Una poesia di Nelo Risi

sabato 27 febbraio 2016






Uno+ uno=uno

Da solo
uno può ma non molto
da solo uno beve
e da solo uno canta
da solo uno
se crede deve pregare.
In due
si grida meglio
con zelo di larve
con gesti di gomma
su letti di bronzo
prima e dopo il saccheggio.

La somma
dei  due vuoti ci somiglia.

***
Da "Poesie scelte" - Nelo Risi - a cura di Giovanni Raboni - Mondadori - 1977

Rimbaud. Speranza e lucidità – Yves Bonnefoy

sabato 20 febbraio 2016






Nell’analizzare un  poeta come Rimbaud, il compito del critico è più che mai arduo e non si tratta solo di una questione legata all’ermeneutica dei testi. Bonnefoy lo sa bene,  in questo libro Rimbaud. Speranza e lucidità,   che raccoglie quasi mezzo secolo di studi da lui dedicati a colui che Verlaine ribattezzò  l’uomo dalle suole di vento”. Troppa mitologia, troppa leggenda, come una patina opaca e diabolica, si sono,  infatti, incrostate  sulla figura di Rimbaud.  La sua opera rischia così di rimanere muta, soffocata da considerazioni che poco hanno a che fare con la letteratura e molto con il mito, soprattutto oggi che all’autore non si chiede   di scrivere ma di diventare un personaggio, con tutto ciò che questo comporta.

Così Bonnefoy compie un gesto di pulizia e con la sua scrittura di incomparabile difficoltà e acutezza dissolve molti dei fantasmi che si frappongono fra noi e l’opera di Rimbaud, di cui individua due polarità, speranza e lucidità, che diventano il sottotitolo di questa bella e necessaria edizione italiana, tradotta  e curata per Donzelli da Fabio Scotto nel 2010 e arricchita da una postfazione di Gabriella Caramore.

 Il titolo originale “Notre besoin de Rimbaud” ribadisce la centralità che questo poeta ha avuto nella vita di Bonnefoy e più in generale nella cultura mondiale. Centralità che fa di Rimbaud per alcuni l’iniziatore,  il capostipite della poesia moderna. Chi scrive condivide questo assunto e trova nelle parole di Bonnefoy la forza critica necessaria più che mai a ridare linfa a un’idea della letteratura come campo di battaglia di forze contrastanti: la guerra che Rimbaud condusse contro i millenari stereotipi culturali e linguistici, contro le banalità che anestetizzano il pensiero, fu terribile e senza sconti. Che per un’operazione del genere si rischi la follia è indubbio ma la  posta in gioco era per Rimbaud altissima, “salvarsi l’anima”, non cristianamente,  perché Cristo è solo un “ladro di energie “ ma nella ricerca di un’episteme tragica che vuole diventare azione, ripensamento supremo dell’essere e della vita.

Bonnefoy riconosce che Rimbaud si è giocato tutto se stesso nella ricerca di una parola che ci restituisse integro il senso del reale, e ci conferma riga dopo riga di questo saggio quanto sia spossante il tirocinio che un poeta deve compiere per diventare tale, quali tensioni debba affrontare, quante contraddizioni respirare. Rimbaud compì un lavoro su se stesso spossante  alla ricerca di una chiave che ci permettesse di accedere ai festini antichi, in cui l’essere fosse restituito a se stesso  e l’unità del reale ristabilita.  

La carità è questa chiave “ scriverà Rimbaud, salvo aggiungere ”Questa ispirazione prova che ho sognato.” E qui la speranza  di una fratellanza primigenia, espressa dal termine carità, s’infrange contro lo scoglio di una lucidità insonne, spasmodica, realmente moderna nel riconoscere, vedremo quanto per ragioni intime e biografiche, i “deserti d’amore “. In Rimbaud, adolescente e pagano, tutto assume i connotati di un parossismo: l’anima sconvolta desidera il Natale  perenne sulla terra, s’apparenta agli umili, agli ultimi, ai dannati.  Rimbaud  stesso si definisce  di “razza inferiore dal profondo dell’eternità.” Questa voce sembra dunque sorgere dagli abissi dell’odio di sé.

Bonnefoy riconosce  inevitabilmente l’importanza di alcuni dati biografici: alla base del conflitto col reale e con se stesso  ci sarebbe la personalità della madre, Vitalie Cuif,  fredda, arcigna, devota a un culto del “dover essere” borghese, madre che dilagò nell’assenza di un padre, (che abbandonò Vitalie  quando Arthur Rimbaud aveva 5-6 anni); donna scostante, forse anaffettiva, attratta patologicamente dalla morte, tanto che, racconta Bonnefoy, si fece calare nella tomba di famiglia fra i due figli morti (fra cui Arthur), inscenando la propria sepoltura.

Bonnefoy insiste su Vitalie, perché considera la figura materna l’artefice involontaria di una vocazione  alla  poesia che può anche spaventare nella  radicalità con cui Arthur Rimbaud la espresse. La madre è quella creatura arida,  sottomessa alla legge dell’apparire, che privò Rimbaud dell’amore necessario a esistere e lo condannò  a una vana e disperata ricerca di quello stesso amore. Di questa privazione  originaria e insanabile l’opera di Rimbaud  è  drammatica testimonianza. Ma per Bonnefoy le cose non stanno solo così, sono più sottili ancora: la madre è colei che custodisce l’essere stesso della sua vocazione poetica, della vocazione poetica di chiunque. Centralità della madre nel generare la parola. Indubbiamente però Vitalie Cuif fu la “parente abusiva che compare nelle biografie di tutti i pensatori maledetti” come scrisse Deleuze nel suo saggio su Nietzsche, cito a memoria,  ma  quanto più incisiva per questo motivo  fu allora sulla psiche del figlio.

Questa ferita originaria del disamore si riprodusse in tutta l’opera di Rimbaud, stigmate di un’impossibilita di accedere alla “vera vita”, che per lui diverrà un alchimistico costrutto di versi fra i più mirabili della sua epoca. Dopo la parentesi londinese  con Verlaine,  feconda ma anche deludente, seguirà  il duro servaggio del lavoro di mercante nei suoi anni in Africa  a sancire un’ulteriore rottura, quella  con la scrittura, l’abbandono della poesia alla spazzatura delle cose dimenticate. Questa,  però,  è una resa, resa a quella chiaroveggenza arida, forse mutuata dalla madre chissà,  che gli farà rompere con i lucidi incantesimi di cui aveva costellato la sua adolescenza geniale.

Fra speranza e lucidità, cioè  fra il desiderio di essere amato  e la vanità di questo sforzo,  oscilla la psiche di questo poeta così definitivo e radicale, più che mai vivo  e operante, in questo magnifico saggio di  Yves Bonnefoy.

Si tratta di rovesciare forme codificate, valori consumati ma spesso vissuti come onnipotenti, distillando un linguaggio che dica la vertigine di una lucidità che, se accede alla visione, lo fa per ampliare lo spettro delle nostre possibilità razionali. Nella poesia Rimbaud si getta a riconsiderare Il senso del reale, sogna di  modificare la vita, l’amore, la percezione, la propria soggettività già vicina a dissolversi nell’anonimato della città moderna, di cui proprio Rimbaud  fu uno degli interpreti più lucidi e spietati. Ancora oggi noi non possiamo pensare alla città moderna e industriale,  senza la sua mediazione.  Ma Bonnefoy non dimentica che Rimbaud è vissuto a Charleville, cittadina di una provincia anonima, grigia e scialba,  dove una certa ottusità borghese soffocava gli aneliti della sua  anima di giovane ribelle, insofferente anche verso le chiusure materne. Provincia avvelenata  in  cui il suo oceanico desiderio di una palingenesi rivoluzionaria della società era sprecato, vanificato. Serrato così fra la  rigidità materna e il provincialismo  piccolo borghese,  l’anima di Rimbaud era ulcerata da contraddizioni insanabili, che nell’opera acquistano risonanze imprevedibili.

L’odio di sé, come già accennato,  è uno dei frutti di questo percorso fra i frantumi del  reale,  un dato certamente decisivo, e affiora in più punti trasformandosi facilmente in  aggressione verbale verso un mondo disistimato, freddo e incomprensibile: inferno cittadino attraversato dai fremiti di un’anima che, se stringe la “rugosa realtà”, si trova fra le mani proprio il proverbiale pugno di mosche, covando perciò la rabbia di chi si considera escluso. Rimbaud si sente un pagano, un barbaro, un bruto, cui le dolcezze d’amore sono negate. Egli cerca comunione con gli altri ma non la trova. Questa esclusione, questo sradicamento ci rende ancora oggi  vicino un poeta dell’Ottocento, la cui opera è una ferita ancora viva  e pulsante nel tessuto della letteratura.

È la provocatoria modernità di Rimbaud che già Henry Miller aveva individuato come ragione della sua forza e della sua attualità di icona dello smarrimento. Camus vide in lui la perfetta immagine dell’uomo in rivolta, colui che ha fornito a essa il linguaggio più esatto. Bonnefoy dal canto suo, come già visto,  insiste molto sulla lotta che si radicalizzò nel suo spirito, fra speranza, di riconquistare l’Eden, di ricomporre la frattura con il reale da cui è escluso, e la lucidità di chi sa vano ogni sforzo, e impreca. La speranza è un fuoco che però non si spegne, speranza di riconquistare l’amore, di reinventarlo, di rientrare nell’esistenza che lo espelle. Baudelaire è la sua guida ideale, “un vero dio” e se egli non loda la forma delle poesie del maestro, è perché è condannato a un gesto di reinvenzione costante e profonda di  quelle stesse forme. Fine della poesia soggettiva, per una nuova  vertiginosa  oggettività .

Rimbaud e la sua opera si fondono. Strana fatalità: “ Da questo libro dipende il mio destino” dirà di Una stagione in inferno. Anche per questo egli rimane un faro di consapevolezza nel buio della nostra epoca, avara di destino, e pressoché priva di questa passione per la parola che,  se rasenta la follia, è scintilla del genio che dona al mondo tutto se stesso, sapendo di porre al mondo inquietanti interrogativi.

Rimbaud ha sperimentato,  nella carne e nello spirito, l’esattezza di questa frase di Bonnefoy, perfetta per suggellarne l’avventura:” La contraddizione è la fatalità del reale.”

L’inevitabile scacco di Rimbaud, il suo fallimento, il suo infrangersi contro lo scoglio di una impossibilità, sono anche i nostri. Egli nelle parole di Bonnefoy ci impone un “confronto tragico con l’assoluto” per vincere la condizione di esiliati dall’Eden, per tornare alla condizione primitiva di figli del sole. E lo fa in nome della libertà, le cui ali sono però “ speranze bruciate”  poiché “La vera vita è assente”. Così il messaggio di Rimbaud continua a interrogarci. Quanto a Bonnefoy, provvidenziale questo incontro, ammiriamo la stupenda -  e  stupendamente vera - conclusione di uno dei saggi che compongono il libro:

“Decidiamo semmai che Una stagione in inferno è una di quelle bottiglie in mare che finiscono per trovare un lido. Facciamo in modo di pensare così l’atto di fede che dobbiamo a chi ha saputo, egli in primo luogo,  compierne uno, rivelando che la poesia è innanzitutto questo, o meglio non è nient’altro. “

Praticare la notte – Ksenja Laginja

sabato 13 febbraio 2016





In poesia decisivo è il silenzio. Decisivo per il poeta, perché il silenzio è laddove germina la parola poetica; decisivo per il lettore che, per rendere possibile l’ascolto, deve fare silenzio e vuoto dentro di sé.

Così in questa raccolta di Ksenja Laginja, Praticare la notte, edita nel novembre 2015 da Giuliano Ladolfi Editore e introdotta da Gianni Priano, si esplora -  con una scrittura di grande duttilità e morbidezza, fatta di versi rapidi e rapiti -  una dimensione in cui il silenzio è raccontato come una sfida alle possibilità delle parole, loro limite,  ma anche loro vertigine d’impensabile,  loro fondamento, loro origine, loro abisso.

Infatti, giacché “di silenzi non si muore/ ci si riempie”, questa emozionante conclusione di una delle poesie della raccolta c’induce a pensare il silenzio non come vuoto, di parole, di senso, di orizzonte comunicativo, ma come luogo originario in cui la parola stessa è resa possibile, il luogo in cui la parola può nascere e svilupparsi. Silenzio non solo come mancanza, dunque, ma come nutrimento da cui la parola prende la forza per esistere, humus in cui germoglia e infine sboccia nel canto. 

Questa parola è fondata anche sulla tenebra, spazio questo di un’intimità con il mistero, capace come il silenzio di definire il nostro essere: “dove il silenzio ci definisce/ e con esso, il buio.” “

“Praticare la notte” è dunque un “atto di fede”, modellare la buia sostanza di cui siamo fatti nel profondo, dove quasi non giunge la luce della coscienza, essere in intimità con la nostra ombra, privilegiare ciò che è fragile e buio, lo yin, il femminile, il lunare, ma anche il terrestre.

Buio e silenzio sono dunque le polarità che già a un primo ascolto colpiscono in queste poesie di Ksenja Laginja; l’aspirazione della poetessa genovese è dunque per una parola appena sussurrata, che ama la penombra, in cui le cose sono appena accennate, parola che tende a una rarefazione estrema, all’essenzialità, alla misura e a un certo pudore, “perché la bellezza va presa con discrezione”.

Non parola onirica,   sebbene parola notturna,  non parola gridata ma parola lucida, meditata:   il poeta è testimone della forza che “silenzia/ ogni cosa: anche la poesia” e la parola può raccontare di distanze, separazioni, solitudini, alludendo costantemente al gorgo che inarrestabilmente la attrae e in cui sempre  ricade: il silenzio, ancora una volta,  che diventa,  in questo libro profondamente notturno,  un nume tutelare che sembra vegliare sulla stessa assurdità del mondo. È un silenzio caldo, materno, che ci custodisce, ci protegge dall’ insidia stessa delle parole,  giacché esse possono colpirci “senza preavviso” come ”imbizzarrite annerite dalla guerra/ indurite dal tempo”.

Un’altra divinità è il vento. Che ci chiama per nome, ci conosce, è il lontanissimo che ci accarezza e sempre ritorna, l’unico che, nella poesia che chiude la raccolta, potrebbe “porre tregua /infine/ a quest’assenza.”

E abbiamo allora un altro termine chiave per comprendere questa poesia: assenza.
Indubbiamente il silenzio è anche assenza di parola, il buio mancanza di luce, ma s’intuisce qualcosa di diverso.

È la fine di un amore che viene raccontata in alcune delle  poesie più belle di questa notevole raccolta, il dato biografico,  però,  è solo il punto di partenza per un’indagine nella solitudine essenziale dell’essere  umano.

 Solo l’incontro con l’altro,  o il suo sogno, però, permette alla poetessa di comprendere se stessa; quando l’atto di “nutrire l’abisso di te fino a sentirmi” è la magia che nell’amore compie chi sa donare e donarsi. Atto  necessario,  dunque,   per acquistare consapevolezza di sé. Altrove leggiamo della “cicatrice che unisce le solitudini”, a sottolineare, con acutezza di diagnosi,  come il legame fra gli esseri stia nelle loro ferite comuni.

Si nota una grande concentrazione di temi in questo libro, pur breve, una ricchezza espressiva non disgiunta dalla sobrietà, una delicatezza di tono, la delicatezza di chi sa che un poeta riesce appena con la sua opera a scalfire il silenzio, immergendosi nel buio sintattico del linguaggio, palombaro, per osservare i suoi fondali e rimanerne affascinato. Il suo canto cerca di descrivere questa fascinazione. Si tratta, come ha intuito Ksenja Laginja, dell’apparizione del silenzio come evento sacro.

Praticare la notte è un’opera elegante, essenziale, arricchita anche dalle citazioni: William Shakespeare, Paul Valéry, Rainer Maria Rilke, Dylan Thomas, fra gli altri, a intessere un dialogo attraverso i secoli, che si situa nel cuore stesso di quella cosa che chiamiamo letteratura.

Citazioni stupende: fra tutte scelgo quella posta in epigrafe, tratta dall’Enrico V di Shakespeare:  Quando la tua anima è pronta, lo sono anche le cose”.

In filigrana leggiamo quasi una narrazione, è la “storia di un’anima”, come la definisce nella postfazione Giulio Greco, ma anche un dialogo intertestuale fra parole, fra concetti, che attraversano tutto il testo conferendogli una circolarità da eterno ritorno.

Buio, silenzio, solitudine, assenza, guerra (soprattutto con se stessi, mi pare), ma anche attesa, assedio e infine l’ostinata ricerca di una tregua, ecco quelle che mi sembrano le stelle fisse di questa raffinata costellazione poetica.




Nel caffè della gioventù perduta – Patrick Modiano

sabato 6 febbraio 2016









  “Nel caffè della gioventù perduta” è un’espressione di Guy Debord, citata  anche nell’epigrafe di questo strano,  e  alla fine deludente,  romanzo di Patrick Modiano, edito in Francia nel 2007, prima che l’autore vincesse nel 2014 il premio Nobel per la letteratura. Lo leggo nell’edizione Einaudi uscita nel 2010  per la traduzione di  Irene Babboni.

Romanzo  che pare un po’ confuso,  in cui le  quattro voci narranti si mescolano in un alternarsi di piani e di flashback; tutto ruota intorno  a  una ragazza enigmatica, soprannominata Louki, e al locale che lei frequenta, Le Condé. Romanzo parigino ricco di luoghi,  di volti, di nomi, in cui è la labilità, la fragilità della memoria  a  regnare su personaggi trascinati dalla corrente dell’oblio.

Louki  ricorda la Nadja raccontata da Breton, è una ragazza sfuggente, che catalizza l’attenzione altrui senza accorgersene, e senza accorgersene diventa centro di un intreccio narrativo che,  però,  pare faticoso da seguire e un po’ debole. Il moltiplicarsi dei punti di vista disorienta, in un romanzo breve di neanche 120 pagine, e la scrittura, pur cercando fluidità, pare evanescente, impalpabile, sonnolenta, in definitiva poco ispirata.
  
Nel caffè della gioventù perduta vuole essere un romanzo d’atmosfera ma fallisce nel suo intento e scivola via più o meno nell’indifferenza. Qualche frase qua e là rende più sostanziosa l’esperienza di lettura; la Parigi di Modiano è una città spettrale, lunare, che sembra ingoiare come un buco nero i personaggi che l’attraversano. La trama,  però,  è inconsistente, sembra girare a vuoto,  tutto pare avvolto in un particolare sopore ipnotico, tutto vortica in maniera un po’ inspiegabile intorno a un personaggio, Louki,  il cui ostentato mistero è un po’ fantomatico, costruito, artefatto.

Anche nella struttura, il romanzo mostra delle visibili crepe, troppi personaggi appena accennati, troppi luoghi intravisti e subito dimenticati. Così l’insieme dà l’idea di un oblio onnipossente che cancella la memoria delle persone, dei fatti, delle strade, dando la sensazione che questa vicenda sia solo un sogno.

Si ha l'impressione che Modiano  ceda troppo facilmente alle lusinghe di una scrittura delicata sì ma un po’ vuota e insipida e che il girovagare senza scopo dei suoi personaggi sia la cifra di una futilità troppo esibita.

Del romanzo rimane così la sensazione di qualcosa di non compiuto, di un ‘opera il cui mistero è artificiale, la cui profondità è solo illusoria.

L’aspetto più interessante del romanzo, come anche in Nadja di Breton, è la ricostruzione di questa Parigi labirintica in cui è più facile smarrirsi che trovarsi, una Parigi in cui si gira in tondo senza venire a capo di nulla, in cui basta cambiare quartiere per svanire. È la trasformazione della città contemporanea, ormai divenuta, come nelle considerazioni di Debord stesso, da luogo di incontro luogo di desolazione,  solitudine e isolamento. La scrittura stessa insegue questo smarrirsi e intersecarsi di luoghi tutti ugualmente dimenticabili. Ciò che trasmette Modiano è l’afasia emotiva dell’uomo moderno, l’impossibilità di stabilirsi in una realtà solida, l’evanescenza della memoria diventa così fisica  e la città ne è il fedele specchio. Ma anche il malessere è vacuo, senza sostanza, non ci  sono punti fermi nemmeno nel dolore,  nulla cui aggrapparsi. Uno dei personaggi riflette sul concetto di “zone neutre”, zone di passaggio senza nulla di particolare, così la stessa Parigi finisce per assomigliare a un luogo di transito casuale di esistenze a loro volta dominate dal caso.

Tutto si ripete in un eterno ritorno dell’uguale che ha la monotonia di un’ossessione, tutto si consuma e precipita nell’oblio. Questi personaggi sono banderuole mosse dal vento di un onnipervasivo disagio che Modiano,  però, fatica a definire.  Ecco,  lo scrittore francese si  è come intrappolato in una vicenda in fondo caotica,  dai toni troppo vaghi, dalle atmosfere troppo sognanti,   dalla malinconia un po’ vischiosa.

Il romanzo è dunque incerto, il cupio dissolvi che attraversa questi personaggi e questi luoghi non è sufficiente a garantirgli  la solidità tragica della grande letteratura. E dire che questo libro aveva buone chance  di piacermi: un titolo splendido, che però è di Debord, la dimensione del bar, sognante, pigra e gattesca, la protagonista un po’ folle, che è davvero “lanima errante” di Breton,  appunto. E invece… Dopo questo romanzo, francamente, il desiderio di approfondire Modiano viene un po’ meno.