Serata di poesia

giovedì 30 gennaio 2014




Lunedì 3 febbraio, dalle 21.00 alle 23.30, parteciperò alla serata collettiva  di poesia  organizzata dall’Associazione La Conta presso il CAM Ponte delle Gabelle di Via San Marco 45 a Milano.  Leggerò alcune poesie tratte da “Sotto una luna in polvere” più qualche inedito. Vi aspetto.

Un mio articolo su Brian Eno

lunedì 20 gennaio 2014



E’ uscito sul blog della NeoRepubblica Kaotica di Torriglia un mio articolo sull’album "Music for Airports" di Brian Eno. Buona lettura.

Granovisioni – Elena Giacomelli

sabato 18 gennaio 2014







Mi sembra che con questo testo, Granovisioni, Elena Giacomelli sperimenti una dicotomia fondamentale che lacera l’animo del poeta: da una parte la pulsione a voler dire tutto, dall’altra l’angoscia di non lasciare tracce. E’ un turbine. Così Elena Giacomelli crea un linguaggio sospeso, irrequieto, elusivo, enigmatico, per rivelare e nascondere la natura essenzialmente metafisica del suo sguardo. Metafisica qui è intesa come opera di galleggiamento, di sospensione, rottura di significati che finiscono per colare come un liquore stregato.

 Il tentativo è far presa sulla realtà, fotografare attimi dispersi nel fluire del tempo, come nella splendida poesia Undici storie dove ogni oggetto, ogni personaggio, ogni animale protagonista, con la sua sola presenza accennata, suggerisce una storia, ma non la esaurisce didascalicamente: è l’abbozzo di una linea che, inevitabilmente, tende all’infinito. Così gli ultimi versi prolungano lo sguardo ben oltre l’hic et nunc: “la storia del calzolaio che seguiva le scarpe/ delle donne nelle strade buie.” E’ un seguire l’imponderabile, l’immisurabile, che fa la potenza di queste poesie, con il loro, in fondo visionario, mormorio sospeso fra sogno e realtà, fra poesia e la sua assenza, fra “prosaiche mire” e gli inganni del tempo.

Troviamo nel testo domande che da sole evocano mondi: “soltanto attraverso i poeti posso scolpirmi/ nuove facce?” dove fatalmente “ogni coscienza è una molecola dispersa” e dove l’io poetante  si riconosce a fatica solo nell’immagine di un “disco rotto”.  Così tutto è un calcolare distanze, fra la propria pelle e quella altrui, perché anche l’intimità o la lontananza si possono misurare, fra l’esistenza del singolo e quella collettiva, fra il desiderio e il possibile.  Si prende atto della separazione che intercorre fra la creazione poetica e il “brodo oscuro del pensiero acritico. “.

E’ una poesia molto materica, materica fino a una strana evanescenza, come se il microscopio dei versi ci restituisse una realtà troppo nuda per essere vista, troppo scorticata per essere sanata. Troppa luce acceca, troppa invisibilità è in realtà un’epifania. Ciò che si agita dentro i versi costringe al silenzio, perché ”Qualcosa si appropria delle mie/  parole e le spappola”. Così il linguaggio fragile della poesia è assediato da ombre, fantasmi, ricordi, visioni irrisolte, frammenti del caso e del caos. Ed è proprio il caso che sembra muovere noi, pedine umane, verso l’impossibilità di portare “a termine alcunché”.
 
 La poesia di Elena Giacomelli si situa in un’impasse, in una ferita ontologica. Che cosa abbia causato la ferita è un urto, con il reale, o meglio con la sua tragica assenza. Così sembra che queste poesie si situino in quello che Guy Debord chiamava ”il cuore dell’irrealismo contemporaneo”. Non c’è una vera e propria deriva onirica (illusoria e perciò salvifica) in questi versi che colpiscono per la loro lucidità di specchi. Sono come placidi laghi in cui però la nostra immagine non si riflette, perché qualcosa ha decretato la nostra scomparsa. Così non c’è quasi traccia dell’autrice,  manca in queste poesie l’autobiografismo in cui cade facilmente il poeta al suo esordio. C’è all’opera una maturità che,  oltre che stilistica,  è intellettuale ed esistenziale.

Il poeta ha un dono ma questo dono è anche una condanna. Perché egli finge di poter trasformare in pietra le immagini che in realtà gli sono affidate solo dal caso. Non c’è una vera e propria regia dietro ai versi (eppure qui tutto sembra  calcolato al millesimo) ma solo la casualità folle di un turbine di foglie che volano e che l’autore al pari del lettore cerca di afferrare. Afferrare un senso magari, addentarlo. Ma no, la poesia sfugge loro, equivoca e inafferrabile. Allora sembra che questi versi siano affiorati dal nulla, come rune di un inesplicabile dettato contemporaneo. Anche in questo, Granovisioni di Elena Giacomelli è una rivelazione: ci mostra oltre ogni dubbio che tutto ci sfugge, ci rotola davanti, si annichilisce, si cancella. Ciò che rimane è il dolore, o forse l’estasi, di questa cancellazione. Com’è possibile dar forma, compito supremo dell’artefice, se tutto si disgrega?

Accade di trovarsi storditi e divisi dalla frenesia di dare una forma a ciò in cui si ha voglia di perdersi e disgregarsi prima di essere riusciti a farlo. Così tutto resta sospeso in una bolla di potenzialità[…]”

Elena Giacomelli indaga e indugia in questa “bolla di potenzialità”, dove tutto è possibilità, promessa, anelito, in cerca della “squisitezza di un abbandono”, parola chiave quest’ultima  per comprendere le dinamiche di  una scrittura all’apparenza molto controllata,  in realtà  attraversata nel profondo da paure e inquietudini molto contemporanee e che in ogni momento sembra sul punto di deflagrare.

Nel nostro tempo - Eugenio Montale

domenica 12 gennaio 2014





La lettura del libro Nel nostro tempo di Eugenio Montale m’induce a una riflessione preliminare. Si tratta di un libro inevitabilmente datato, perché il tempo di cui si occupa è ormai alle nostre spalle, essendo il saggio scritto all’inizio degli anni ‘70, nel 1973 per la precisione. Datato non è un modo per diminuirlo. E’ un dato di fatto.

Lo leggo nell’edizione Rizzoli di allora, costava 2200 lire, e solo questo suggerisce l’idea che si tratti di un altro mondo, un altro tempo, non certo il nostro.

Era un tempo tra l’altro in cui funzionavano ancora (sebbene già scricchiolando)   le vecchie coordinate temporali di passato, presente, futuro, che oggi si mescolano fatalmente come fossimo oltre l’orizzonte degli eventi  in un buco nero.  Era una società che non correva dannatamente come la nostra ma aveva già cominciato a correre da decenni e Montale lo scrive: i decenni del trionfo della Tecnica, potremmo dire.

Se intendiamo allora l’espressione nostro tempo in un’accezione più larga, se con nostro tempo vogliamo dire  era della tecnica,  allora il discorso cambia. Montale parla così al cuore del nostro presente, devastato, il suo come il nostro e probabilmente come quello venturo. Si capisce già dall’incipit, straordinaria sintesi  poetica offerta a noi da un intelletto lucido,  consapevole  di ciò che è il mondo, se non altro il mondo della modernità industriale un tempo, post -  industriale oggi:

Chi osserva con un qualche distacco ciò che avviene intorno a noi dovrà ammettere che il mondo è squassato da una violenta raffica di disperazione e di oscuro, inesplicabile amore”.

Frase che non ammette repliche, definitiva, essenziale, vera  e vera per tutte le epoche, aldilà del motore tutt’altro che immobile di quella cosa chiamata Storia. E più avanti:

Si direbbe che l’uomo sia scontento di sé, incapace di dare un senso, un contenuto al fatto di essere al mondo”. Frase questa in cui si sentono echi di Nietzsche, che mi fanno pensare che Montale avesse fatto sua  la visione del filosofo tedesco, che per primo ha denunciato ” la malattia chiamata uomo”, cercando di diradare con la sua opera il fumo di pessimismo, scontento, rinuncia,  la fatale attrazione per la decadenza, la mancanza di prospettive, direzioni, orizzonti, realtà queste che caratterizzano l’umano della modernità.
Come non riconoscersi poi in questa geniale interpretazione del nostro malessere, espressa da Montale in uno stile unico, con la meravigliosa concisione di un grande poeta:

“Giornali e libri, dépliants e almanacchi, visioni accampate su una tela o su un vetro, suoni messi insieme per darci un’impressione fisica motrice, dinamica, notizie e nozioni gettate su noi a piene mani costituiscono un vociferante abracadabra che dovrebbe dire all’uomo solo: Ci siamo anche noi, non sei tanto solo.”

 Qui Montale descrive quella che è, in sintesi, la brutalità mediatica, incantesimo contro la solitudine essenziale e fondante dell’essere umano, ”vociferante abracadabra” che ci seduce e ci inebetisce.  
E così si capisce che Nel nostro tempo è anche uno straordinario documento, una testimonianza, visionaria nei contenuti, asciutta nello stile, di ciò che accaduto nel mondo, diciamo, negli ultimi 100 - 120 anni: l’avvento della massa, dell’uomo - massa. In questo Montale ha la stessa lucidità di un Leopardi, che  il fenomeno aveva  intuito nei primi decenni dell’Ottocento, quando esso era poco più di una lontana prefigurazione. Montale si occupa dell’arte, della trasformazione del suo concetto in una società sempre più meccanizzata e forse alienata, in cui l’eccessiva proliferazione delle opere  d’arte causerà assuefazione e in cui c’è il rischio che la tecnologia, liberando l’uomo dal lavoro,  crei una “un’immensa orda di uomini obbligati al divertimento per dovere sociale”  la quale orda può trasformarsi facilmente in “un semenzaio di nuovi arrabbiati e forse di nuovi delinquenti”.

In un altro passo del libro si capisce che l’uomo non ama la libertà, ne rifugge; intuizione che porta Montale molto lontano, nelle distese deserte(?) della contemporaneità in cui potrebbe tranquillamente risuonare  la voce di Cioran  o Baudrillard profondersi in una delle sue analisi.

Nel nostro tempo è un libro interessante con momenti altissimi, un libro in fondo enigmatico, a tratti veramente oscuro ma nello stesso tempo chiaro nelle sue posizioni, dove Montale  racconta il disagio dell’uomo contemporaneo, di quello che egli  giustamente definisce Homo destruens. Ed elabora un testo che colpisce per la sua attualità, per la sua lucidità stilistica, per il suo acume inevitabilmente visionario. Il vicolo cieco in cui il pensiero si è cacciato, i buchi neri che ci attraversano, sono già dentro questo saggio, in cui si narra di una cosa chiamata arte. Ho come l’impressione che soprattutto scrivendo di estetica Montale soffochi in sé dei toni apocalittici e profetici che gli sarebbero stati anche congeniali, preoccupato di donare a queste note, come le definisce lui stesso, un tono equilibrato. Si parla di futuro dell’arte. Ma c’è un futuro? Montale ha capito fondamentalmente che la massificazione porta in sé dei progressi ma annienta la vita individuale, in sintesi  rende l’arte impossibile e in ogni caso rinchiude gli artisti nel  loro mutismo  e isolamento privati.  Molto potente,  l’immagine della crosta terrestre interamente ricoperta di manufatti artistici ci racconta forse della fine dell’arte, in un mondo in cui le opere si bruciano nel momento stesso in cui sono fruite e nulla può più ambire all’eternità, concetto ormai vacuo.

Nonostante in lui la storia sia una ferita viva,  la visione di Montale è chiaramente antistoricistica;  perché la storia non si occupa d’altro che della “vita morta”.  Quella del poeta è forse una visione aristocratica, la visione di chi nella sua turris eburnea contempla sotto di sé una società senza più  centro, in cui l’uomo è in fuga ”dal tempo, dalle responsabilità e dalla storia”.  Pasolini in fondo rimproverava questo a Montale, considerando, da marxista, la sua  tendenza all’antistoricismo  come un errore.  Dunque in questo saggio sulla modernità sottili problemi di estetica si prendono tutta la scena; Montale, in equilibrio precario fra il poeta, il vate,  il saggio, l’intellettuale, affronta l’urlo di una crisi culturale, la crisi culturale che investe ormai da un secolo e più  quella cosa chiamata Occidente e che in Italia, in particolare, ha assunto negli ultimi venti - trent’anni,  connotati grotteschi e perfino spaventosi, con il dominio videocratico, con la melassa di informazioni fra il pettegolezzo e lo splatter, tutte cose che Montale sembra anticipare,   come abbiamo già visto,  con l’immagine di questo  seducente e perverso abracadabra spettacolare.  E  non c’era nemmeno internet!  Che forse ha aggiunto a questo panorama un quid  ulteriore di ipnosi, sicuramente ha aumentato il flusso di informazioni che ci inondano.

 Il saggio è breve, letto consequenzialmente affatica un po’, letto a brani, fatto a pezzi,  può essere una delizia. Il suo limite è che è un saggio strutturato come corpo unico. Fosse stato un libro di aforismi! Eccone uno,  estratto dal testo, in cui Montale fa risuonare una sorta di agghiacciante e veritiera minaccia che incombe su tutti noi, uomini  e donne della modernità:

Non auguro nulla e accetto il mio tempo. Ma vorrei solo non andasse del tutto estinta la rara sottospecie degli uomini che tengono gli occhi aperti. Nella nuova civiltà visiva sono i più minacciati.”







La festa dell'insignificanza - Milan Kundera

lunedì 6 gennaio 2014







La prima sensazione che mi coglie leggendo La festa dell’insignificanza di Milan Kundera non è positiva. Il primissimo pensiero è che il titolo stesso sia addirittura una sorta di involontaria autocritica. Arrivato a 84 anni lo scrittore ceco scrive l’ennesimo romanzo a tesi. E’ la sua cifra stilistica: ogni romanzo vuole dimostrare qualcosa e si  costruisce intorno a un’idea, in questo caso sull’idea che l’insignificanza, l’ordinarietà, siano dei valori da opporre,  e probabilmente da preferire,   all’eccezionalità.  Quindi l’insignificante burocrate sovietico  Kalinin,  ridicolmente affetto da problemi urinari, finisce per dare  il proprio nome alla città di Königsberg, una serie di personaggi si muovono nella Parigi contemporanea con pensieri qualunque, vite qualunque, emozioni qualunque,  dando origine,  appunto,  a un romanzo qualunque, spento, incolore, in fondo grigio.  

Pare che solo il mestiere sorregga Kundera -  tradotto per Adelphi da Massimo Rizzante in quella che è la prima edizione mondiale del romanzo - che scrive questa apologia della mediocrità  acuendo quelli che sono i suoi difetti storici, che emergono nelle opere meno riuscite,  come questa: la mascherata della modestia, il tono un po’ troppo amicale della narrazione, la necessità di far apparire quelle che sono banalità come delle rivelazioni epocali, il tono furbescamente dimesso che nasconde labirinti di pensiero forse in questo caso un po’ inconsistenti. Ancora di più tutte queste cose sono visibili in un romanzo che fa dell’insignificanza, della mediocrità, il proprio cardine. E’ un pensiero che non regge: come è possibile scrivere qualcosa di interessante su questo tema? O addirittura qualcosa di nuovo?  Mi sembra che sia la classica buccia di banana su  cui scivolare.

Spiace dirlo ma sembra che Kundera abbia fatto il suo tempo, scritto i suoi capolavori (secondo me “La vita è altrove” e “Amori ridicoli”) e con questo suo ultimo romanzo cerchi i brandelli di un’ispirazione ormai consumata.  I suoi romanzi sono ormai dei refrain sentiti cento volte, non danno il brivido della novità  -  e questo ci può anche stare – ma nemmeno ci consolano al focolare della tradizione. In questo romanzo non c’è fuoco, rimane la cenere di un’ispirazione che a suo modo ha segnato il Novecento.

 Kundera in questo libro pare proprio  uno scrittore di un altro secolo, catapultato nel nostro per errore e che continua  a proporci la stessa formula di romanzo che lo ha consacrato. Così il romanzo procede un po’ stancamente  facendo affiorare personaggi e vicende che s’intrecciano,  lasciando nel lettore la sensazione,  che si fa via via più potente con il trascorrere delle pagine,  che Kundera imiti se stesso, incapace di rinnovarsi, di ridare impulso a una narrazione in fondo anche noiosa, tanto più noiosa quanto più  cerca di essere brillante e briosa.  Che l’insignificanza suprema si nasconda ovunque, anche nelle tragedie della storia, è un’idea che stupisce per la sua banalità, non sembra proprio un tema su cui si possa costruire un romanzo. Così La festa dell’insignificanza sembra un giocattolo che ha smesso di funzionare, un esperimento letterario non riuscito, espressione stanca  di un’ispirazione in declino.

 La consueta bonomia di Kundera, la sua ostentata leggerezza di tono, la sua placida  ironia,  in questo romanzo sono addirittura irritanti, residui di un approccio alla letteratura che ha fatto il suo tempo, e che oggi mi  pare datato, o comunque logorato dal passare del tempo e dalla ripetizione di un identico cliché. Ecco,  questa è la sensazione principale, che Kundera ripeta il modello di romanzo che lo ha reso celebre, senza avere però la forza  immaginativa degli anni migliori,  cadendo nel tranello di rifare se stesso. Può darsi che gli appassionati di Kundera ci trovino le stesse atmosfere che amano da anni, io penso invece che La festa dell’insignificanza sia un romanzo debole, realtà questa  nascosta da un titolo azzeccato, come  è già capitato allo scrittore ceco, che deve la propria fama anche alla capacità di suggerire un’atmosfera con titoli geniali, leggendari, quali “L’insostenibile leggerezza dell’essere” o “Il libro del riso e dell’oblio”.

Che La festa dell’insignificanza esca nel 2013 non è un caso,  così se non altro Kundera cattura in un’immagine l’essenza stessa dell’epoca in un cui viviamo. Che poi a il  titolo sia più suggestivo del romanzo  era capitato anche per  ”L’insostenibile leggerezza dell’essere”.  Ma se quest’ultimo  aveva comunque dei pregi, e mi era parso tutto sommato un romanzo interessante, anche se non eccelso,  la mia sensazione è che La festa dell’insignificanza non verrà annoverato  fra le opere migliori di Kundera.