Una poesia di Philip Levine

martedì 23 settembre 2014





Detroit, una fabbrica abbandonata

I cancelli incatenati, la recinzione di filo spinato è lì
come un’autorità di metallo contro la neve
e questo grigio monumento al senso comune
resiste alle stagioni. Ancora carica questa recinzione
delle paure di sciopero, di protesta, di uomini uniti
e della lenta corrosione delle loro menti.

Al di là, attraverso le finestre rotte, si vede
dove le grandi presse si sono fermate fra un colpo e l’altro
e così,  sospese nell’aria, restano prese
al margine certo dell’eternità.
Le ruote di ghisa sono ferme; si contano  i raggi
che il movimento sfuocava, i montanti che l’inerzia combatteva,

e si calcola la perdita del potere umano,
lento ed esperto, la perdita di anni,
il graduale declino della dignità.
Uomini vivevano in queste fonderie, ora dopo ora;
nulla di ciò che hanno forgiato è sopravvissuto agli ingranaggi arrugginiti
che sarebbero potuti servire a macinare il loro elogio.

Da On the Edge, 1963

***
Tratta da “Poesia” numero 295- Fondazione Poesia Onlus – Crocetti editore – traduzione Claudio Bellinzona


Gli amori incompiuti

venerdì 12 settembre 2014





Gli amori incompiuti
sono quelli che la notte  ha dissolto,
che  l’alba implora.

Maledetti o benedetti sono quel fuoco
che non ha bruciato per un sospetto
d’ombra o  per un gioco
di specchi  tradito.

Gli amori incompiuti sono nella memoria,
muta navigazione sotto stelle perenni,
indimenticabili ardori, baci stregati,
 perché mai stati.
In un soffio di sempre stanno
immutabili segni cancellati.

Imperdonabile il tempo li ha espulsi,
frammenti del possibile, occasioni mancate,
millenarie acque in cui per paura o per caso
 non si è mai nuotato,
sorrisi  perduti che mai ricevemmo,
sentieri che solo il vento ha battuto.

Tutto ciò alla ferita
del caduco- la vita!- 
tutti noi ci consacra.

Gli amori incompiuti vengono  a noi,
nella luce implacata di un ricordo,
per dirci cosa avremmo potuto essere,
e di quante distanze è popolata la notte,
in cui ricevemmo il volto amato in dono.

Ettore Fobo


***

Questa poesia è stata ispirata dalla lettura del post “Gli amori incompiuti” sul blog “La favola di Orfeo”.

Il vizio oscuro dell’Occidente/Sudditi - Massimo Fini

sabato 6 settembre 2014






Raramente mi trovo d’accordo con gli articoli che scrive Massimo Fini. Troppo spesso mi sembra che le sue siano le ostentate provocazioni di chi ormai si sente marginalizzato. Penso per esempio alla sua recente difesa del pentastellato Di Battista, duramente e giustamente criticato per le sue affermazioni sull’Isis. O ancora trovo discutibile e pericoloso quanto scritto nell’articolo: “Quei  delitti orribili nella società ‘per bene’ delle villette a schiera”:

“E l’aggressività che è una componente fondamentale e vitale dell’essere umano, compressa come una molla risalta fuori nelle forme più mostruose. Io cedo che se Lissi non fosse stato costretto dal contesto sociale a condurre una vita così perfettina, se avesse potuto dare un paio di ceffoni a una moglie che evidentemente non sopportava più senza rischiare la galera per maltrattamenti, se avesse potuto insultare il capoufficio o dare un cazzotto a un collega  senza essere immediatamente licenziato, se avesse potuto andare allo stadio senza recitare la parte del tifoso per bene ma di “Genny a carogna”, forse, sfogatosi in un altro modo, non avrebbe ucciso.”


Come dire che compiere violenze minori ci preserva da quelle maggiori. Mi sembra un delirio.

È quindi con un certo scetticismo che leggo questi due pamphlet polemici contro la modernità e contro la democrazia “Il vizio oscuro dell’Occidente” e “Sudditi”, che Marsilio pubblica nel 2012 in un’unica soluzione.  Sono entrambi un po’ datati risalendo rispettivamente al 2002 e al 2004.

La tesi di fondo è presto detta, la anticipa lo stesso Fini nella nuova introduzione:

“Il filo che unisce questi due libri […] è la pretesa totalizzante dell’Occidente (il suo ‘ vizio oscuro ’) di omologare l’intero esistente al proprio modello (economico, sociale, valoriale) il cui involucro legittimante è la democrazia.“

Lo stile di scrittura è all’insegna della scorrevolezza e della leggibilità di tipo giornalistico più che di un approfondimento filosofico o storico. Fini fa un po’ fatica a togliersi di dosso l’abito di opinionista, seppur abile, e i due libri - soprattutto il primo -  risentono a tratti  di un approccio eccessivamente semplificato. Bisogna dire, a onor del vero, che Fini  ha il coraggio intellettuale di proporre una visione che è eretica, o quantomeno eterodossa. Chi discute oggi il concetto di democrazia, totem cui si immola ogni diversità inconciliabile, ogni pensiero realmente antagonista? Ancor più difficile criticare la democrazia senza passare per un sostenitore della tirannide.

Fini scrive che la democrazia, lungi dall’essere “governo del popolo”, come vorrebbe l’etimologia, è un insieme di oligarchie, di lobby, che cercano e trovano il consenso popolare attraverso le mistificazioni della macchina propagandistica costruita dalle televisioni e dai giornali. Fin qui possiamo essere tutti d’accordo, sono realtà sotto i nostri occhi da sempre.

Sarebbe attraverso un tipo di narrazione della realtà fallace, compiuta dai media, che le guerre in Iraq, in Jugoslavia, in Afghanistan, per esempio, passano per essere “missioni di pace”, o concetti come “guerra preventiva” si fanno strada nell’opinione pubblica, quando invece queste operazioni sono il proseguimento del colonialismo, all’insegna del motto latino  ”si vis pacem,  para bellum”. La democrazia occidentale si servirebbe allora dei concetti di libertà, uguaglianza, giustizia, per legittimare la sua profonda anima totalitaria.  Le guerre giuste sarebbero allora quelle in cui l’Occidente impone il suo modello democratico, o falsamente democratico – ma per Fini le due cose a volte sembrano coincidere-  a popolazioni che hanno culture diverse refrattarie alla democrazia, culture per le quali esse sarebbe anzi un veleno. In questo discorso c’è una falla ed essa consiste nell’equiparazione superficiale di operazioni di guerra così diverse come quella in Jugoslavia, fatta per impedire un genocidio, e quelle in Iraq e Afghanistan che invece sono più propriamente guerre di conquista mascherate, guerre per cui il discorso di Fini è dunque più appropriato.

Come ormai sappiamo e Fini ribadisce, le nostre vite sono ormai regolate dal mercato, mercato “di cui la democrazia è solo l’involucro legittimante, la carta più o meno luccicante che ricopre la caramella avvelenata.”  La polemica di Fini contro la democrazia e contro la modernità, contro la globalizzazione e l’affermarsi del pensiero unico, appaiono quindi sensate, anche se non così inedite, fino a che ci muoviamo nel regno della critica pura. Quando esaminiamo le alternative che propone lo scrittore, ci muoviamo nel vuoto, a meno che non sia più di una provocazione il riferimento alla cultura Nuar che fa parte di quelle “società acefale”, “anarchie ordinate”,  che Fini definisce ”nient’affatto rare nel Continente Nero”.

Il pensiero di Fini è quindi quello di un anarchico che  sembra avere paura di pronunciare la parola anarchia, che nei due libri compare solo nell’esempio sopra riportato e in un’altra occasione.

I due testi così hanno un’efficacia polemica, mostrano i loro limiti sul piano delle soluzioni proposte, delle alternative al modello dominante.

Rimane perciò valida la caustica frase di Churchill che cita lo stesso Fini:

È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora.”

Governo dei mediocri, sistema in cui ”il popolo è bastonato su mandato del popolo” come nelle parole di Carmelo Bene, o come chiosa forse meno elegantemente Fini ”un modo per metterlo nel culo alla gente, e soprattutto alla povera gente, col suo consenso”; la democrazia, secondo Fini,  come tutti i poteri,  non ha legittimazione alcuna (al misticismo del sangue e della dinastia, proprio del feudalesimo,  si sostituisce quello del consenso e del voto)  e si è imposta con la sola forza della propaganda e ora viene addirittura esportata a cannonate. Il consenso sarebbe dunque estorto, cancellata ogni possibilità di una reale opposizione, se destra e sinistra sono, in tutto il mondo, solo due lobby che si spartiscono il potere, dando unicamente  l’illusione di un’alternanza. La passione politica è così equiparata a quella calcistica, il valore del cittadino in un sistema democratico è lo stesso che in un regime autoritario: zero. Anche il voto è solo un vuoto rituale che serve come legittimazione per i soprusi compiuti dalle oligarchie che ci dominano.

Bene, ma qual è l’alternativa?

Questa domanda non può che attraversare la mente di chi legge questi due testi, dove la critica alla democrazia non è solo una critica all’Occidente ma una critica allo stesso concetto di potere. Chi ha diritto di governare un altro o addirittura un popolo? E soprattutto, sembra chiedersi Fini, che tipo di uomo è quello che si fa governare? Forse qui lo scrittore sottovaluta la propensione umana a farsi gregge, dimentica che, come ha detto Nietzsche, anche quando si ubbidisce lo si fa per soddisfare la propria volontà di potenza.

In conclusione, sia Il vizio oscuro dell’Occidente che Sudditi paiono semplificazioni di qualcosa di troppo complesso per essere liquidato in due pamphlet, per quanto corrosivi,  la critica alla democrazia è un tema interessante ed è vero che nella nostra società è un tabù, ma andrebbe sviluppata proponendo alternative più sostanziose del semplice comunitarismo e del bioregionalismo. Se queste alternative mancano, la critica è insufficiente, e il povero cittadino risulta essere ancora più schiacciato da un senso di impotenza. Alcune delle pagine più efficaci di Sudditi sono dedicate alla dimostrazione che la democrazia non è il fine e la fine della storia, come sostengono i suoi corifei. Secondo Fini, come tutte le istituzioni umane essa un giorno finirà nella “spazzatura della Storia”.

C’è infine da considerare che è proprio perché siamo in una democrazia (pur con tutti i suoi enormi limiti) che essa può essere criticata anche duramente come fa Fini. Che poi la democrazia, per la sua natura livellante, equipari tutte le idee in una melassa di opinioni equivalenti e ugualmente inoffensive, è un altro discorso.