Una poesia di Piera Oppezzo

sabato 31 dicembre 2016





Vivente e il suo bagaglio

Vivente vorrebbe. Esplorare il mondo che
ha addosso. Cos’è cos’è il mondo.
Annuncio di futuro che si avventa? su spirali
di biografie a infiniti giri? sull’indietro?

Vivente si stordisce. La domanda è troppo larga.
Attenzione. Un po’ e un po’  e copre il presente.
Che buio. Che nero chiuso. Che eclissi.
Musicare con risate la minaccia.

E lenti lenti incamminarsi fuori dal tragico?
Ma lo schermo dell’adesso ha poca luce.
Tutto chiazzato di. Impossibile restare illesi
quando ridere non disturba i fatti. Tuttavia

si può arrischiare qualche passo.
Vivente si stringe addosso uno straccio di bagaglio ameno
che c’è e non c’è. Vorrebbe tentare l’allegria.
Anche se quasi niente viene incontro.
***
poesia tratta da “ Una lucida disperazione”- Piera Oppezzo – Interlinea - 2016

Gitanjali - Rabindranath Tagore

sabato 24 dicembre 2016





Leggo Gitanjali, l’opera che fece conoscere il grande poeta indiano Rabindranath Tagore  all’Occidente e mi accorgo  di quanto il tempo trascorso incida sulla percezione dei versi di un poeta. Sono passati,  infatti,  più di cento anni da quando l’opera fu scritta e se da un lato si sentono tutti sul piano  dei contenuti, dall’altro data l’atemporalità della parola poetica potrebbero essere stati scritti oggi e in qualsiasi tempo, da un mistico. Nel 1913 anno della pubblicazione l’entusiasmo della élite culturale fu enorme e valse a questo poeta il Premio Nobel.

Rilette oggi le sue poesie religiose inizialmente respingono per quel tanto di distante e datato che esprimono, soprattutto  per un animo tendenzialmente ateo come il mio. Il tema principale, infatti,  è la ricerca di Dio, ma non è un Dio metafisico, intellettuale,  un concetto ma una presenza fisica  cui si anela. Si anela al suo incontro, al suo contatto, non è un Dio astratto ma un “viandante” che può passare accanto alla propria capanna, un “assetato” che chiede dell’acqua, uno sfavillante re con il suo cocchio maestoso, un mendicante. Quanto di allegorico ci sia in queste figure non è dato sapere, Tagore pare credere con tutte le sue forze alla possibilità di un’epifania del sacro in forma umana. Il suo Signore  è a un passo da lui e insieme è lontano fra le stelle. C’è dell’innocenza in questa visione,  quasi della puerilità,  ma si tratta di un altro continente e di un’altra epoca, tutto va contestualizzato. Certo per un animo disincantato e smaliziato alcune di queste poesie possono parere favole ingenue.

Leggo Gitanjali nell’edizione Newton Compton, tradotta da Girolamo Mancuso e curata da Alessandro Bausani, edita nel maggio 2007. Non parlerò anche dell’altra raccolta contenuta nel libro,  Il Giardiniere per non appesantire questo articolo. Mi limito a dire che Il Giardiniere è  opera più varia, ricca e affascinante, ruota intorno al tema dell’amore, sviluppato con grazia e passione.

Tornando a Gitanjali, in quest’opera Dio è l’assoluto protagonista. È un Dio benevolo che, scrive Tagore, rivolgendosi a lui, ha fatto prigioniero il suo cuore, “nelle infinite reti/ della tua musica”, promettendo al poeta  e indicandogli la via verso “una calma straripante e silenziosa”. Ma è un Dio che si trova anche negli atti più umili della vita, arare la terra, spaccare pietre, “nel lavoro  e nel sudore della fronte. “

Si tratta di una poesia che,  più che recitata e letta, è cantata, spesso con accompagnamento musicale; la traduzione che occidentalizza le melodie in concettualizzazioni è più che mai un tradimento.

C’è della monotonia in questi versi che vanno sempre nella stessa direzione e insistono sulle stesse note, persa la ricchezza espressiva dell’originale, duole ammettere che Tagore pare oggi un poeta fuori dal tempo,  forse addirittura antiquato -  almeno in questa raccolta (perché già ne Il Giardiniere, come detto,  questa impressione è fugata) - per noi occidentali avvinti alle spirali del materialismo, ma probabilmente anche per gli indiani che sulla strada di questo materialismo si sono da tempo incamminati.

Cosa rimane di questo libro allora, oggi? Rimane l’incrollabile fede di Tagore di incontrare come tutti i mistici il suo amato Dio,  colui che ha impresso” il segno dell’eternità/ su molti istanti fugaci della mia vita”, rimangono alcune immagini terse come questa  Il mare di silenzio del mattino/ s’infranse in un mormorio/ di canti d’uccelli. “ , rimane la consapevolezza estatica che questa gioia mistica “non conosce parole”, che i mondi sono infiniti e sconfinati. C’è qualcosa di assolutamente delizioso nella sua visione della natura colma di una sacralità oggi per noi pressoché  sconosciuta.

Infine,  mi piace ricordare Tagore con i versi che amai in adolescenza,  che non appartengono  a questa opera, la cui piacevolezza è comunque come quella dell’acqua di sorgente, semplice e fresca,  e che forse solo il nostro occhio inquinato da troppe immagini chiassose e discordanti può corrompere.

Quelli a cui mi riferivo poc’anzi sono versi semplici eppure straordinari,  fra i primi che ho imparato a memoria:

“Il loto fiorisce in acque profonde.
Chi può coglierlo?
Sotto i nostri piedi l’erba umile
 è sempre al nostro servizio.”

Auto - intervista con domande implicite - parte prima

sabato 17 dicembre 2016





“Penso che l’intervista sia una forma d’arte. E che l’autointervista sia l’essenza della creatività.”
 Jim Morrison

Penso che Diario di Casoli, aldilà del dato biografico di cronaca o finta cronaca di una mia vacanza in Toscana,   sia  soprattutto un’avventura dentro il mistero di scrivere e quindi della parola  e poi dentro  il mistero dell’altrove.  Un poemetto apparentemente incentrato tutto su un luogo, Casoli, che si trova in provincia di Lucca, che per effetto dell’immaginazione diventa un luogo mitico. Poiché tutto è già immediatamente ricordo nel momento stesso in cui si compie, tutto, come ha notato Tonelli, eternamente accade in un unico istante; tutto è già mito, racconto, e a dominarci è il desiderio dell’altrove, luogo altro rispetto alla quotidianità cittadina. Anche la memoria è un altrove, rispetto all’azione perennemente volta al presente, all’attuale, banalmente alle cose da fare.  Anche il sogno che ci fa da sfondo è un altrove.  Ciascun luogo è il sogno e il segno di un luogo mitico, mentale.

Ecco, io mi sento sempre un poeta onirico, notturno, che, però, arde dal desiderio di cantare la luce. L’ambientazione montana (si tratta di una mistificazione in realtà, si dovrebbe dire che Casoli è in collina ma io l’ho trasformato in luogo montano) l’ho sentita e l’ho vissuta così, come prodigio di luce e ombra, che si disputano la scena nel loro quotidiano alternarsi. Nel mio poema spero che questo prodigioso alternarsi si veda anzi, si senta.

Mia ambizione era far apparire queste zone della Toscana, la valle di Lima, soprattutto ma anche la Garfagnana, come luoghi esotici, realmente altri. Il mio vuol essere un poema luminoso che non dimentica che la poesia è fondamentalmente tenebra o meglio penombra, la penombra boschiva,  in questo caso. Ecco il vero cuore dell’altrove, l’ animalesca alterità del bosco, della civetta, della volpe, del cervo,  del cinghiale etc. 

“La vera vita è altrove.” Così Rimbaud potrebbe sigillare il poema con questo suo verso. Casoli diventa altrove dove la vera vita si può manifestare ma ecco… la vera vita non può essere raccontata, così Tonelli parla giustamente per il mio poema di viaggio verso “l’impossibilità della parola”. Infatti, la parola è insufficiente a svelare il mistero dell’altrove al tempo stesso essa è la soglia che ci permette di accedere a un’epifania del sacro.  La poesia si toglie la maschera di costrutto intellettuale e si rivela religiosa, ma in maniera primitiva e forse caotica. Poesia come religione del silenzio. Musica che onora il silenzio.

Si può parlare come fa Goethe, e ci ricorda Tonelli, di “regno delle madri”, con tutta l’ambiguità e l’ambivalenza della madre, compresa madre Terra, espressione ormai logora per via di certa New Age, espressione ormai caduta nel discredito della massificazione, per via del fatto che anche il “senso della terra” di Nietzsche diventa banale come una musichetta troppo ascoltata, se diventa slogan.

Nel mio poema c’è il sogno che la poesia si riveli creatrice di miti in grado di riconciliarci con la Natura, mito archetipico fondante, celebrato in questi versi, ma che si ha la sensazione, penso, di   una natura   lunare, sfuggente, ambigua, acquatica. Non ti ama, ti assorbe, duplicità della madre. E infine tutto questo è un sogno: madre natura, la valle, lo stesso paese si rivela essere Hotel Artaud, cioè un luogo magico, sì ma in fondo folle e assurdo, come la vita e i suoi simboli. Splendidamente assurdo, potrei osare di dire, se penso a Camus. La vita come ridda di esperienze assurde, da vivere fino in fondo.   Penso anche all’amor fati nietzschiano, che, però, diventa più o meno “La tua  vita è una gabbia;  ama le tue sbarre”,  nell’interpretazione critica di Adorno. Mi ha fatto molto piacere che Tonelli abbia citato quest’ultimo nella sua introduzione. Ma sto divagando.

Diario di Casoli è un titolo che si è imposto da sé. Scrivevo su un quaderno queste poesie e dopo una manciata di esse, avevo già in mente dove volevo andare a parare, cioè  verso il regno del grande Boh, naturalmente. Sì perché io scrivo anche per essere stupito e in qualche caso lo sono stato. Mi capita a volte di sognare dei versi, più raramente un’intera poesia.   Hotel Artaud all’alba, per esempio, è proprio il residuato di un sogno. È stata quasi interamente recuperata al risveglio e ricostruita.  Hotel Artaud è il titolo di una poesia di Milo De Angelis, poeta che leggevo in quel periodo.  Leggevo anche Yeats, che viene citato in esergo a una poesia. È Yeats a chiamare il suo secolo, il Novecento, “secolo consunto”. Ho avvertito anche piuttosto intensamente la presenza di Pascoli che è vissuto lì vicino, per la precisione a Castelvecchio che ora porta il suo nome, Castelvecchio – Pascoli, e dove la sua casa è stata trasformata in museo. La visita a questo museo è un altro degli eventi clou di quella vacanza in Garfagnana e nella provincia lucchese.  A questa aggiungerei la visita al castello archeo park di Verrucole. Straordinario e divertente viaggio storico nel medioevo,  non privo di ironia oltretutto,   nella ricostruzione narrativa di quel periodo storico. Un vero spasso per un bambino,  la gita ideale per una scolaresca.

Fra i modelli non posso non citare Machado che canta i monti, i fiumi, i limoneti, gli ulivi della Castiglia oppure Odisseo Elitis, poeta luminosissimo che canta i mari della Grecia. Poeti della luce, mi viene da pensare. La mia speranza, infatti, era graffiare il lettore con uno spettacolo di luce.
Ma in Diario di Casoli c’è molto buio. Rimango un poeta notturno, lo yin prevale sullo yang, il femminile  sul maschile, la fragilità della parola poetica sullo  strapotere onnipotente della Verità. La poesia è un pensiero debole, fragile. Con Ceronetti, però, bisogna dire: ”Nulla, nessuna forza, può rompere una fragilità infinita.”

Nel lucchese ho letto una frattura fra la Garfagnana e il resto della provincia che mi è stato spiegato essere nel Medioevo il cosiddetto “contado lucchese”, cui appartiene Casoli che è una piccola frazione di Bagni di Lucca, un po’ abbarbicata in collina ma in maniera timida, riservata, un po’ chiusa, come mi è parsa quella terra e quella gente. Un po’ diversa m’è parsa la Garfagnana sia come paesaggio sia come persone, forse più gioviali, con la loro divertita ironia che non arriva al sarcasmo per una specie di educazione. Ma aldilà di queste differenze, magari immaginarie,  sebbene divisa, tutta d’un pezzo m’è parsa l’anima lucchese, in definitiva, appunto,  colorata d’ ironia, con una sua saggezza come di chi guarda nella vita la  buffoneria universale, il vano e non ne soffre perché sa riderne, o forse la sua sofferenza è affilata come una risata.

Secolo consunto” è anche il nostro ma Diario di Casoli è il tentativo di far uscire il lettore dall’oppressione della contemporaneità, di farlo viaggiare verso un’alterità che è anche il recupero di una dimensione primitiva, ancestrale, naturale, fondante. È il discorso sotterraneo della nostra epoca tutta, se ci pensate. In questo caso io, come spesso i poeti, mi faccio interprete e cantore di questo desiderio collettivo di palingenesi naturale. Nonostante l’ambiguità di fondo la mia è, in questo caso, poesia che celebra la terra. È stato Zanzotto, infatti, a dirci che il poeta sogna soprattutto di elogiare, celebrare. Spero di essere riuscito nell’intento.

Con Diario di Casoli volevo realizzare qualcosa che fosse luminoso per rompere con la tenebra dei miei libri precedenti, con il velato cupio dissolvi dionisiaco che forse li caratterizzava per cui un lettore un po’ disattento poteva rimproverarmi, ingiustamente, io credo,  perché nelle mie poesie anche la “notte nera dell’anima” erompe come una rivelazione carica di mistero.  O almeno così penso. Sicuramente volevo fare un libro luminoso, e come tale l’ho vissuto. Rileggendolo più e più volte in realtà benché la luce abbia un peso specifico notevole, quella della luminosità è una falsa pista che io inconsciamente ho percorso. È una specie di auto inganno che inganna anche il lettore. Un’auto rappresentazione che dice qualcosa della verità ma ne nasconde l’essenziale. Diario di Casoli è ancora un libro in cui il buio, il silenzio, o addirittura appunto “l’impossibilità della parola”, l’impossibilità per la poesia di dire la verità sul mondo, sono protagonisti della scena. Sono, però, devoto a quel frammento di luce di cui il “Diario” si fa portavoce.

Bisogna rompere con le opere precedenti tanto più la rottura è evidente tanto più vuol dire che si è lavorato bene su se stessi.

Ho voluto dare una veste bucolica al mio pensiero, per renderlo meno inquietante, convinto che uno dei compiti della poesia sia quello di esaltare, celebrare, elogiare, anche la tristezza, persino la sofferenza,  addirittura la morte, in una logica davvero aldilà del bene e del male.  Insomma, la poesia deve togliere senso alla vita, il senso codificato, fossilizzato,  sterile per crearseli lei infiniti, sensi vaganti, immagini, visioni, prospettive. La poesia è sempre duplice, come minimo, ambigua, è sia  la ferita sia   il coltello che l’ha inferta, il bacio che forse è anche un morso,  la carezza e la percossa, l’infinito e il vuoto, ma soprattutto, mi piace dire adesso,  il vuoto infinito. Ciò che sconcertava Pascal, voglio dire,  il silenzio stellare. La poesia è terribile, ci rivela la vanità delle nostre azioni, il nulla di cui siamo fatti, ci mette alle spalle al muro e pretende la nostra anima, tutta. Preferisce il nulla del disinteresse a un’attenzione parziale, pericolante, svogliata.

Fine prima parte
 Leggi qui la seconda parte.

Notizie del mondo - Philip Levine

sabato 10 dicembre 2016





La poesia che apre questa raccolta di Philip Levine, l’ultima prima della morte avvenuta nel 2015, Notizie del mondo, edita nella collana “Lo Specchio” da Mondadori nella traduzione di Giuseppe Strazzeri,  è straordinaria ed è probabilmente la più bella  e significativa dell’intero volume. S’intitola La nostra valle ed è un commosso omaggio alla montagna, che si trova nella prossimità di un oceano, che rimane nascosto, lontano, irraggiungibile, qualcosa di “immane”, “irrazionale”, “potente”, che qualche volta lascia un ricordo di sé nell’odore di salsedine appena accennato. Oceano per cui nemmeno le montagne, che sanno tutto, hanno un nome. È fondamentalmente una poesia sul senso di estraneità delle cose più familiari, “la nostra vita”, “la casa”, sul senso di venerazione che l’imponenza della montagna, con il suo mistero, con il suo silenzio che “in autunno cresce al cadere della neve”, causa nell’animo del poeta.

 È un ingresso stupefacente in un libro in cui accanto a poesie aneddotiche e autobiografiche, accanto a quadri di vita quotidiana, convivono prose non sempre convincenti. Ecco, la sezione dedicata alle prose è la più debole dell’intera raccolta, abbastanza scialba e incolore, diminuisce il valore del libro, che si configura dunque come prosimetro. Notizie del mondo è comunque un interessante libro di poesia, solida, senza tanti fronzoli e voli pindarici, realistica, terrestre, quotidiana, ancorata alla terra, al valore del lavoro, alla flora e alla fauna dei boschi, dove spira quel senso di americanità profonda.

Altri luoghi sono evocati, Barcellona, Lisbona, Cuba, ma non colpiscono con la vividezza dei panorami statunitensi, vero humus di questo poeta giunto al canto del cigno, la cui opera precedente aveva messo al centro spesso i problemi e le vicissitudini della working class americana, specie quella di Detroit dove nacque nel 1928.  Opera che gli ha fruttato importanti riconoscimenti come il Pulitzer nel 1995. È stato nominato anche Poeta Laureato degli Stati Uniti nel 2011.

Ragazzini che giocano a pescare gamberi prima che “l’oscurità bisbigli l’ultima parola”, la storia di una famiglia prende forma dalla descrizione della loro casa, un commovente ricordo del nonno partito per mare e mai più tornato, ricordi dei caduti della seconda guerra mondiale, un amore  che sembra nascere nel modo più banale e involontario, una fratellanza tenuta insieme da ciò che non si può condividere; tutte queste cose si mescolano in un affresco dove la memoria ha grande rilevanza e il passato sembra avere a che fare con uno “schema che include tutto quanto”.

In quella che è la prosa migliore intitolata Isole, i rumori del porto di New York con i suoi traghetti, i suoi rimorchiatori, le sue sirene, i suoi camion, i suoi martelli pneumatici, finiscono per essere una musica che fa da “sfondo a una grande epica americana” che in fin dei conti è un’epica della quotidianità, dove il ruolo di atto mitico fondante è attribuito al lavoro.

Il tono è quasi sempre narrativo e  il cuore di questa poesia sembra essere la denuncia,  che mai assume toni apocalittici  o enfatici,  della sostanziale assurdità dell’esistenza. Ecco, Levine è un poeta che relega l’enfasi in cantina, il suo sguardo pacato, però,  sa essere corrosivo, e la sua scrittura comunque è più forte dell’assurdo perché lo riveste di abiti familiari. È la nostra condizione umana, che egli racconta, con levità, e anche con ironia, come nella poesia Dell’amore e altri disastri, dove un incontro tra un uomo e una donna è magistralmente narrato dal punto di vista di lui che, se non trova lei particolarmente attraente, è però tentato che la loro serata finisca “troppo tardi”.

News of the world è il titolo originale della raccolta,  uscita negli Stati Uniti nel 2009 ed è alla fine un libro di ricordi e le notizie del mondo sembrano essere i nudi fatti davanti all’inconsistenza della memoria che li rammemora. Ma questa inconsistenza sembra minare questo sforzo e ricondurre tutto alla labilità di un sogno, sebbene Levine si preoccupi sempre di essere aderente ai fatti e oggettivo e non sia per nulla un poeta onirico, c’è una forza che gli sfugge e lo sovrasta: quella dell’oblio. Ma cos’è la letteratura, e in particolare la poesia,  se non lotta contro la perdita della memoria? Lotta destinata alla sconfitta perché come scrisse Leopardi: ”Tutto al mondo passa/ E quasi orma non lascia.” In quel “quasi” c’è tutta la tenacia di strappare qualche brandello di tempo alle potenze della dissipazione. Opera che Levine compie, pur con evidente scetticismo.