Un incipit di Don DeLillo

mercoledì 30 marzo 2011

“La celebrità esige ogni eccesso. Intendo la celebrità vera, che è una fluorescenza divoratrice e non la sobria rinomanza degli statisti sul viale del tramonto o dei sovrani dal mento sfuggente. Per celebrità intendo lunghi viaggi in uno spazio grigio. Intendo il pericolo, il confine di tutti i vuoti possibili, un uomo che impone l’erotismo del terrore ai sogni della Repubblica. Sforzatevi di comprendere l’essere costretto ad abitare regioni così estreme, mostruose e vulvari, impregnate di memorie di violenze. Anche se per metà folle, quest’uomo viene riassorbito dalla follia totale del pubblico, anche se perfettamente razionale, burocrate dell’inferno, genio tacito del sopravvivere, sa già che verrà distrutto dal disprezzo tipico del pubblico per i sopravvissuti. La celebrità, questo tipo particolare di celebrità, si nutre di oltraggi, di quello che i consiglieri di uomini di statura ben minore definirebbero pessime relazioni pubbliche: scene isteriche dentro limousine, litigi, tradimenti, pandemonio, droghe. Forse l’unica legge naturale connessa con alla celebrità vera, consiste nella sicurezza che il celebre, prima o poi, è spinto al suicidio. (Si è capito o no che una volta ero una rockstar?)”.

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Incipit di Great Jones Street – Don DeLillo – traduzione Marco Pensanti – Net

Aforismi della libera azione

venerdì 25 marzo 2011

1

Le cose non vanno gridate, vanno sussurrate perché il sussurro è più forte dell’urlo.

Le cose non vanno sussurrate, vanno pensate, perché il pensiero è più forte del sussurro.

2

In Italia o nel mondo c’è un solo atto politico degno di nota: non avere la televisione, non leggere i giornali, dedicare alla cosiddetta informazione giusto il tempo di un cornetto svagato. Non per disinteresse o indifferenza, il che sarebbe un male, ma per scelta consapevole: non voglio essere controllato.

3

Il telegiornale è l’apoteosi del controllo della mente, il vertice di questo cerimoniale capitalistico, fondato su un debito incomprensibile, un peccato originale fantomatico, l’unica possibilità è il lento metodico risveglio della virtus latina che Nietzsche ebbe la sagacia di chiamare volontà di potenza, dove però si è capito che esiste una sola potenza: la consapevolezza e la conoscenza di sé.

La virtus non ha bisogno di qualcuno che la rappresenti politicamente, esteticamente, culturalmente, non ha bisogno dello spettacolo( sia esso una messa o un concerto o un comizio) perché essa stessa è lo spettacolo.

E’ ancora una volta l’imperatore Adriano, con l’ultimo verso nella traduzione di Carmelo Bene:

“Piccola anima smarrita e soave,
Compagna e ospite del corpo,
ora che t'appresti ad ascendere in luoghi
incolori, aridi e duri,

più non darai spettacolo di te.”

Discesi in questa morte della verità e dunque dell’apparenza, liberi di non dare spettacolo, non siamo più artisti, né demiurghi di realtà illusorie, precipitiamo in una consapevolezza più antica di Dio, felicemente sbriciolati come prima di essere, che qui significa sempre esserci, dunque partecipare al gioco che profondamente ci nega.

4

Dove abbiamo annegato le nostre maschere? In quale liquame? Perché abbiamo appiccato un incendio sulla giostra che ci portava in alto? Perché scegliemmo l’abisso?

Per dimenticare l’onniscienza della nostra ombra e vivere liberamente l’ignoranza, l’errore, l’errare: perché non ci piacciono le cose facili, paradisi a portata di mano: l’umile erba sotto i nostri piedi ci induce a macchinare cieli a dismisura, a volare più in alto del volo.

Una poesia di Mariangela Gualtieri

domenica 20 marzo 2011

Io sono spaccata, io sono nel passato prossimo,
io sono sempre cinque minuti fa, il mio dire è fallimentare,
io non sono mai tutta, mai tutta, io appartengo
all’essere e non lo so dire, non lo so dire
io appartengo e non lo so dire, non lo so dire
io appartengo all’essere, all’essere e non lo so dire

io sono senza aggettivi, io sono senza predicati,
io indebolisco la sintassi, io consumo le parole,
io non ho parole pregnanti, io non ho parole
cangianti, io non ho parole mutevoli,
non ho parole perturbanti,
io non ho abbastanza parole, le parole mi si
consumano, io non ho parole che svelino, io non ho
parole che puliscano, io non ho parole che riposino,
io non ho mai parole abbastanza, mai abbastanza
parole, mai abbastanza parole

ho solo parole correnti, ho solo parole di serie,
ho solo parole fallimentari, ho solo parole deludenti,
ho solo parole che mi deludono,
le mie parole mi deludono, sempre mi deludono
sempre sempre mi deludono, sempre mi mancano

io non sono mai tutta, mai tutta, io appartengo
all’essere e non lo so dire, non lo so dire io
appartengo all’essere e non lo so dire,
io appartengo all’essere, all’essere e non lo so dire.

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Da Seconda parte- tratta dall’antologia Fuoco centrale e altre poesie per il teatro – Mariangela Gualtieri - Einaudi

Bambiland – Elfriede Jelinek

mercoledì 16 marzo 2011


“La verità è una menzogna che ha perso coscienza di essere tale”.

Friedrich Nietzsche

In questo testo, Bambiland, pensato in origine per il teatro, Elfriede Jelinek esplora il tema eterno della guerra - parlando in questo caso della guerra in Iraq - con una scrittura elusiva, che sembra torcere il collo a tutte le retoriche, quella desueta dell’eroismo e quella molto in voga della pace. Poiché fatalmente la storia la scrivono e la falsificano i vincitori – oggi attraverso i media proprio mentre si compie – diventa difficile stare dalla parte dei perdenti; c’è una speciale inerzia che sembra dettare i temi della scrittura contro la stessa volontà della scrittrice. Dunque l’impressione è che, come i media stessi, la scrittura della Jelinek tenda a nascondere più che a rivelare, per far emergere la logica oppressiva delle parole, facendole roteare intorno a un fulcro di ondeggiamenti, omissioni, incoerenze, su uno sfondo di pura psicosi. Perché questo è una specie di delirio in cui, come tronchi galleggianti su un fiume, affiorano coercizioni linguistiche, tic mentali, e giochi di parole intraducibili.

Come sfuggire al fascino dei prodigiosi cacciabombardieri, con le loro bombe chiamate ipocritamente ”intelligenti”? Come sfuggire al tenebroso fascino della “guerra giusta”, se coloro che la combattono usano Dio come alibi? La Jelinek non è ipocrita, sa bene che la guerra in Iraq è una realtà da cui tutto l’Occidente crede di poter trarre vantaggio, però cerca di restituirci tutte le menzogne di cui il discorso mediatico è impregnato. Sa anche bene che la guerra, come tutte le esperienze terribili, pone fine alla noia, essendo diventata nel nostro tempo lo spettacolo assoluto della nostra stessa alienazione di spettatori.

La scrittrice austriaca pone questioni fondamentali: quella della “civilizzazione” per esempio, al di fuori della quale vogliono farci credere ci sia il “nulla”, mescolando la lingua parlata con echi di letteratura classica – il testo è una rielaborazione in chiave moderna de I Persiani di Eschilo – assumendo inizialmente una voce neutra, che si vuole tenere equidistante, oggettiva, priva di pathos, la quale voce, però, perde progressivamente lucidità, si smarrisce nel caos stesso della guerra, si disperde. Ed è questa la sfida, parzialmente riuscita, elaborare un linguaggio che si tenga lontano dalle celebrazioni interessate della guerra, come dalle sterili demagogie della pace. Perché la guerra è una realtà totale, dove l’uomo si esprime completamente, e completamente si perde, realtà in cui le parole non possono essere altro che dei vaneggiamenti in prossimità del disastro. Così questo testo è un labirinto che vuole registrare il nostro smarrimento di spettatori perpetui, e lo fa a tratti con una strana sobrietà allucinata, a tratti delirando platealmente, per meglio esprimere tutte le contraddizioni di un discorso che, se vuole porsi dalla parte dei perdenti, delle vittime, è in realtà incalzato ferocemente dalle violente imposizioni della Storia.

Qui il linguaggio rivela la sua natura profonda: non siamo noi a gestirlo ma esso a gestire noi; così questo monologo pare una balbuzie e sembra mostrare come la letteratura che tratta di attualità, con i suoi dubbi e i suoi strazi, sia diventata ormai un’appendice delirante del discorso mediatico - che sul piano del delirio non può essere più superato - un sottofondo di critica la cui fragilità è simile al battito d’ala della farfalla dinanzi al ringhiante motore della Storia. Così la voce del protagonista, la cui identità è accuratamente tenuta nel vago, diventa una sorta di Coro, una specie di vox populi in cui s’intrecciano tutte le manipolazioni interessate dei media. Questa voce è un’entità multipla, una soggettività senza centro, schiantata dal delirio totale dei media. E’ una voce il cui sottofondo è paranoia globalizzata.

Qui il discorso si fa paradossale come sempre: la grande falsificazione della letteratura si scontra con le falsificazioni della Storia che ha dalla sua parte tutta la logorrea della verità.
Mentre la letteratura mente nascondendo il vero, mescola astutamente verità e menzogna fino a renderle indecifrabili; Il discorso storico è invece una “menzogna che ha perso coscienza di essere tale”, come ha intuito Nietzsche. Quindi la storia mente, nascondendo il falso, cioè tutte le possibilità estromesse del suo divenire reale. La storia: forma impura di quel grande genius della letteratura. Forma impura perché assurdamente legata alla verità, al fatto, dimentica dell’assioma fondamentale di Nietzsche: ” Non esistono fatti, ma solo interpretazioni dei fatti”.

Da queste contradizioni laceranti il discorso di Bambiland è evidentemente impregnato. Sub specie aeternitatis è la letteratura a vincere secondo me, perché è un luogo dove non si è mai saputo distinguere granché fra verità e menzogna ma le si sono sempre viste intrecciarsi e danzare. Letteratura: grande terra di libertà e quindi, inevitabilmente, terra equivoca. Il problema di questo testo è allontanarsi dalla verità storico-mediatica, cioè dalle falsificazioni operate dai vincitori, per gettarci nello sconcerto di un gioco d’ombre, chi tira i fili di queste ombre sembra essere il fato imperscrutabile. Fato che prende l’aspetto di un cacciabombardiere, perché ormai l’uomo ha proiettato tutta la sua potenza sulla tecnologia, divenendo lui stesso non più il grande motore della storia, ma modesto “ funzionario” addetto al funzionamento di ordigni.
Così questo monologo è attraversato da flussi schizoidi, con una circolarità di temi ossessiva, tutto viene sfiorato dallo sguardo della demenza, e l’oscurità del testo sembra essere dovuta alla necessità di schierarsi contro la guerra, senza però proclamarlo ai quattro venti (il che renderebbe la cosa ridicola).

Attraverso un progressivo accumularsi di farneticazioni o mistificazioni- il confine è sottile- la Jelinek fluttua in una dimensione ambigua, dove accanto all’attacco alle gerarchie militari si annida al tempo stesso l’esaltazione del profitto come unico regolatore del destino. E’ una verità amara, il cuore stesso della democrazia occidentale, verità detta senza cattiveria, così come senza cattiveria, il massacro è descritto come ineluttabile. Non c’è pietà in queste parole e quasi manca il dolore, nella parte finale c’è forse una spiegazione, che riecheggia quella di Baudrillard: l’apparire della guerra in televisione ha risucchiato il suo essere. Noi, testimoni annichiliti o entusiasti di questo disastro, partecipiamo ormai di una realtà fantasma, e usciamo dal libro con la sensazione - e qui la scrittrice austriaca ha perfettamente ragione- che solo uno sproloquio calcolato al millesimo ormai può dare testimonianza esatta dell’incalcolabile.

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Bambiland- Elfriede Jelinek – traduzione Carlo Groff - Einaudi

Recensione di Sotto una luna in polvere con estratti

giovedì 3 marzo 2011



E’ comparsa una recensione di Sotto una luna in polvere su The NeXT Station, scritta da Alex Tonelli, che ha anche selezionato dieci mie poesie, tratte dal libro, nella sua rubrica. Tonelli principalmente indaga il mio rapporto con il movimento del Connettivismo, mostrando le affinità e le divergenze. L’articolo s’intitola Ettore Fobo: nuovi panorami da osservare. Per leggere tutto, potete cliccare sopra il link. Grazie dell’attenzione.