Faccia a faccia con Dio - Emily Dickinson

sabato 30 aprile 2011


Emily Dickinson è una leggenda della poesia di ogni tempo e di ogni luogo, la sua vita ritrosa, la sua attitudine schiva, l’hanno resa una della figure più decisive della poesia americana dell’Ottocento. Durante la sua vita pubblicò pochissimo e si ritrasse presto in una solitudine quasi sacrale, monacale, nella provincia americana che, come spesso accade ai poeti, non seppe accogliere la sua parola.

In questo splendido libricino, pubblicato da Stampa Alternativa, si capisce anche il perché, le sue poesie rischiavano di apparire blasfeme a un pubblico, che, se si disinteressa totalmente alla poesia, è pronto però ad appiccare roghi, ogniqualvolta la voce di un vero poeta si solleva contro il mediocre e feroce marasma delle sue consuetudini.

In questo libro, intitolato genialmente dall’editore Faccia a faccia con Dio, la religiosità, inevitabilmente insita nell’opera di un artista, si scontra con il fastidio verso ogni forma di dogmatismo che, posizionando la divinità in un ipotetico lassù inattingibile, la allontana dagli uomini, rendendola inutile e pesante costrizione ideologica. Perché questo sembra essere lo scopo di queste poesie di argomento religioso: non potendo rinunciare a Dio, saper vedere le contraddizioni del linguaggio religioso, che se da un lato ipostatizza la bontà divina, dall’altro lo rende altero, distante, mostruoso nella sua lontananza ieratica. Ma anche se agli ipocriti e ai puritani queste poesie sarebbero apparse e apparirebbero tuttora blasfeme, di blasfemo qui non c’è nulla, anzi.

A distanza di un secolo e mezzo i versi accorati della Dickinson continuano a sembrare l’unica, l’ultima, l’ estrema e coerente, forma di rapporto con Dio, giacché se la mentalità moderna è ormai tranquillamente indifferente e brutalmente agnostica, questa dimensione non è praticabile da un poeta, che cerca sempre il divino, anche se sa riconoscere le mediocri o mostruose imposture che la religione ha annesso nei secoli a questa realtà imprescindibile.

Vengono in mente i versi di Baudelaire, quando desidera che la divinità lontana sia scagliata dal poeta sulla terra a fare i conti con la sua ambiguità, con quella che la Dickinson chiama ”"duplicità”.In questi versi Dio è proprio quella figura con la quale, volenti o nolenti, bisogna scontrarsi, per la poetessa americana non c’è la possibilità di un conclamato ateismo, che forse le sarebbe stato salvifico, costantemente la presenza di Dio, o meglio ancora la sua assenza, la sua imperscrutabile e incomprensibile saggezza, sono messe alla prova, in versi che accusano ma che non possono abbandonare la nostalgia. Perché l’Ottocento è ancora una fase di passaggio, l’illuminismo è ancora nell’aria, il paganesimo è ormai dissolto ma fortemente rimpianto, come divinità rimane solo questo despota un po’ triste: il Dio degli ebrei.

Emily Dickinson lo scrive chiaramente, in una delle poesie più belle e giustamente famose: il poeta non può trovare casa sulla terra, né tantomeno in un fantomatico paradiso. Il suo desiderio è di sottrarsi, ma se Dio è un “ telescopio” che vede tutto, non si può a lui sfuggire, né tantomeno alla mostruosa condanna del Giudizio universale. Nietzsche e Artaud sono ancora lontani ma la poetessa americana, pur non avendo gli strumenti teorici, ha il coraggio di affrontare Dio da pari a pari, com’è giusto che sia.

Così ella si sente condannata alla solitudine, all’esclusione, il cielo e la terra le sono ugualmente preclusi, ma non tace l’ardente desiderio di una fusione con essi, affiora un doloroso sarcasmo, affiorano versi aggressivi, “ ma tu ladro! Banchiere- Padre!”, e così si svolge un colloquio segreto, che sfiora l’alterco, fra la sua sensibilità ferita e questo grande assoluto che gli uomini identificano con la parola Dio.

Dio che è visto come un essere indifferente che condanna l’umanità per un crimine che non è mai rivelato, condanna l’uomo alla ”magica prigione della vita” ossessionandolo con la nostalgia del paradiso. Questi versi sono la prova di una formidabile scissione: da un lato sono versi di una devota, anche se delusa, dall’altro testimoniano che l’eco di ogni trascendenza è ormai svanita, e che Dio comincia a essere percepito come una fantasia o un miraggio dello spirito.

Ciò nonostante meglio le illusioni della fede all’”assoluto buio” di una vita senza trascendenza. Ma se Dio è solo un “gabelliere” un “banchiere” che tiene il conto di tutti i peccati per poi punirci, la condizione umana è miserevole, scissi come siamo fra l’aggressione verso un creatore incomprensibile e la richiesta di perdono.
Per cui risuonano potenti e desolati questi versi: “ Per favore Dio, perdonaci!/Per cosa?/ Speriamo tu lo sappia - / noi ignoriamo il nostro crimine”. E risiede proprio in questa ignoranza il dolore per una punizione sentita come ingiusta, punizione che in fin dei conti consisterebbe proprio nella vita, questa misera vita che ci è data . La Dickinson grida, ma nessuno sembra ascoltarla, “ Più generoso, sarebbe stato/ lasciarmi polvere di tomba - / spensierata nel nulla, gioiosa e insensibile - / piuttosto che in questa amara miseria”.

Fa male sapere che queste grida di potenza espressiva straordinaria siano state sepolte per decenni in un cassetto, ma al tempo stesso rincuora capire che così facendo Emily Dickinson ha adempiuto al destino del poeta: rimanere clandestino ed ignorato sopra un suolo freddo e sotto un cielo indifferente.


Gli incontri del Booklet Milano - 1

lunedì 25 aprile 2011

Il 4 Maggio alle ore 18.00, presso Booklet Milano, l'outlet del libro, in via Mario Pichi, 3/B (cit. 33, zona Navigli, MM" Porta Genova, oppure linee 3, 29-30 e 47), Connettivismo, presentazione del Movimento che ha invaso la Fantascienza italiana attraverso le antologie Frammenti di una rosa quantica e Avanguardie Futuro Oscuro, edite da Kipple Officina Libraria. L'incontro si concluderà con un aperitivo a ingresso libero.
Interverranno Francesco "Xabaras" Verso, Lukha Kremo Baroncinij, Alex Tonelli.

da Kipple.it

Il corsaro - George Gordon Byron

sabato 16 aprile 2011


Negli anni trenta del secolo scorso Sartre fornì al suo editore un’idea: mettere sulla copertina de La nausea una fascetta eloquente con su scritto: “Non ci sono più avventure”. L’editore ovviamente rifiutò, “Perderemmo lettori”, e la faccenda fu archiviata come aneddoto, un aneddoto però che racconta bene quella che oggi è chiamata la fine del romanzo. Certo di romanzi se ne scrivono ancora, sempre di più anzi, ma questo non vuol dir nulla, le società del tardo capitalismo hanno azzerato ogni possibilità per generare vite realmente romanzesche. Se leggiamo le trame della maggior parte di questi romanzi, troviamo, infatti, storie minime, quotidiane, vuote come le vite di chi le scrive e di chi le legge.

Questo preambolo serve a spiegare quindi il senso di stranezza che questo testo di Byron comunica, perché qui, sebbene sia un poema - o forse proprio questo fatto è decisivo - il fascino esotico del romanzesco si mescola con quello della poesia e con la retorica tipica del melodramma romantico, per creare sulla pagina l’avventura totale. Ci sono tutti i temi: il pirata solitario con un passato sconosciuto, Conrad, la sua donna, Medora, in attesa perpetua che egli torni dalle sue avventure, i nemici, arabi, sanguinari e pericolosi, e i fidi aiutanti dell’eroe, soggiogati dalla sua forza che come scrive Byron è tutta mentale:

“ Che cos’è questa malia che fedeli a lui tutti/ li piega?/ E’ il poter del Pensiero, è della Mente la Magia.”

Ma il vero protagonista sembra essere il mare, fin dall’incipit allegoria della mente umana:

“Sulle serene onde del mar azzurro cupo/ i nostri pensieri e i nostri cuori liberi e sconfinati al par di quello.”

E’ il romanticismo, un’epoca, che, come ha notato Auden ne Gli irati flutti, permetteva ancora all’uomo questa identificazione: mare, mente, libertà.

C’è da spendere qualche riflessione sulla traduzione di Giovanna Franci e Rosella Mangaroni per l’Edizioni Studio Tesi: inizialmente pare eccessivamente desueta con l’uso di termini e locuzioni arcaiche, ma è solo la prima impressione, perché successivamente si riconosce necessario il loro tentativo di trasmettere l’antichità del testo(1814) che risale anche linguisticamente a un’epoca scomparsa, e la traduzione appare piacevole, anche se non si riesce ad accettare del tutto la scelta di un linguaggio così antiquato. Si apprezza la preziosità di alcune scelte lessicali (es: nappo in luogo di coppa), unica nota veramente negativa è la mancanza del testo a fronte.

Il corsaro è dunque un romanzo in versi, per chi ama ancora questo genere di definizioni, meglio ancora un racconto, come dice il sottotitolo, un racconto diviso in tre canti. Il primo è tutto fondato sulla figura dell’eroe, un pirata che, come in tutti i cliché del romanticismo, cela la sua vera natura appassionata dietro modi crudeli e scostanti:

Pronti sono i suoi detti e pronti gli atti/ E ciascun vi obbedisce e i pochi che ardiscono far/ domande/ Breve risposta e disdegnoso sguardo/ da lui ricevono come unica rampogna.”

Ma questo pirata tutto d’un pezzo, che ama il rischio più della comodità che invece disprezza, ha un amore, Medora, l’unica in grado di intenerire il suo cuore di pietra. Anche Medora è un cliché: innamorata del suo pirata, lacerata dalle sue continue assenze, la sua vita è tutta spesa nell’attesa del suo ritorno. Qui c’è ancora l’idea, che a una mente contemporanea appare quasi offensiva, che la donna sia pura appendice dell’eroe, ma bisogna considerare che, fino a ottocento inoltrato, in letteratura la donna aveva spesso, non sempre, questa funzione quasi esornativa. Ella rappresentava “il riposo del guerriero”, essendo quasi sempre avulsa dal contesto guerresco, le toccava attendere il ritorno dell’eroe, con tutti i patimenti del caso. Ella rappresentava l’aspetto sentimentale dell’esistenza, la sicurezza del luogo natio, la casa, laddove invece all’uomo veniva affidata la realizzazione di altri cliché: l’amore per il pericolo e per l’ignoto, il viaggio, specie per mare, la crudeltà in battaglia.

Nel secondo canto abbiamo gli scontri tra i pirati e i loro nemici arabi, l’imprigionamento di Conrad, l’intervento di una ragazza dell’Harem che lo libera perché colpita dal suo coraggio e dalla magnanimità dimostrata e infine nel terzo tutti i nodi di guerra, d’amore e di morte si sciolgono. Ed è con il personaggio della schiava Gulnare, che libera Conrad uccidendo il sultano suo padrone, che l’elemento femminile si fonde con quello maschile, la tenerezza e la dolcezza con la violenza e il coraggio, così Byron inventa un personaggio femminile al di fuori dei luoghi comuni sulla femminilità sopra esposti.

La vicenda pare così concludersi nell’ambiguità, Byron non svela la sorte riservata al pirata. In esergo ad ogni canto un verso di Dante a suggellare l’incantesimo in un’aura di grandezza poetica, perché quella di Conrad è la storia di un poeta dei mari, un alter ego dello stesso Byron, è la storia di uno che “Pochi pensieri egli ebbe/ che non fossero di tenebra e di guerra.

Così Il Corsaro, come voleva l’estetica romantica che Byron incarnò come nessun altro, è l’esaltazione della libertà e del rischio, con la consapevolezza che solo un’enorme intensità del vivere, un sostanziale spreco di energie vitali, può rendere possibile l’esistenza di vite realmente romanzesche.

Una volta chiesero al poeta inglese cosa avrebbe voluto che suo figlio facesse nella vita. Egli con il consueto spirito di provocazione, in nome di valori un po’ aristocratici e un po’ selvaggi, comunque incomprensibili ai borghesi, un po’ raggelò, un po’ divertì tutti dicendo: “Vorrei che facesse il pirata”.

Nihil ergo sum

sabato 9 aprile 2011

Chi sono? Domanda il cui senso è solo nella tristezza scimmiesca che essa suscita in chi se la la pone, cioè in tutti, mettiamola così, ciascuno è roso dall’interno da questa insicurezza ontologica originaria. Sappiamo bene infatti, nell’ inquietante profondità di noi stessi, di essere niente, perché illudersi dunque di avere in sé una fantomatica sostanza, essenza, da conoscere? Senza contare che questa domanda presuppone un sé stabilito, definitivo, e non quella fluttuazione di cui consiste in realtà l’attività psichica. Chi sono? ha una durata inquietante. La sua eco è derisoria sempre, la sua risposta una dichiarazione di disfatta, il suo enigma ha la stoffa di un Arlecchino demente.

Troppo, infatti, su tutte le velleità d’esistenza risuona la violentissima constatazione del nulla o se non altro riecheggia l’intuizione di un se stesso indicibile, non lo scarto etichettato di una grossa multinazionale dell’identità, ma forse proprio un nulla in nostro possesso, da plasmare: noi stessi, la nostra più privata creazione.

Tuttavia tutti si agitano, e cercano espressione, si manifestano, gridano la loro esistenza ai quattro miserabili venti, e ogni tanto si chiedono: Chi sono? E ai migliori, ne sono certo, gli si ghiaccia il sangue nelle vene. Però poi tutto fugge inesorabile, si perde nel gran flusso delle motivazioni, dei narcisismi privati o collettivi, e questa arida colpevolezza diventa un incubo passeggero. E’ la vita, così deve essere.

Ma noi non possiamo ignorare che anche sulla nostra ombra, che vorremo tenere celata, incombe la maledizione dello specchio, Chi sono? È un grido funebre, un’avvilita constatazione di smarrimento un poco cosmico, talvolta, chi non la conosce?

L’impossibilità di rispondere ci lacera tutti, da giovani, finché conosciamo o ci illudiamo di sapere bene la risposta, sappiamo o crediamo di sapere quali burattinai tirano le fila della nostra coscienza, fissiamo ovunque, nelle strade, nei film, nei libri, narcisisticamente noi stessi, eppure, fatalmente, la domanda continua a rimanere senza risposta, perché ciò che siamo è spesso una costruzione mentale, una fantasia, un modo di raccontarsela. E comunque al fondo di quell’ironia che chiamiamo noi stessi, l’amara o rassicurante consapevolezza del nulla, un nulla che quotidianamente siamo noi a tessere e plasmare e che quindi, inevitabilmente, c’incanta.

Chi si conosce unicamente come maschera, vive una piccola esperienza metafisica, dove la mistificazione permette il gioco delle apparenze e degli inganni di cui si consiste. Nessuna verità da dire, nessuna essenza da rivelare, chi sono? si rivela una domanda senza senso.

Invece, chi dice io sono io si condanna all’immobilità della pietra, alla staticità di Dio, del dio che è un “cadavere appeso”, perlomeno.

Una poesia di Emily Dickinson

mercoledì 6 aprile 2011


Non sono a casa mia - quaggiù-
e neppure lo sarò ne cieli
Io so – mai avrò una casa-
Non mi piace il paradiso –

Perché ogni giorno è domenica
e non c’è mai una pausa –
e com’è opprimente l’eden
nei brillanti pomeriggi di mercoledì –

Se almeno uscisse per visite – Dio –
o schiacciasse un pisolino –
così da non vederci –
ma dicono sia come un telescopio

che perenne ci scruta –
E vorrei scappare via da Lui
dallo Spirito Santo e da tutto quanto –
Ma c’è il “Giorno del Giudizio”!
(413)

***

Da Faccia a faccia con Dio – Emily Dickinson – traduzione Chiara Campomori

Great Jones Street - Don DeLillo

sabato 2 aprile 2011

La letteratura, se unita ad un pensiero, ad una visione, ha spesso esiti profetici, ma qui non c’è nulla di sovrannaturale, è la logica, perché i grandi scrittori di questo si occupano, anche quando apparentemente si innestano sul solco del delirio, o di ciò che appare delirante a coloro che non riescono a portare a compimento, cioè a svolgere logicamente e quindi con crudeltà nessun pensiero. Portare a compimento significa sempre toccare gli estremi, se ad A segue B, vediamo bene cosa può essere C, ed usiamo la letteratura, l’ analogia magari come fanno i poeti per vederci meglio.

La grande letteratura è sempre uno sguardo ulteriore, diverso e perciò colpevole, come ha mostrato Bataille ne La letteratura e il male, come ha scritto Manganelli in quello splendido libro che è Il rumore sottile della prosa.

Una volta si parlava di romanzi di idee, Dostoevskij ne è un esempio, oggi si fa più fatica ad usare questa terminologia perché la letteratura contemporanea spesso non ha il coraggio di riconoscersi matrice di idee, se ne vergogna quasi e preferisce veicolare lo smarrimento esistenziale tipico delle metropoli, piuttosto che indicare la via di un superamento.

DeLillo invece con Great Jones Street tenta di realizzare questo superamento, partendo da un’idea molto semplice e condivisibile, anche se profetica per gli anni(1973) in cui il romanzo fu scritto: la società contemporanea sta distruggendo la privacy e con essa la libertà. Certo il concetto non era nuovo, il primo a puntare il dito contro questa deriva fu Faulkner, già negli anni cinquanta, con il suo definitivo saggio sull’argomento intitolato proprio Privacy. Ma nessuno come DeLillo che io sappia aveva spinto questo pensiero all’estreme conseguenze, perché anche ai tempi di 1984 di Orwell questa dimensione non si era ancora palesata in tutta la sua potenza di orrore quotidiano e contemporaneo e sto parlando del rischio terribile che si corre oggi a realizzare il sogno di tutti: il sogno della fama.

Da poeta, cioè dalla visuale di uno che per sopravvivere ha sempre avuto bisogno di nascondersi, personalmente questo sogno mi è stato sempre incomprensibile, perché in questa epoca la fama arriva per schiacciarti, per immolarti all’estetica contemporanea che aborrisce il segreto e le zone d’ombra. Della persona famosa si sa o si presume di sapere tutto e quel presume getta un’ ulteriore ombra sulla stessa persona famosa: non è che ci nasconde qualcosa, non è che forse non si dà a noi pubblico in tutta la sua sconcertante nudità? Per gli artisti che arrivano alla fama di massa come il protagonista di questo romanzo; non c’è scelta: vivisezionati, cannibalizzati essi non possono che desiderare la non esistenza, l’anonimato a costo di arrivare al suicidio, come Kurt Cobain. Così Bucky Wunderlick la rockstar protagonista del romanzo già nello straordinario incipit afferma: “ Forse l’unica legge naturale connessa alla celebrità vera consiste nella sicurezza che il celebre prima o poi è spinto al suicidio”.

Ecco, l’incipit di Great Jones Street, basterebbe questo, per riconoscere a DeLillo doti di grande scrittore, è un incipit perfetto che sintetizza magistralmente la sua visione, in uno stile fulmineo, conciso, tigresco nella sua aggressiva tranquillità, che lascia anche margini alla realtà caotica che si intende raccontare, uno dei migliori incipit, a mio avviso, della letteratura americana del Novecento, all’altezza dei più belli: ho in mente Tropico del cancro di Henry Miller, L’urlo di Ginsberg, Belli e dannati di Fitzgerald, certe cose di Faulkner o di John Fante ( ed è riconoscere molto a DeLillo).

La traduzione di Marco Pensanti ci restituisce efficacemente l’eco della prosa dello scrittore americano, che brilla anche nei momenti più minimali del romanzo, come quando descrive il vicinato di Bucky, il quale ostentatamente si rinchiude in un monolocale di New York, “tempio profanato, mio luogo di nascita” per sfuggire alle conseguenze terribili della sua stessa fama, perché questa ha generato nel pubblico una sorta di furia omicida verso di lui rivolta. La furia omicida scatta nel momento in cui il pubblico adorante, restituito dalla musica alla sua “ corporeità non più etichettata” non sa letteralmente che fare e allora segretamente comincia a desiderare, in realtà a invocare, la morte dell’artista, la sua auto- crocifissione, se vogliamo, che dia un senso tragico alla sua noia di entità massificata. Perché il pubblico attende che dal sangue dell’artista gli arrivi l’ultima definitiva consacrazione e l’ultima, la più enigmatica, delle rivelazioni.

Così DeLillo mette a nudo lo star system, la paranoia di cui consiste, anche inserendo a metà del romanzo brani di interviste e canzoni (splendide) in cui la rockstar diventa mito, e mostra come questo mito sia già l’apoteosi di ogni strumentalizzazione; come quando la giornalista chiede infoiata, vedendo quella che lei stessa chiama ”l’attuale compagna” del genio, ragguagli circa un eventuale matrimonio - gabbia in cui i suoi lettori possano gongolarsi del mal comune mezzo gaudio di prammatica: è uno di noi, comunque.

E’ il sistema verbale che cerca di ingabbiare colui che ha rotto le gabbie, lo vuole relegare all’aspetto larvale di quelle mummie altolocate che chiamano vip. Ma a Bucky si chiede di recitare il suo ruolo di capro espiatorio fino in fondo, fino ad immolarsi. E’ una visione cristica, dionisiaca, prometeica dell’artista, una visione romantica che sono forse gli artisti stessi ad aver messo in atto: è il meccanismo della loro immolazione, che può avvenire e in genere avviene con la loro neutralizzazione. L’arte non può che essere eversiva in un contesto bloccato come quello dei Media, incarnazione del gusto medio e perciò mediocre. Se gli artisti sono eversivi allora bisogna a maggior ragione che diventino dei feticci culturali inoffensivi, buoni per i salotti, reperti museali adatti per far gozzovigliare l’erudito, la critica. Ecco allora il marketing, con tutto il suo affilato apparato mitologico a fare da intermediario fra le proiezioni del pubblico e il corpo stesso della rockstar. Tutto questo per imbalsamarla viva.

Great Jones Street è tra le altre mille cose l’indagine più accurata che io abbia mai letto sul mondo del rock a cavallo degli anni sessanta e settanta, e infatti su tutta l’opera aleggia il fantasma di Jim Morrison, capro espiatorio della generazione dionisiaca; perché Bucky Wunderlick sembra realizzare una sorta di progetto politico - erotico affine a quello di Morrison, ed è sempre la solita storia dell’ispirato dal dio, del vate, dello sciamano, del guru, che rifiuta però di essere tutto questo, “I can’t be your guide”, perché la guida che cerchi è dentro di te: sei tu. Con questo libro DeLillo ci regala una delle più belle figure di rockstar, forse l'estrema e la più coerente, della storia, sia essa quella reale dei cosiddetti fatti, sia quella immaginaria della letteratura.

Great Jones Street è la storia di un “burocrate dell’inferno”, una rockstar- imprenditore di se stesso, che gioca la sua vicenda nell’arte intesa anche come calcio nel sedere allo stesso meccanismo capitalistico che imprigiona ogni grido, genio tacito del sopravvivere“; la cui mente è assorbita della Paranoia delle masse. Egli cerca di allontanare da sé il suo stesso culto, perché come cantano i Csi:

Non fare di me un idolo mi brucerò /Se divento un megafono m’incepperò”.

Bucky Wunderlick è una creatura che vive tutta la schizofrenia del capitalismo frantumato, e raccoglie i cocci della sua immagine disintegrata e disintegrata a forza di mitologie, leggende, metafisica. Ecco dunque il rock, per restituirci alla carne, all’esperienza individuale e solitaria, esperienza dell’infanzia, ”corporeità non più etichettata”, sintetizza magistralmente DeLillo.

Inevitabilmente sebbene mai citato del romanzo, è il dionisiaco che vuole irrompere sulla scena per svelare la trappole della Maya, così bene incarnate anche solo nell’espressione star system, sistema stellare, costellazione della Paranoia. Da qui l’idea di chiamare “ il coacervo di holding, fiduciarie, acquisizioni e cabale finanziarie” a lui legate, con il nome di Transparanoia, con l’idea- che Bucky ha come illuminazione in un momento di estremo sconforto,- di mostrare un oltre, nello sforzo di un superamento, per spezzare il cerchio magico della Maya- Paranoia.

DeLillo dunque con questo romanzo straordinario si lascia assorbire da quelle “ regioni così estreme ” , “mostruose e vulvari, “ che connettono la celebrità con il suo pubblico e ci mostra, oltre ogni ragionevole dubbio, che la vita diventa spaventosa, sotto gli ustionanti riflettori della fama.

Perché finendo il diritto al segreto finisce la privacy e con essa la libertà. Inizia l’era della paranoia. In questa realtà in cui siamo immersi il creatore, l’artista, il fingitore, che ha in sé immensi spazi di segreto, deve perciò essere immolato oppure nascondersi, perché fondamentalmente è un traditore. Il pubblico lo sa :”Ci tiene nascosto tutto. Non dirà mai la verità”.