Il reading “Fluttuante è
l’anima”, che si è tenuto ad Alassio il 29 settembreè un’altra esperienza da annoverare fra
quelle straordinarie. È sempre straordinario, infatti, quando si incontrano altri poeti e si
esce da quell’isolamento che comporta troppo spesso l’esperienza poetica. Ad
Alassio, sotto la creativa conduzione dell’organizzatore, il poeta Lamberto Garzia, giurato del Premio Internazionale di poesia inedita "I colori dell'anima" - la cui premiazione si è svolta in contemporanea al reading - nonché presidente dell’associazione Mondo fluttuante, ho avuto modo
di ascoltare alcuni dei poeti più interessanti della scena attuale.
Era presente
anche Giuseppe Conte, autore di fama internazionale, che ci ha illuminato con
una splendida poesia, in dialogo fra i
secoli con il poeta neogreco Kavafis, sull’impossibilità di avere un’ Itaca cui
tornare; ho avuto modo di approfondire la conoscenza con il poeta Silvio
Straneo, autore di versi di una sonorità e musicalità notevoli.
Diversi altri
poeti erano presenti: Camilla Ziglia, Alessandra Corbetta, Giancarlo Stoccoro, fra gli altri, non posso nominarli tutti e mi
scuso. Padroni di casa, una splendida villa, il poeta Luigi Olivetti e la
gentilissima consorte, che ringrazio per l’ospitalità. Così la poesia, da luogo di solitudine, da limbo
in cui ci si intrattiene con le voci di poeti lontani e spesso scomparsi,diventa un giardino di incontri memorabili.
Fedro è un filosofo cinico, indifferente alla sua opera e alla sua fama postuma, affascinato dagli animali per il loroanonimato, sui tratti umani ravvisa la loro presenza; Tutankhamonè colui che ha acquistato con la morte il diritto ad esistere e la morte stessa è stata la sua compagna di giochi fin dall’infanzia; il segno distintivo diCasanova è la fuga, dalla repubblica veneziana, dai sicari, dalle donne; Dickens è uno scrittore “condannato a morte”dalla nascita e il riso e il pianto si confondono nella sua opera; il califfo di Baghdad delle mille e una notte un attore che vive la duplicità della sua esistenza storicae letteraria.
Così Manganelli registra le loro confessioni immaginarie in questo libro, scritto per la radio negli anni settanta, a tratti efficace nel descrivere la grande malinconia che tutti pervade, a tratti prevedibile nell’individuare le piaghe e le pieghe dell’interiorità analizzata. Se nell’intervistaa Fedro vien fuori una figura di scrittore scontroso, solitario, con un interessante bagliore sinistronel sorriso di sapiente, quelle diDickens o De Amicis invecemi sembranosaggi critici mancati,manca loro la verve di una narrazione che smonti realmente le banalità storiografiche. Anche nell’intervista a Tutankhamon Manganelli fatica a restituirci l’immagine del faraone, sembra inciampare nella sua retorica, non offre scorci di una realtà veramente misteriosa, pur provandoci.
Secondo me, in questo libro pubblicato da Adelphi, quella di Manganelli è una scrittura a tratti troppo debolmente ironica, che qua elà lascia filtrare la gran desolazione del tutto, ma lo fa in modo molto, troppo educato. Ci sono però dei begli slanci lirici, degli echi shakespeariani nella prosa sul califfo di Baghdad;ci sono nell’intervista a Tutankhamon dei momenti di potenza espressiva, anche se un po’ ridondante, ma in sostanza troppo spesso la prosa di Manganelli per me scorre via inavvertita. Questo strizzare l’occhio alla Storia, usando un timido stile divulgativo, mi sembra il limite di queste interviste che raggiungono solo di rado un’efficacia sintetica e gnomica. Queste rare perle navigano in un tessuto che troppo spesso appare di maniera, un tentativo non molto ispirato di mischiare storia e mito. E’ sicuramente un’interessante lettura moderna di personaggi storici, un libro a tratti anche piacevole, scritto evidentemente con lo scopo di intrattenerci. Ci riesce, non ci riesce ma l’intento per me sminuisce l’operazione letteraria, perché invece in radio, affidate alla voce di Carmelo Bene, queste interviste erano interessanti, ma questo è dovuto unicamente alla grandezza di Bene. Sulla carta, duole dirlo,funzionano meno. Molto meglio a mio avviso l’intervista ad Attila scritta da Guido Ceronetti, per fare un esempio tratto dal medesimo progetto radiofonico- nel complesso un esito straordinario per quel mezzo- che negli annisettanta vide coinvolti fra gli altri anche Calvino, Arbasino, Sanguineti, Eco.
Ceronetti, luisì, raggiunge la ferocia della vera comicità, la prosa in fondobonaria di Manganelli, specie nell’intervista su Nostradamus, è stucchevole e talvolta inutilmente labirintica, le riflessioni dei personaggi poco interessanti o addirittura, come nel caso dell’intervista a Gaudì, forzatamente bizzarre. Anche se proprio nell’intervista su Gaudì viene fuori il tocco geniale di Manganelli, nella Sagrada Familia vista come chiesa puttana, luogo equivoco, postribolo fetido che la fantasia allucinata dell’architetto spagnolo elabora dal suo rapporto ossessivo con le pietre. Però poi Manganelli ci riducea zero ogni fascino facendo apparire Gaudì sostanzialmente come un mezzo scemo. Satira? Non fa ridere. Irrisione? Non è abbastanza crudele. E allora? Semplice evasione nel buffo, nel caricaturale (ah, la buona vecchia risata di una volta). In sostanza mi convince pienamente solo la raffigurazione del Re Desiderio, emblema della razza estinta, che non lascia tracce, se non il ricordo di un fantasma. Qui Manganelli fa risuonare qualcosa di grande, e realizza una figura memorabile. Per il resto le sue medium, i suoi Fregoli, i filosofemi sul tempo di un Nostradamus rimbambito, mi sono tristemente indifferenti.
In questo libro, che in origine faceva parte di un’altra opera più vasta intitolata A e B, il tono umile dell’intervistatore molto spesso pare una forzatura ipocrita, la sua presenza fastidiosa, il suo discorso è adulatorio e grottesco e la sua voce ridondante, didascalica. Certo il tono colloquiale del testo è un esito voluto, e perlopiù Manganelli evita di essere giornalistico,ma misembra manchia volte lo scarto demoniaco della vera e propriascrittura letteraria, l’efficacia sintetica di un aforisma ben calibrato. Lo ci si attende da questi personaggi, raramente arriva. Le interviste impossibilisono dunque palesemente, nelle intenzioni di Manganelli, una piccola cosa, un divertissement forse fatto per ragioni di lucro. Certo ci sono qua e là schegge straordinarie, ma sotto sotto manca a questo libro il giusto pathos; il tono ironico e distaccato è certo molto moderno, ma comodo, e oltretutto il sorriso sornione di Manganelli, il sorriso di chi ha ben digeritola Storia e la Letteratura, mi sembra un po’ ipocrita.
Le interviste impossibilisono evidentemente un libro scritto a tavolino che non nasce da una necessità dell’autore, qui l’impressione è che Manganelli, più che essere un grande scrittore, ne imiti l’aplomb. E’ sicuramente un libro intelligente, non lo nego, sofisticato nella sua semplicità, a tratti elegante, ma di un’eleganza convenzionale, in alcuni momenti anche affascinante, ma in fondo statico, freddo esercizio di stile che lascia flebili tracce, e tutte lesmorza l’ironia. Mi vien in mente un verso di Quasimodo: “Per un po’ di ironia si perde tutto.”, il tono bonario e ironicoè in certe interviste una fastidiosa e scomoda presenza, meglio quando Manganelli scava nella latinità regalandoci questo straordinario Fedro, poeta cane, ma anche lì il tono eccessivamente sommesso annega talvolta le bellezze del testo, e la fastidiosa voce dell’intervistatore spegne la fiamma dello stile.
"Il futuro ci riserverà psicopatologie. La gente è disposta a tollerare livelli di psicopatologia sempre più elevati nella vita moderna. Livelli impensabili 50 anni fa. Come questa specie di apertura verso la pornografia, il che, tra l’altro, è un bene. Mi piace. La pornografia è bene, è controcultura. Il capitalismo ha una grande inventiva, una capacità di trasformarsi con brevissimo preavviso. Se qualcosa non va e tu non vuoi comprarla, non fa niente! Inventeremo qualcosa di nuovo, riempiremo i negozi con qualche novità. Ecco, io temo che la gente — annoiata per la maggior parte del tempo e senza nulla per cui vivere, specie in Inghilterra — si lascerà andare alle psicopatologie perché sono divertenti, sono esaltanti. Siamo tutti un po’ folli e ci possiamo divertire facendo i matti. E li che si annida il pericolo, una specie di nuovo fascismo che sorge".
Psicopatologia è un termine ingombrante, dissociamo la violenza della crudeltà dall’iconoclastia del folle. Fatto questo, notiamo come la follia sia sdoganata anche nelle pubblicità, oltre che dal linguaggio del tipo “godo come una pazza”. E allora mi sembra di poter cogliere l’aspetto positivo di tutto questo: si tratta forse dell’irruzione dei segni della realtà profonda, a scapito della nauseante e lacerante coscienza? O addirittura del ritorno alla mania greca, che Socrate considerava divina? O soltanto un nuovo gioco di società, dopo la morte di Dio ?
Verranno fuori Baccanti da questo chiar di luna che sorge ? O la clava del buon senso schiaccerà il petalo di ogni veggenza ? Perché di questo si compone quella che noi chiamiamo follia, uno sguardo altro sulle consuetudini della nostra solitudine.
Nell’Anti - Edipo Deleuze ha mostrato chiaramente che la schizofrenia è l’essenza del capitalismo, non l’ormai fantomatica ragione dei lumi. Noi vogliamo sbriciolare il logos, fine dell’illuminismo, ma il logos poi si ricompatta in nuovi miti, favole per intrattenere il niente. Il folle è colui che inventa nuovi stili di vita, la catatonia è l’essenza pietrificata del nostro grido umano. Riconoscere questo in ogni cellula è alzare un altare alla divinità del niente. Il fascismo che sorge non è per le streghe. E’ puttanopoli elevata al cappio e non sa che farsene del vuoto, che brilla di tutte le promesse di uno spazio immenso.
Qualcuno ha scritto che quando la follia perderà il suo legame con la malattia mentale, si scoprirà che il suo discorso incomprensibile era proprio il fondo dell’essere, e che il balbettio autistico racconta dell’uomo più di quanto faccia il ragionamento più sofisticato. Cosa c’è di più attuale e postmoderno di uno schizofrenico? Non è forse tutta schizoide, abc di Deleuze, la grande letteratura ? Ecco per voi recitato un esempio, tratto da Super Eliogabalo di Alberto Arbasino:
“ Abbiamo deciso di separarci definitivamente dalla scienza … perché abbiamo concluso che se una casa piena di gadgets ci pare ridicola, una nazione piena di macchine ci sprofonda nel tedio, nel fastidio, nel lutto del Tutto … Sull’astronave andateci voi- io no –e i vostri transistor metteteveli tutti nel dietro … tutto tutto lontano dai presuntuosi presepi di quell’Illuminismo che è davvero la minore età dell’uomo qualunque della strada, e insomma bisogna uscirne al più presto, e all’intelletto intollerabile sostituire l’aberrazione e l’immaginazione, la frattura, la scissura, lo scarto rispetto alla norma, l’afasia, la folly, e le Folies. Cioè la parola poetica. Olè”.
Tutto tende al pensiero selvaggio, è la lezione di Levi-Strauss, ecco perché la follia è così vitale e ci assorbe, anche nel vacuo limbo della quotidianità. Passatempo per ricche amebe svuotate, tragica dominazione del sogno sopra ogni realtà, incontrastato regno dell’onnipotenza bambina, lacrima di un universo sconfitto, grande pernacchia al reale e alle sue leggi. Tutto questo e altro ancora, per impollinare d’ombra il pensiero, così mediocre, così pieno di meschino io. Forse non è più tempo per vite assennate.
In Stalker ci sono tre personaggiche definiscono uno spazio esistenziale e culturale, lo scienziato, lo scrittore, e l’idealista, e poi c’è la zona, luogo miracoloso, in cui un ‘invisibile presenzaè in grado di esaudire tutti i desideri . Ma il suo segreto si svela pian piano nella dinamica del film: questa entità sconosciuta,realizzando il tuo desiderio più profondo, non ti reca la felicità, ti permette di conoscere la tua essenza sconosciuta, e così facendo ti uccide. La morale evidente del film è che la felicità non è mai nell’esaudire idesideri dell’Es, ciò è distruttivo, perché la natura umana è fondamentalmente malvagia, lo scrittore così rinuncia a entrare nella stanza dove alberga questa entità , consapevole del fatto che essa gli avrebbe rimandato un’immagine di sé troppo brutalmente vera.
Conoscere se stessi aldilà dell’impalcatura sociale che ci protegge dall’esterno e dall'interno, e che noi potremmo chiamare io, in senso freudiano, è pericoloso e destabilizzante. Si ricade così nella visione cristiana dell’Apocalisse, dei Vangeli, e il film diventa una meditazione sulla felicità, e di come essa sia incompatibile con il desiderio. Lo stalker è una funzione cristologica, ma il suo sogno di salvare fallisce, l’uomo è condannato,come in Kafka, a restare sulla soglia del tempio a lui destinato, attonito, conscio che il proprio desiderio più profondo gli è ignoto, e che realizzarlo non porta felicità, più facilmente la morte. Quindi questa prodigiosa macchina della felicità che lo scienziato vuole distruggere, che lo scrittore teme come specchio della sua depravazione, e che lo stalker idealizza fino probabilmente a identificarla con Dio, è inquietante come l’apparizione del nostro sosia sconosciuto, della nostra nemesi inavvertita.
Hermitage, a mio avviso, si configura come un’assoluta contestazione di qualsiasi velleità di stile di vita. Qui tutto viene da Carmelo Bene spappolato e deriso. Tu credi di vivere? Sei solo un burattino macchinato dalle forze telluriche delle psicosi, come Bene stesso scrive nel romanzo Nostra signora dei Turchi, da significanti dissolti, che sono la forma di un delirio da cui si è parlati, che ci domina, di cui non esiste chiave interpretativa, e se esiste è da gettare, meglio scorgere questo delirante insieme di macchine desideranti inceppate, anzi talmente guaste da girare a vuoto. Così si creano dei vortici, la voce gioca sul superamento, non vuol essere voce di un personaggio, desidera diventare la melodia che sfuggendo al sentimento, al cuore, ci scaglia dritto in un nulla originario, per un’ebbrezza di moltiplicazione, non solo di annientamento. E’ il non umano, ciò che noi non sappiamo di noi stessi, il daimon che ci abita. Così il personaggio di Hermitage mormora acqua, blatera fiamma, si perde in discorsi poetici, che lungi dal mitizzare la sua condizione di esiliato, preparano il terreno per una rivelazione taciuta, sono una specie di farmaco per il male di dire e l’afasia che ne consegue. Vorrei insistere sull’antichità classica che sembra incoronare questo personaggio che pure possiede quella che Cioran chiamava tentazione d’esistere, nonostante l’evidente nichilismo sprigionato anche nelle sue posture; la classicità come condizione di uno che vive fuori dal tempo, dal mondo della produzione e vive una dolcissima e straniante esperienza estetica, nel suo eremo minacciato da voci estranee, che vengono anche da dentro, probabilmente per raggiungere, come in Nostra signora dei turchi, la condizione dell’idiota, del folle, del santo, figure che in Carmelo Bene si intersecano misteriosamente. Ambizione provocatoria questa che io penso nasca dal rifiuto di quell’intelligenza che vuole misurare tutto, capire tutto, e quindi mentire. In questo piccolo film c’è un pensiero che si auto-elide, si dà scacco matto da solo, non vuole emergere come storia, cioè confezione consolatoria ad uso dei consumatori, non di un cinema assoluto, ma delle sue forme più socialmente conformi all’idea che si ha della vita. Questa misteriosa che solo gli artisti come Carmelo Bene mostrano nella loro forma purificata dalla socialità, restituita all’unico stirneriano, che non vuole mondo ed è il gioco. Gli ideali dissolti, le speranze abiurate, un fantasma che si agita sulla scena, stanco della sua anima. E’ davvero l’uomo assurdo, di cui scrive Camus, nella sua forma più pura e interessante. E se la rivelazione che prima definivo taciuta può essere detta per me suonerebbe: ”Bisogna sottrarsi a storia, contesto, principium individuationis, e ritrovare così l’abbandono". Qui, in questo film, il mondo della produzione, del lavoro, del divertimento, è spernacchiato costantemente , in maniera segreta: “Il sessantotto è una bega da cortile, fosse pure la Rivoluzione di Ottobre “, ebbe a dire Carmelo Bene. Tutti gli eventi della storia sono disprezzati, il poeta è estraneo alla Storia, e mi colpisce il coraggio di essere antidemocratici, perché innanzitutto si è diffidato abbastanza di se stessi. E così in questo ‘67 , ecco che vien fuori Hermitage, apologo della solitudine minacciata da interiorità derisoria, misterioso bagliore di un cinema impossibile, anti storico e parodistico. Per me Hermitage è un geniale girare a vuoto, il misterioso apologo di un attore che vorrebbe essere un idiota per ritrovare una fantomatica leggerezza, che acchiappando frasi qua e là come mosche, nel miele di un abbandono che ci circonda tutti, ritrova la banalità assoluta della disfatta, come condizione umana antieroica. Né dei né maestri, né Dio e nemmeno io, “questo vecchio parruccone” lo chiamava Nietzsche, ecco l’assenza, il vuoto, felicità maniaca. Noi non siamo al mondo. C’è anche una straordinaria autodifesa del teatrante puro, insofferente al tutto che lo anima. Ma in questo c’è la terribile comicità di chi sfondato da un riso feroce non ha quasi più viso umano. Per questo si diventa maschere. In ciò la grandezza di Bene, al cui nome , io penso,nonostante tutto l’odio che egli ha saputo garantirsi in vita, l’oblio destinerà qualche sussulto imprevisto.
Ettore Fobo (Milano, 1976) persegue l’attività poetica da oltre trent’anni, ha pubblicato qualche libro di poesia, in Italia e all’estero, vinto diversi premi, collaborato con riviste e blog. Nel febbraio 2020, poco prima della pandemia, scrive il Manifesto di un Movimento: il Mitorealismo del Sottosuolo, di cui è espressione l’antologia collettiva “Fiori del Caos”, da lui curata, uscita per Kipple Officina Libraria nel febbraio 2023. Nel dicembre 2024 la sua raccolta "Sotto una luna in polvere" vince il Premio Internazionale Città di Sarzana. Attualmente sta portando in giro il reading "Le poesie hanno i lupi dentro" - atti e incantesimi di poesia mitorealista":