i confini si dissolvono, la memoria si confonde con l’oblio, la presenza di Dio, del dio ignoto dei greci,  con la sua assenza e dove felicità e dolore sono strettamente legati  e avvinti e dove sale la consapevolezza tragica che “Analfabeta è la felicità”.  Il tutto è ambiguo, ancipite, duplice, contradditorio.

 Bigongiari allude a quella zona prima del linguaggio, a quel caos di figure cui da sempre attinge il poeta, ansioso di riportare dei barlumi di un fuoco originario prelinguistico ma non prerazionale, anzi intensamente razionale quanto più si riveste, o finge di rivestirsi,  di abiti onirici. Perché è nella coscienza il simbolo non nei sogni. Bigongiari lo dice chiaramente  nell’  oscura -  e per questo tanto più rivelatoria-  nota che segue il testo del poema. Oscura come l’enigma,  da cui un’ improvvida parola ci ha scagliati fuori,  e di cui  il poeta,” fedele all’ignoto”,  desidera il ritorno. Cosa sia la leggenda è chiaro, il mito di Ulisse, ma la legge? Mistero che non si esaurisce, perché è vano cercare nel poema qualcosa che definisca, che nomini nella materia irrefutabile del linguaggio comune. Nella nota finale si fa riferimento alle tavole della  legge di Mosè e riferimenti biblici sono sparsi in tutta l’opera.  

Così è anche la logica dell’erranza, anche se l’altrove è una chimera, il nostro andare è un ritornare, all’ infanzia,  alla terra, alla Terra di Nessuno, che è la grecità, che è il nostro mondo contemporaneo  perché Bigongiari cita il luoghi del mito originario,  Schiera, per esempio,  la terra dei Feaci ma anche luoghi al lui cari, luoghi di una memoria personale,  Lucca, Livorno, in una grande commistione temporale e questo  in un testo che fa della riflessione sul Tempo  uno dei suoi centri di gravità. Nessuno così è l’eroe classico ma anche l’uomo contemporaneo. Nessuno è l’Uomo e l’universalità è raggiunta da questo grande poeta, Piero Bigongiari, coetaneo di Luzi, nato in provincia di Pisa nel 1914, e morto a Firenze nel 1997, e di cui quindi  il 7 ottobre di quest’anno ricorre il ventennale dalla morte.

“So che scrivo non sull’acqua, bensì
sul nebuloso quaderno del fato,
che sarò più di colui che è stato.”