Quitaly – Quit the Doner

sabato 30 agosto 2014





Pubblicato da Indiana Editore, Quitaly è uno spaccato dell’Italia contemporanea scritto dal misterioso blogger e giornalista Quit the Doner in maniera arguta, vivace, brillante. Si tratta di dodici reportage (più un racconto e un’impietosa analisi politica del Movimento 5 Stelle) ambientati in altrettanti luoghi del paese che in virtù di una scrittura lucida e insieme dissacrante diventano emblematici. Così Quitaly si configura come un viaggio nella nostra penisola ormai collassata culturalmente su se stessa, dove uomini e donne sempre più uguali e conformisti cercano la felicità aggrappandosi alle illusioni della fama, del successo, della vacua apparenza, amplificata fino al delirio narcisistico di un’autorappresentazione compulsiva, mediata dai vari Facebook, Twitter, Instagram …

“Visibilità” è la parola magica del nostro tempo in cui tutti, bene o male, sprofondiamo nell’invisibile anonimato della città contemporanea. “Visibilità” è la parola magica che fa accettare lavori sottopagati o addirittura stage gratuiti nell’allucinata e allucinante convinzione che servire un brand sia di per sé un premio sufficiente.

Quitaly è dunque un bestiario contemporaneo di tipi umani, dove i ventenni di Baia verde, la discoteca di Gallipoli, dove si celebra il rito di un’omologazione ormai senza fondo, convivono accanto alle attempate signore pesantemente truccate di una convention berlusconiana, dove si celebra la fine di un impero che ha marchiato a fondo il paese per vent’anni; o ancora ecco i fashion designer del Salone del mobile milanese, troppo occupati ad appagare il loro ego per accorgersi dello sfacelo culturale in cui sono immersi; sfacelo culturale di cui si approfitta un “anziano milionario”, nonché ex comico, inventando un movimento politico che propone una cura che è peggiore del male.  Il Movimento 5 Stelle è definito “tecnicamente fascista”, perciò in esergo all’articolo viene riportata  una frase di Gramsci, davvero emblematica e inquietante, se si pensa al parallelismo,   che viene implicitamente evocato - e nel corso dell’articolo minuziosamente analizzato -   fra queste due realtà:

Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e amministrato.”

La voce di Quit the Doner denuncia così con leggerezza pop ma implacabilmente la crisi in cui versa l’intero Occidente, ormai consumato dai propri miti, nella consapevolezza che “chi controlla la parola controlla il mondo”.

Bisogna saper decostruire i linguaggi della contemporaneità, come fa Quit the Doner, sorta di carnefice delle psicosi collettive, che si esprimono soprattutto nella sudditanza ai luoghi comuni dell’epoca in cui viviamo. Il blogger prova ad aprirci gli occhi ormai assuefatti a tutto, ci invita a vedere il mondo moderno nella sua nuda pazzia e nelle sue numerose mistificazioni: dagli alpini ubriaconi che i media trasformano in devoti papa boys, ai giovani dello Joe Strummer festival, dai gusti musicali appiattiti sulle offerte maistream di più di dieci anni prima, dai paranoici complottisti di un raduno sulle scie chimiche, fino ad arrivare ai ricchi manager di Herbalife, la multinazionale che vende i suoi prodotti dietetici ma soprattutto il miraggio  di guadagnare senza lavorare. Miraggio che nasconde le nuove regole dello sfruttamento capitalistico: sii uno schiavo felice. 

Come aveva previsto Adorno il “Bisogna immaginare Sisifo felice” di Camus diventa così un’involontaria, agghiacciante, giustificazione profetica del capitalismo contemporaneo, dove gli steward e le hostess di Italo, per esempio, sono praticamente costretti,  per contratto,  a esibire entusiasmo e felicità, e lo stesso divertimento, diventato industria, è ormai un lavoro in cui si sentono gli echi dello sfruttamento globalizzato.

La scrittura di Quit the Doner è insieme complessa e avvincente, per cui il libro si legge con piacere. Le verità che il blogger veicola però sono amare, in fondo terribili, siamo alle ultime scie prima del crepuscolo e cercano di venderci pure quelle. La nostra epoca,  perciò,  pare sempre più una prigione in cui i nostri carcerieri favoleggiano circa ”lavori creativi” che garantiscono una poco creativa schiavitù. Steve Jobs, l’eroe di questa nuova follia capitalistica, è una delle icone che Quit the Doner prova a demolire.

Fatta salva l’onnipotenza dei media e del luogo comune, spirito santo del nostro tempo, Quit the Doner riesce nel suo intento perché il sistema di scrittura che crea è coerente e funziona come un grimaldello per scardinare la falsa cassaforte dell’ideologia contemporanea che ci chiede tutto  e non ci dà nulla.

Quello che troviamo dentro la cassaforte è proprio il nulla ma quanta fatica, quanta ideologia decostruita, abilità linguistica, per arrivare a vederlo! Qui i piani della narrazione si mescolano, il reportage giornalistico convive con la satira sferzante, l’amara critica sociale con un umorismo davvero irriverente, la riflessione filosofica o politica con la leggerezza di una prosa pop. Così in questo libro non c’è posa artefatta ma qualcosa di sempre più raro in questo mondo omologato: uno stile.

Quitaly è un esordio notevole, libro frizzante, amaro, profondo, che racconta l’Italia in un modo moderno, combattendo gli stereotipi linguistici, il linguaggio sclerotizzato e vecchio di troppa stampa nostrana, che nasconde la dura realtà della sopraffazione, edulcorando spesso il fascismo latente o manifesto dell’establishment.

Il libro della sovversione non sospetta – Edmond Jabès

sabato 23 agosto 2014







Che cosa è la scrittura? Questa è una delle numerose domande che attraversano questo testo mirabilmente enigmatico del poeta,  naturalizzato francese ma nato in Egitto,  Edmond Jabès, Il libro della sovversione non sospetta, che leggo nella traduzione di Antonio Prete, edita da ES. La domanda, l’interrogazione, sembrano essere i fondamenti di quest’attività che i più considerano futile. Non c’è riposta però, o meglio “la risposta uccide”, così le possibili risposte in realtà si moltiplicano vertiginosamente.  L’uomo è colui che per sua natura interroga,  Dio, la soglia, il nulla, la pagina … E l’uomo che scrive è colui che sempre desidera oltrepassarsi, dove l’oltre coincide però con l’origine, con Dio, o meglio con la sua assenza. L’uomo che scrive più di tutti sperimenta l’esilio, e trova nel niente “il luogo eterno” del suo esilio. Non c’è risposta, dicevamo, perché Dio stesso è una domanda, l’assenza ci domina, “ci corrode”: assenza dell’immagine, assenza di parola, il silenzio. Silenzio è proprio il nome che possiamo dare al nostro essere domanda che non può trovare risposta. Il libro, ogni libro, proviene da un  silenzio anteriore alla parola, anteriore anche a Dio, che è  colui che si cancella e l’uomo stesso è fatto a immagine e somiglianza di questa cancellazione. Fondamento dell’essere umano, spiega Jabès, un’insufficienza ontologica: “Queste pagine testimoniano l’impossibilità di venire a capo non soltanto del proprio pensiero, ma di se stessi. Dicono il nostro disorientamento di fronte all’impotenza ad essere che ci costituisce.”

In questo libro sibillino ogni riga è maschera, maschera di una domanda che non può essere pronunciata, allusione continua, gioco contraddittorio, liberazione di energie nascoste nel linguaggio. La sua potenza è proprio forzare la parola per accedere metaforicamente all’essere, che in quanto tale è impensato, voragine senza nome cui ogni nome allude.

Dietro ogni libro, il Libro. Perché se il nome di Dio è impronunciabile, come vuole la tradizione ebraica, Jabès era ebreo, esso è il silenzio cui ogni scritto tende, vertigine della sua stessa cancellazione, niente originario in cui l’uomo e Dio s’inabissano. Tutto è paradosso, ogni parola nasconde se stessa nella luce, si rivela nell’ombra. Scrivere non è un atto narcisistico perché la pagina non è uno specchio ma il luogo dove ci tocca “affrontare un volto sconosciuto”.

Così ogni parola di questo testo chiede di essere decifrata anche se è implicito che ogni tentativo di decifrazione è destinato al fallimento, perché l’essenza stessa della scrittura è l’enigma. Nella parola sovversione Jabès trova un’accettabile approssimazione che gli permette, come in sogno, di intuire cosa nasconda questo enigma. Già nello straordinario incipit si afferma: “La sovversione è il movimento stesso della scrittura: il movimento della morte.”Come non sentire echi di Bataille? La sovversione come evento connaturato naturalmente all’atto della scrittura, trasgressione di un limite che porta in sé la morte come rischio. La scrittura è un’attività sovversiva anche perché ”Il dire è sempre una sfida all’indicibile e il pensiero denuncia l’impensato.

Ogni affermazione nasconde una domanda, cuore pulsante di ogni frase, in questo testo l’interrogazione si configura come unica realtà. L’umano pulsa di una domanda che rivolge a Dio, sua alterità e viene il sospetto che lo stesso Dio arda di una domanda posta all’uomo. Porre l’interrogazione al centro della scrittura e dell’attività umana è un gesto di grande umiltà, di grande saggezza, di grande maturità.

Il cuore del libro, di ogni libro, il suo ”orizzonte interiore” è l’impensato, luce di cui ogni scritto è l’ombra, ogni libro così è il doppio di un libro sacro anteriore, da sempre,  per sempre perduto. E’ l’impronta che Dio ha lasciato scomparendo. Perché Il libro della sovversione non sospetta è anche un’acuta indagine teologica sul mistero di una divinità assente. Molto moderno, molto novecentesco, il pensiero cui si allude è quello della teologia negativa: Dio non esiste dunque è, perché l’esistenza sarebbe per lui un limite, assoggettandolo al tempo. Il Libro è perduto, riempito dal silenzio stellare, voce della divinità nascosta e assente. Perché il Dio degli ebrei, almeno quello della tradizione cabalistica cui Jabès sembra fare riferimento, non ha immagine, non ha voce, è parola prima di ogni parola, silenzio prima di ogni dire per cui ogni dire subisce la sconfitta nel tentativo di colmare questo silenzio inscalfibile,immodificabile, pietrificato.

Questo Dio è un dio del deserto, del niente, dell’assenza. Non bisogna dimenticare leggendo Il libro della sovversione non sospetta che ogni atto critico rischia lo smacco, leggerlo, infatti, significa entrare in un labirinto in cui ogni passo è un rischio, labirinto dove incontriamo il dolore dell’assenza, il nulla e ci imbattiamo in un volto sconosciuto. Libro che ci mostra come la poesia contemporanea debba rendersi astratta per restituirci i ritmi fondamentali dell’universo linguistico, che è il nostro principale orizzonte nonché la più pericolosa delle trappole.
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Una bella analisi di questo libro potete trovarla nel blog Il lettore comune.

Delusioni non in rima

sabato 16 agosto 2014




Che io ricordi, ho sempre scritto. Con questo voglio dire che non ho mai sognato di scrivere, non ho mai aspirato a essere un poeta, mi ci sono ritrovato, mio malgrado. Da bambino pensavo che i poeti fossero tutti dei vecchi. Ora so che non mi sbagliavo. Poeti ventenni? In Italia? Non pervenuti. Dylan Thomas a quell’età godeva, nell’Inghilterra degli anni Trenta, di una certa fama. L’Italia, si sa, è un paese per vecchi, in tutti i campi. Per vecchi corrotti, mi va di aggiungere ora. Qualcuno ovviamente si salva, penso, per esempio, a Guido Ceronetti, dal quale come un profumo di cose pulite si spande. Ma Guido Ceronetti è troppo intimamente libero per essere glorificato come meriterebbe. In compenso scopro che è tenuto in considerazione e vince diversi premi di poesia Licio Gelli. Così va l’Italia. Così va il mondo. Scrivo queste poche righe e confesso la mia delusione, ancestrale, atavica, fondante.  Non si può aspirare a essere poeti.  Essere poeti è una disgrazia. Aspirante poeta è uno di quegli invisibili paradossi che non capirò mai. Così come “poeta dilettante”, che leggo in questi giorni in un articolo di una delle facce e delle penne più note di questa squallida penisola, è un’espressione rivoltante. Poeta dilettante… Perché ne esistono forse di professionisti? Esiste la professione “poeta”? Forse sì, ma che tristezza, chissà quanta merda bisogna ingoiare per essere un poeta professionista! Mi viene in mente Montale e i suoi “poeti laureati”. Ma egli era un ipocrita, si sa,  sarebbe passato duecento volte sul cadavere di sua madre, per essere acclamato poeta, cosa che poi è accaduta.  Baudelaire, che era più innocente e in quanto tale non fu mai acclamato in vita, racconta che un giorno perse la sua aureola di poeta nel fango e là, dopo una riflessione,  la fece marcire, non la raccolse. Che farsene di quest’aureola? Aveva ragione Gozzano, non mi stancherò mai di ripeterlo: ”Io mi vergogno/ sì, mi vergogno d’essere poeta.” Detto questo, devo chiarire: non sono un poeta maledetto, inutile ridondanza, ma un poeta che maledice.