Frida Kahlo

sabato 31 maggio 2014










Questa Frida Kahlo calata nell’acido 

infinitamente muriatico

della  Trimurti indiana!

Questa bambola di pezza stracciata
come in manicomio rinchiusa,
per lo shining degli occhi di vetro.
Bambolina regina messicana,
un idolo talvolta fracassato.

Automa San Sebastiano in cerbiatto,
per l’invasione di surrealisti anticorpi;
e il proprio volto di sfinge squadrato
dall’ideologia dell’indio marxista.
Ecco colei che beve in un sospiro la luna,
ondeggiante  andatura degli spiriti del fuoco,
alla fattura negra, alla maledizione zingara,
quasi la grazia fosse purpurea matrice
ghigno di passione fra cosce rampicanti
metempsicosi di filo d’erba in filo d’Arianna,
o ancora l’immoto vagito cerebrale della sierra.

Questi occhi di folle decisione e derisione e talento,
qui sulla terra sanguigno nutrimento
per arcobaleni anarcoidi, dopo la pioggia estiva,
o per le piante carnivore
              
delle interiorità borghesi.

Né uomo né donna non dio
pura sospensione dell’essere

la foresta
quando cala più fonda la notte.


Questa terra il Messico il deserto è donna
la donna dello sconosciuto,
voci impastate nel dipinto arcane
grasse matrone dietro porte di legno
tintinnare di perle colorate,
l’osservatrice danzando sulla tela
la ieratica lontananza delle stelle.
In virtù di questo e altro, ella sa:
il centro del cuore è il pilastro del cosmo.


                                                               6 Maggio 2005
***
Questa poesia è pubblicata ne “La Maya dei notturni “ di Eugenio Cavacciuti (alias Ettore Fobo)- Kipple Officina Libraria - 2006. La pubblico in questa sede in occasione della mostra dedicata alla pittrice messicana, che si sta tenendo  a Roma presso  le Scuderie del Quirinale.





Una frase di Guy Debord: contro il cinema e contro la società del suo tempo

martedì 27 maggio 2014







“Ho meritato l’odio universale della società del mio tempo e mi avrebbe dato fastidio avere altri meriti agli occhi di una società del genere. Ma ho notato come sia ancora una volta nel cinema che ho sollevato l’indignazione più perfetta e più unanime. Si è persino spinto il disgusto al punto di plagiarmi molto meno qui che altrove, in ogni caso fino a questo momento. La mia stessa esistenza resta, in questo ambito, un’ipotesi generalmente respinta. Mi vedo dunque posto al di sopra di tutte le leggi di genere. Eppure come diceva Swift, << non è una magra soddisfazione per me presentare un’opera al di sopra di ogni critica>>. “

Guy Debord

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Da “Guy Debord (contro) il cinema” - a cura di Enrico Ghezzi e Roberto Turigliatto – traduzioni di Paola Bonini, Susanna Bourlot, Donatello Fumarola -  Editrice il Castoro/ La Biennale di Venezia - 2001




Parole segrete

sabato 17 maggio 2014





Sete di vento a sognare
questo affiorante regno
di caducità infinite
che svapora sole
degli antichi poeti
nel sangue la stella
del mattino disciolta
Venere muta
da una pozzanghera nata
il divenuto polvere
infinito contempla
che mai luce vide, e svanì.
Archetipo d’eterna
solitudine a vegliare
i nostri atti d’inconsci
sotto l’implacabile silenzio
di statue straniera cingimi
nudità spaventosa che urgi
con il  tuo velo di parole segrete.

Febbraio 2008

***
Questa poesia è tratta da “Sotto una luna in polvere” di Ettore Fobo. Potete trovarlo in ebook su Amazon  e sulle  principali librerie on line. Altre poesie tratte dal libro  si trovano sul sito  “The NeXt Station” e cliccando sull’ etichetta Sotto una luna in polvere in questo blog.

Un mio articolo su Lankelot

venerdì 16 maggio 2014



Ho ripubblicato su Lankelot una mia  vecchia recensione di  “Carmelo Bene. Il cinema della dépense”, scritto da Paola Boioli  e pubblicato da Falsopiano.  Buona lettura.

Le assi curve - Yves Bonnefoy

sabato 10 maggio 2014







Yves Bonnefoy ne Le assi curve esplora minuziosamente una serie di paesaggi naturali, che contempla e di cui coglie la natura  simbolica. La speranza è che bellezza e verità si fondano in un unico corpo e che il risultato di questo procedimento sia una quiete magica, profondamente terrestre e non ultraterrena o metafisica. La versificazione del poeta francese, tradotto per Mondadori da Fabio Scotto, è agita all’interno da una profonda calma e da una saggia pazienza, che a un primo ingannevole sguardo possono anche essere scambiate per sterilità creativa.

La poesia di Bonnefoy funziona maggiormente nella rilettura, perché è necessario familiarizzare con la ricerca di leggerezza del poeta francese, aldilà dell’invadenza della parola, infatti, il suo occhio registra oggettivamente il dato naturale che acquista dimensioni epiche ma è un’epica in minore, appena accennata, sussurrata. La sua è proprio quella “voce che porta dell’essere nell’apparenza.”

Le assi curve è  il titolo di una sezione, e viene utilizzato, credo, con lo stesso intento di smorzare i toni e ricondurre la poesia alla sua semplicità. Allora Bonnefoy procede con “la maestà delle cose semplici” non scrivendo in questo caso una poesia immaginifica e vorticosa ma creandone una quieta, umile e insieme solenne, che pare un’investigazione dentro e oltre i limiti e gli inganni della parola. Il cuore del libro è lo straordinario poemetto Nell’inganno delle parole, dove Bonnefoy esplora con piglio filosofico proprio le menzogne del linguaggio che fanno tutt’uno con le illusioni fallaci del desiderio. Emozionante l’invocazione che il poeta rivolge alla poesia stessa:

O poesia,
Io so che ti disprezzano e ti negano,
Che ti considerano un teatro, perfino una menzogna,
Che ti gravano degli errori del linguaggio,
Che dicono infetta l’acqua che tu porti
A quelli che tuttavia desiderano bere
E delusi si allontanano, verso la morte.”

La voce di Bonnefoy non vuole essere dissimile dalla natura che racconta, vuole assomigliare al fluire del fiume, allo sbocciare di un fiore, evento in sé naturale ma per far questo è necessario vedere in faccia tutte le mistificazioni della parola. E’ così sul confine fra verità e inganno, la natura raccontata da Bonnefoy è una natura salvifica, che non inquieta, e che sembra amica dell’uomo e della sua ricerca di bellezza. Poesia dipinta pare questa, poesia in cui ammiriamo un’alba, capace di accoglierci ogni giorno e di benedirci.

In questo libro, uscito in Francia nel 2001, Bonnefoy non scruta dentro le ferite e dentro le inquietudini dell’essere umano, piuttosto raffigura per noi un affresco di pace cosmica, che sembra frutto di una riflessione che ha raggiunto la piena maturità. Quest’operazione presenta naturalmente alcune lacune: talvolta si percepisce una certa frigidità del dettato poetico, bello ma asettico, si nota la quasi totale mancanza del grido, che in poesia ha una centralità mitica (vedi Rimbaud cui Bonnefoy ha dedicato qualche anno fa un saggio), poi vi è la tendenza a far tacere le contraddizioni della Natura stessa che non è mai, mi pare, percepita come matrigna ma di cui si esprime la ieratica benevolenza.

Certo una sottile inquietudine affiora talvolta a scalfire quello che potrebbe essere un idillio, ma non è un’inquietudine viscerale, dionisiaca, tutto è filtrato da una razionalità che smorza i toni e riconduce tutto alla misura. Ecco, se si ammira la saggezza di Bonnefoy, la sua filosofica accettazione dell’oblio e della caducità, che non viene quasi mai meno, si rimane dubbiosi circa la sua ritrosia a raccontare lo smisurato del dolore umano, alla maniera di Baudelaire o di Leopardi. Più vicino per indole alla poesia misurata di un Mario Luzi, Bonnefoy è consapevole che la sua è un’operazione letteraria e come tale ingannevole. La pioggia estiva, gli alberi, il fiume, il sottobosco, il pietrisco, sono figure viventi di un linguaggio di segni che raccontano sostanzialmente la bontà della natura. Tutto questo ha per me accenni di consolatoria illusione.

La natura di Bonnefoy pare, perciò, un po’ troppo idilliaca per essere reale. Più che la realtà con le sue lacerazioni, mi sembra che Bonnefoy racconti un’idea iperuranica, anche se il poeta è molto concreto nelle sue immagini e sembra non indulgere alla metafisica. Ciò non toglie che Le assi curve sia una bella lettura, a tratti splendida, e che ci disseti alla fonte di una sapienza oracolare; diversi sono, infatti, gli apoftegmi che sintetizzano labirinti di pensiero. Bonnefoy è un poeta che pensa, questa è la sua bellezza, un poeta che contempla e preferisce la contemplazione alla frenesia. Egli sosta in un territorio fra veglia e sogno e la sua scrittura ipnagogica sa sedurci con la tranquillità olimpica di un classico, che alle contraddizioni della temporalità preferisce la quiete dell’atemporale. Forse solo un grido si alza in tutto questo libro leggero, un grido contro la provvisorietà dell’esperienza umana, un grido contro la morte, nella poesia intitolata Che questo mondo rimanga! dove sorge un’implorazione: che il mondo intero duri,  pur nella sua disarmonia.

“O terra,
Segni disarmonici, sentieri sparsi,
Ma bellezza, assoluta bellezza,
Bellezza di fiume,
Che questo mondo rimanga,
Malgrado la morte!”