Ernesto- Umberto Saba

sabato 15 maggio 2010


Con questo romanzo Saba centra quella zona in cui innocenza, erotismo, e perfino accenni, in realtà timidi, di pornografia, si fondono in un curioso alterco fra convenienza sociale e desiderio, quella zona della vita in cui la leggerezza dell’adolescenza può scoprirsi anche brutale, ma solo per arrivare senza mezzi termini al “cuore delle cose, al centro arroventato della vita”.

Così l’iniziazione all’amore omosessuale di un adolescente con un trentenne si svolge senza ipocrisie, in un racconto a volte crudo, per l’epoca in cui è stato scritto, gli anni cinquanta del secolo scorso, ma proprio per questo non privo della luce a volte dolce, a volte gelida, della poesia.

Siamo nella Trieste di fine Ottocento, fra braccianti ubriaconi, padroni avari, mogli abbandonate, ed è in questa città che Saba mischia il dialetto friulano con un italiano classicheggiante, semplice, volutamente povero e antibarocco, oggi diremmo minimalista, scrutando questa gioventù col rimpianto del vecchio che vuole”dipingere con tranquilla innocenza il mondo meraviglioso”. Mondo meraviglioso in cui però l’omosessualità è tabù, così la relazione fra Ernesto, impiegato sedicenne addetto alla fatturazione, e il bracciante senza nome avviene nel segreto, un segreto che getta nel timore il secondo che subito si rende conto di avere a che fare con un piccolo despota, innocente della sua crudeltà infantile, di cui anche la madre e l’odiato”paron Wilder” fanno le spese. Ma Ernesto è un ragazzino in cerca di identità, le cui piccole crudeltà appaiono sempre in quella luce di incantesimo che così facilmente si attribuisce all’adolescenza.

La Trieste di Saba è una città mitica ricostruita nei suoi dettagli emotivi come un luogo di sogno in cui la desolazione può anche arrendersi all’incantesimo della nostalgia, e l’amore sgorgare, pur nella banalità a volte claustrofobica dei rapporti umani. Perché questi personaggi in fondo sono semplici, la loro stessa schietta esistenza è mitica, perché impressa sulla carne del poeta che la sogna, la rievoca, tratteggiando questa educazione sentimentale sui generis, in cui il sesso, consumato in fretta e di nascosto, è soprattutto raccontato nella sua naturalità, miracolosamente spoglia di ogni sottinteso di peccato; la morbosità, infatti, che così facilmente viene ipocritamente associata all’amore omosessuale, qui è completamente assente. Così quelli che Elsa Morante chiama “i mostri della superstizione comune”si dileguano per lasciare spazio a un “semplice incontro umano”. Non c’è nulla di corrotto in questi personaggi, sebbene talvolta affiori come un’eco di sadismo, la loro vicenda amorosa è vissuta da Ernesto con quel candore di chi non si dà pena per il futuro, solo il bracciante più maturo prova quel senso di colpa così legato alla condizione di amori giocoforza clandestini.

Uno dei temi che attraversano il romanzo in maniera sfumata è la lotta di classe, perché Ernesto si professa socialista, legge giornali di sinistra, si sente “sfruttato”, ha in odio i padroni, in questo senso è osteggiato dalla famiglia piccolo borghese, che molto prosaicamente pensa che i socialisti siano destinati a divenire, nella vita, dei falliti, perché non si rassegnano borghesemente e cristianamente allo status quo. Si tratta di una presa di coscienza del protagonista o di una infatuazione giovanile? Saba gioca con questa ambiguità, per meglio rendere il travaglio dell’adolescenza, la sua affascinate indeterminazione.

Così Saba scrive una sorta di romanzo di formazione, delineando con sicurezza il difficile mondo di un adolescente, scisso fra un lavoro monotono e sogni di gloria, che lentamente matura la sua decisone di abbandonare l’uomo e il lavoro da impiegato che lo lega a lui.

Ernesto è un piccolo gioiello di letteratura, composto fra le tregue del male di vivere che afflisse Saba, un romanzo in cui si respira il senso di un’avventura sacra, la scoperta del sesso, e al tempo stesso la commozione di un vecchio letterato davanti alle dinamiche dell’adolescenza, raccontata con umanità e con comprensione; è un romanzo semplice e schietto, in cui si riverbera la sottile malinconia delle cose che non sono più e non potranno più essere.


Ernesto- Umberto Saba- Einaudi

Concetti Spaziali, Oltre- A.V

domenica 9 maggio 2010


“mutilati dilaniati disgregati/colpiti distrutti disintegrati/- resti d’uomo e tecnologia-/consumati smussati bruciati/ alterati smarriti perversi/resti d’uomo e chimica.”

 Gianluca Cremoni

Ecco una bella antologia di poesia contemporanea, a cura di Alex Tonelli, legata un movimento, il Connettivismo, che fa delle interconnessioni fra saperi diversi il suo tratto distintivo. Abbiamo così uno spaccato in versi di quella che è una delle realtà più vive della fantascienza italiana, che cerca nel buio dell’attuale stagione culturale il faticoso bagliore di una rinascita. Porsi all’avanguardia è sempre pericoloso perché, come ci ricorda Giuseppe Pontiggia, il termine avanguardia ha un’origine militare, così uno dei poeti più interessanti della raccolta, Simone Conti, immagina un’apocalittica  prima guerra  mondilale, in una narrazione poetica che si rifà al genere steampunk,  in un mondo  in cui le macchine hanno acquisito autocoscienza e rivaleggiano con gli umani. Questi uomini del futuro sono smarriti”nelle nebbie del tempo”e ciò che il loro intelletto “ha costruito sarà eliminato” perché rispetto agli automi non sono nient’altro che “sterili pupazzi di paglia”. E’ la manifestazione definitiva della paura tutta contemporanea che la tecnica si ritorca contro l’uomo stesso, così in queste poesie il futuro non è il luogo di una palingenesi, ma l’ambigua dimensione in cui gli incubi prendono forma.
Gianluca Cremoni può così immaginare un mondo in cui “mutanti fuggiaschi e androidi latitanti” in sobborghi spaventosi scorrazzano fra “resti d’uomo e tecnologia”. Tecnologia che si configura a volte come un “ tetro teatro” dove l’uomo ridotto a “pseudo-nulla” attende la sua estinzione o la sua fusione con la macchina. In alcuni versi la nostalgia di un “Dio pulsante” combatte con la certezza dell’umana nullità, dove tutto è “sterco e tortura” una dimensione trascendentale viene evocata in versi trascinanti e ritmati. Big Bang, Big Crunch, entropia, sono le ossessioni moderne e come tali in queste poesie emergono, con tutti i loro sottintesi metafisici.

Per Simone Conti “Corpi forgiati in rugginosi metalli” di androidi guerrieri ci ricordano”la fragilità di ciò che siamo”, le “evanescenti chimere” di cui è fatta la nostra mente si sfaldano e il futuro appartiene a “inumani aeronauti../ insensibili al dolore che regna quaggiù.”

Uno dei temi principali è proprio questa tensione all’Inumano, al post-umano, così Sandro Battisti può immaginare un “continuum” in cui “biologia e misticismo” si fondono, “tra le urla”, o ancora la terribile”sublimazione della carne nel silicio”. Metafisica e scienza celebrano nei versi di questi poeti le loro nozze: un misterioso” nulla senziente viene ottenuto dalla” scarnificazione dello spirito”o ancora “un’estasi nera viene evocata. 

Nei versi di Giovanni De Matteo “frammenti di coscienza/a galla nel vuoto...” e una dilagante stanchezza tutta umana sembrano preludere a qualche rigenerazione apocalittica, Paolo Ferrante sente la realtà come un luogo di reclusione in cui il sospiro di nostalgia può facilmente divenire una bestemmia e l’anima è ceduta “in eredità alla luna”. Domenico Mastrapasqua sogna invece un eden “fluorescente, nero, dissacrante” e multi versi solitari “ in cui sfuggire alla banalità del quotidiano, alla solitudine della coscienza. Sono temi cari a questi autori, che con fatica accettano che “l’arido vero” ponga sui loro slanci il velo opaco della mediocrità; essi cercano di reinventare la realtà linguisticamente, operando sulla tela bianca della pagina per dipingere anche graficamente il loro anelito all’impossibile, a quello che Tonelli chiama L’Oltre, come fa Marco Raimondo, per esempio, sulle tracce dei futuristi, dissodando il linguaggio dall’interno per far emergere quel tanto di indecifrabile e misterioso che la lingua corrente tende a fossilizzare nel luogo comune.

 Abbiamo così nelle poesie migliori di questa raccolta un linguaggio plastico, ricco, tumultuoso, con neologismi o parole prese dal linguaggio della chimica, della fisica, della biologia. La loro operazione è condotta con coerenza, solo a volte è un po’ ingenua e si nota una certa prosopopea, credo legata alla loro giovane età (diversi di loro hanno meno di trent’anni).

Infatti, Il rischio, utilizzando una terminologia così specialistica, è quello di risultare manieristici, ma anche nei versi più volontariamente esoterici come quelli di Marco Moretti una tensione musicale è presente a scongiurare la caduta nel Kitsch autoreferenziale o in un gergo ingenuamente solipsistico. Ecco se c’è un limite è nella fin troppo ostentata maniera da happy few, nella a volte fastidiosa tentazione di descriversi come un’elite che possegga la chiave di volta del futuro.
E’ chiaro che tecnologia e magia, esoterismo e fisica quantistica, trovano in queste poesie le loro connessioni segrete, e bisogna dire che è un mondo affascinante e segreto quello che interessa questi poeti, la cui eretica immaginazione “sfreccia libera fra intermundia d’orrori” e una dimensione superumana permette per esempio a Moretti di identificarsi con un “noumeno” sganciato dalle leggi della biologia. Il sogno di andare aldilà della carne è chiaramente di origine gnostica, laddove al posto degli angeli abbiamo androidi, al posto degli eoni quasar e buchi neri. Dunque l’antologia mostra come la scienza abbia ormai sostituito la religione, conservandone però tutte le chimere, e alla poesia viene affidato il difficile compito di rendere attuali e contemporanei i sogni che sono alla base della nostra cultura; come scrive Christian Ferranti, ancora una volta è il “necessario dolore della redenzione” che viene cercato dentro il linguaggio, non essendo possibile un aldilà della conoscenza, che prescinda dalla sua espressione semantica. Marco Milani è il poeta che più si distacca dagli altri per i temi, ricreando una quotidianità trasfigurata in cui la “spontaneità bambina” genera “passioni astratte”, le meteore cercano forse la loro anima gemella e il poeta col suo sapere è in grado di svelare”tutti gli enigmi/delle piramidi”.

Data la giovane età della maggior parte di questi poeti, li attendiamo al varco di una prossima pubblicazione in cui mi auguro i temi oggi incandescenti possano sempre più stemperarsi nel freddo e oscuro “algoritmo” della poesia, ma come debutto è senz’altro interessante e presenta alla nostra attenzione un movimento che ha la possibilità di darci qualche brivido di ignoto.
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Genealogia della morale- Friedrich Nietzsche

sabato 1 maggio 2010


Con Nietzsche si assiste a un vero capovolgimento di prospettive, con lui l’ermeneutica si sbarazza dei suoi pregiudizi, delle sue fette di salame sugli occhi e un nuovo sguardo sull’antichità emerge, fiero della sua lungimiranza, della sua capacità di frantumare, della sua ambigua lucidità.

In questo testo il filosofo tedesco ha bene in mente i suoi obiettivi: tracciare la storia della morale, analizzare da psicologo del profondo il sorgere dei concetti di buono e malvagio, della colpa e della pena, l’affermarsi dell’ideale ascetico. Di contro a coloro che vedono nel buono ciò che è considerato naturalmente utile per l’avvenire, Nietzsche vede nella storia una lotta fra volontà di potenza per la sua definizione, l’aristocratica “morale dei signori”, fondata sulla tracotanza del comando, sull’aggressività di una crudele ebbrezza, e la plebea “morale del gregge”, unicamente fondata sul “ressentiment “verso i potenti, sulla negazione, sulla reazione. Questo tipo d’uomo gregario non è capace di dire sì alla vita, ha bisogno di qualcosa di estraneo cui opporsi, si esprime unicamente nel no.

Nel corso della storia c’è stato un terribile e fatale rivolgimento, traverso il quale i signori sono stati sconfitti e si è affermata invece la “morale del gregge” il quale naturalmente tende a considerare malvagio ciò che lo soverchia, quelle nature forti, libere, feroci, destinate al comando. Specialmente attraverso il cristianesimo gli infelici, gli scontenti, hanno divinizzato se stessi, ponendosi come i veri soggetti della storia, condannando i signori, la loro capacità di donare, superare se stessi, la loro incapacità di rancore, la loro magnanimità. I nuovi valori che nascono da questo “ressentiment”, da questa rivolta, sono la compassione, l’uguaglianza di tutti davanti a Dio, la rassegnazione al proprio destino, la democrazia, ed è il prete la nuova figura che dà al risentimento una direzione e uno scopo, esso allora si rivolge contro il sé e l’impotente, il malato, diventa colpevole, diventa peccatore. Sorge allora quella che Nietzsche chiama “cattiva coscienza”: gli istinti ferini, animali, vitali, la vita stessa, si inabissano nella colpa, e allora la venefica influenza di questi “malriusciti” infetta la terra, che nei secoli assume sempre più l’aria di un ospedale e di un manicomio. Alla base c’è una vendetta che però si maschera da “trionfo della giustizia”, la democrazia sarebbe allora la conclusione inevitabile di un “rammollimento” e l’uomo moderno il malato per eccellenza. Perché in sentimenti considerati più nobili nascono nel fondo oscuro di questo risentimento, sono il suo effetto.

La pena e la colpa sono concetti che faticosamente si sono tracciati una strada nel sangue, la memoria stessa viene creata incidendosi letteralmente sulla carne dell’umano, attraverso torture, scuoiamenti, martiri di ogni genere, è stato sancito ciò che è buono e solo attraverso il dolore e il sangue ciò è emerso nella coscienza popolare. Affinché si creasse memoria, bisognava vincere la naturale tendenza all’oblio e solo un sistema della crudeltà poteva riuscirci.

Nel rapporto creditore- debitore si sviluppa il concetto di pena, inizialmente chi aveva commesso una mancanza nei confronti della società doveva ripagarla in qualche modo con la sofferenza, che si esprimeva nella famosa formula del Codice di Hammurabi, ”occhio per occhio, dente per dente”, successivamente la colpa si spiritualizza, sorge l’idea del pentimento e viene inventato Dio, questo enorme creditore e paradossalmente il sangue di suo figlio viene utilizzato per saldare il debito. Ma così l’uomo al cospetto di Dio si trova sempre più disprezzabile, vien colto dalla nausea di sé, si percepisce come un dannato, rinchiuso nella coscienza a fare i conti con la propria travolgente indegnità. Essenzialmente col pensiero di Dio tutto il valore si sposta dall’uomo al suo creatore, e il primo risulta così spogliato totalmente della sua potenza, radicandosi nell’assurda “volontà di pensarsi castigato”.

Contro tutta questa degenerazione degli “ideali aristocratici”, si alza la voce di Nietzsche che riconosce nell’ascetismo nient’altro un trucco traverso cui alla sofferenza umana viene dato un senso. Ma questo senso affonda prosaicamente in una negazione della vita, la quale per Nietzsche si adempie essenzialmente”offendendo, facendo violenza, sfruttando, annientando”, così considerare uguale ogni volontà, prescindendo dalla gerarchia implacabile della forza, sarebbe sostanzialmente “un principio ostile alla vita”.

Ecco allora la terribile conclusione del saggio, che nella sua efficacia non ha eguali e tutt’oggi risuona nella sua potenza di sintesi:

“Non ci si può assolutamente nascondere che cosa propriamente esprime quel volere, che sulla base dell’ideale ascetico ha preso il suo indirizzo: questo odio contro l’umano, più ancora contro il ferino, più ancora contro il corporeo, questa ripugnanza ai sensi, alla ragione stessa, il timore della felicità e della bellezza, questo desiderio di evadere da tutto ciò che è apparenza, trasmutamento, divenire, morte, desiderio, dal desiderare stesso - tutto ciò significa, si osi rendercene conto, una volontà del nulla, una rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è e resta una volontà !... E per ripetere in conclusione quel che dissi all’inizio: l’uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere”.

Nietzsche legge la storia in un senso antitetico a quello comune, come l’affermazione progressiva di una vita malata, mutilata, ridotta ai minimi termini, e il nichilismo, parola chiave della sua filosofia, trionfa insieme ai deboli, ai malriusciti, che hanno edificato un macchinario di valori tesi a distruggere ogni forma di vita superiore e attiva; in questo senso, a dispetto di ciò che talvolta si dice, superando la concezione darwinista, per cui risuona ancora misterioso il suo invito: “Bisogna sempre difendere i forti dai deboli”.