Estratti del corpo – Bernard Noël

venerdì 27 giugno 2014





In poesia è sempre difficile far convivere l’astratto del pensiero e della visione con la concretezza della carne e  delle viscere. In questa ardua e affascinante  impresa si è gettato Bernard Noël, quando sul finire degli anni cinquanta, per esattezza nel 1958, quando aveva 28 anni,  pubblicò un poema in prosa - o prosimetro,  perché inizia con una lirica tagliente come un rasoio -  intitolato Estratti del corpo, uno dei suoi primi libri, che leggo oggi nella traduzione  di Donatella Bisutti, edita da Mondadori nell’ormai lontano 2001. 

La prima impressione è che il poeta francese aggredisca la pagina e la lingua francese un po’ sulle orme della scrittura folle e carnale di un genio quale Antonin Artaud,  riecheggiando l’impeto viscerale con cui quest’ultimo ha saputo raccontare il disagio stesso della carne. Il poema è proprio un viaggio dentro il corpo, una sinfonia carnale, inquietante e  misteriosa, dove la carnalità è raccontata senza spiritualizzazioni, senza veli, come un’esperienza altamente drammatica, come campo di battaglia in cui si scontrano tensioni e in cui si compiono corto circuiti, palcoscenico grondante sangue in cui proprio l’artaudiano “corpo senz’organi” sembra celebrare il proprio matrimonio con il vuoto. 

Scrittura della carne, dei nervi, scrittura insanguinata, scrittura che racconta la caduta nel corpo,  realismo  fatto di vertebre e ossa quello di questo poema. Paradossalmente è anche un’esperienza del vuoto, tuttavia non si tratta di espellerlo come un elemento estraneo ma di “attraversarlo nel corpo”.  Ma qui tutto è detto e,  come sempre in poesia,  abilmente contraddetto: esiste un farsi corpo della materia, un farsi corpo del pensiero più astratto, un farsi pensiero del corpo, e la sensazione è che si assista a una scrittura di voragine, a una scrittura che combatta se stessa, la propria naturale evanescenza, proclamando e cantando la supremazia della materia. Alla fine però vince il vuoto sul pieno e  il corpo diventa quell’enorme cavità in cui cade il sé, smarrendosi nel sangue. La caduta, il cadere, lo sprofondare,  sono i termini privilegiati di questa poesia in cui drammaticamente “Lo sguardo ruota su se stesso e poi si fa irto di immagini che straziano” e questo sguardo non può cessare, si perpetua in un infinito di dolore che in ultima analisi è il dolore di essere un corpo, di cadere nella carne dalle altezze disincarnate del cogito cartesianamente inteso. 

Il corpo è un’esperienza drammatica,  dicevamo,  e questo vibra nel ritmo stesso di queste prose in cui Noël esprime lo strazio di un dolore che non si può raccontare se non attraverso l’immersione totale nella sua origine che è appunto la carne. Non c’è l’illusione dello spirito, la fantasticheria dell’anima, tutto è corpo che grida il suo essere corpo, materia, ossa, midollo, nervi. Il sé stesso diventa un miraggio, in questi paesaggi di crani che si svuotano, di occhi che inaridiscono, di vertebre sconvolte dalla nausea e dalla vertigine. 

Il corpo,  però,  così tangibile, è anche “ un’organizzazione del vuoto”,la digestione del vuoto”, la carne divora se stessa, in questo poema è un incubo che perpetuamente cade e attraversa i deserti, pulsando come l’occhio inesauribile della vacuità, corpo che è  fatto di terra pesante come il sonno di un macigno. E si finisce per essere ”cacca” come nelle visoni scatologiche di Artaud, e gli occhi si crepano, perché la visione li ha scheggiati, li ha feriti, tutto viene defecato,  dal dentro al fuori,  anche la  sinistra solitudine del cranio” è manifestazione di forze occulte che premono, che opprimono. Lo scorticato guarda il suo scheletro e non si riconosce, fra le pelle e le ossa c’è un deserto. Il vuoto è tutt’uno con lo stomaco, non è un’intuizione intellettuale ma un’esperienza delle viscere. 

Il linguaggio di  Noël è  dunque allegorico,  irto di metafore e mostra che il corpo stesso è un’ allegoria fatta di sangue, un luogo vasto come il mondo, è il mondo stesso preso dalla sua vertigine materica. Niente metafisica in questo poema, carne vissuta come ferita, carne che si trasforma, che cade, sprofonda nella terra stessa,  è la terra stessa che sprofonda in noi  e in questa caduta, in questo sprofondamento,  si sostanzia, sostanza che però, improvvisamente, si rivela essere soltanto vuoto che divora se stesso. Questo poema è così il grido della materia vivente che si fa suprema astrazione poetica, dentro un linguaggio che denuncia,  implacabilmente, l’oscenità essenziale del corpo, la brutalità senza coscienza della materia.

Democrazia

giovedì 19 giugno 2014




Qualcuno grida:  ”Anarchia!”,  altri:  ”Così vuole il popolo!”, altri ancora “Seguiamo il volere di Dio”, colui che dice :“La mia onnipotente volontà schiacci a terra le masse!”, è il tipo inquietante del dittatore ma  c’è in lui il residuo di un’onestà brutale,  ci sono in lui, che gridano,  i resti dello scimmione antico. La politica viene presa molto sul serio, l’uomo ama vendere l’anima ai propri idoli, e dopo averli  eretti sul piedistallo, vederli cadere nella polvere. E con essi cade a terra la sua stessa anima  ma chi se ne importa.  

Nelle dittature si sogna la democrazia, nelle democrazie non si va a votare, “Perché tanto sono tutti uguali.” Coloro che hanno dato la vita per la libertà forse non sapevano che a riceverla sarebbero stati perlopiù i devoti ammiratori dello scimmione assassino, e che volentieri la barattano per una televisione nuova o per l’ultimo modello di telefonino. Salvo poi lamentarsi: “Non ci sono più i valori di una volta”. Così viene sprecato il lusso della democrazia e popoli interi ipnotizzati vagano, trascinati dal desiderio di libertà, nome che danno alla più dorata delle loro catene, la più scintillante.

                                                                                                                 Ettore Fobo

Quasi invisibile – Mark Strand

sabato 14 giugno 2014







Nelle poesie di Strand, e anche in queste prose poetiche contenute nella raccolta Quasi invisibile, tradotta per Mondadori da Damiano Abeni, il nulla è sempre in agguato, poiché ogni cosa è in qualsiasi momento prossima a svanire e svela nella sua essenza una sostanziale carenza ontologica, l’oblio regna, sovrano inquietante, sui nostri sforzi d’esistere, di avere durevole consistenza, di conferire un senso al nostro vagare sopra una terra indifferente.

Sin dalla prima prosa di questa raccolta, l’inganno domina la scena, individui che fingono di essere ciò che non sono s’incontrano in un misterioso bordello: un banchiere che proclama di essere un pastore e una vedova che si finge cieca, un onnipervasivo mistero avvolge le loro menzogne.

Questi piccoli quadri poetici hanno in sé come qualcosa d’incompiuto, sono abbozzi, come se Strand si limitasse a suggerire pittoricamente un’atmosfera ma non completasse il disegno, donando a queste prose una sensazione di sospensione temporale. Dopo la lettura si rimane dunque stupiti e in attesa di altro e ogni prosa comunica con la successiva questa suspense che non è narrativa, nulla in fondo accade perché nella poetica di Strand nulla può accadere o accade solo il nulla, parlerei piuttosto di una suspense poetica. Strand si limita a suggerire un tema, lasciando che sia l’immaginazione del lettore a completare l’opera. Centrale il ritmo di queste prose, l’andatura leggera come quella di una foglia al vento che si posa per terra in attesa di dissolversi, come tutto.

Così questi piccoli poemi in prosa diventano misteriose manifestazioni di uno dei più grandi poeti contemporanei e si configurano come inquietanti riflessioni sulla fragilità della condizione umana, fragilità ontologica e fondante. Riflessioni che non ci riempiono, non saziano la nostra sete di sapere ma ci interrogano profondamente, lasciandoci senza risposta, Strand invita unicamente a sostare davanti alla domanda come davanti a un tempio che, kafkianamente, ci è precluso. E Kafka pare proprio il nume tutelare di molte di queste storie senza storia, in cui l’assurdità ci colpisce come la suprema delle banalità cui siamo assuefatti così tanto da non prestare a essa più alcuna attenzione.

Così il cuore vuoto, protagonista della prosa intitolata Spossatezza al tramonto, ha l’unico desiderio di svuotarsi del vuoto stesso, desiderio impossibile, perché il vuoto si accresce, un uomo trova sul tavolo una lettera scritta dal padre, morto però da quarant’anni ma la lettera non dice nulla se non un laconico ”Caro figliolo”, il pensiero è come il vento che  si sposta di città deserta in città deserta, in una terra di nessuno solo “anime misere” sono portate a “fare esperienza dell’impossibile.” Quasi invisibile pare così un libro silenzioso, evanescente, una meditazione enigmatica sull’assurdità dell’esistenza, sulla banalità stessa di quest’assurdità, che offre però al lettore una fisionomia leggera, delicata, quasi impalpabile. E allora è questo il senso del titolo: qualcosa prossimo a cancellarsi appare e subito si dissolve. In quel quasi del titolo c’è però tutta la nostra esistenza spettrale. Così il libro pare raccontare un’unica storia in diverse varianti, la storia della nostra umana vacuità, che però, nelle parole di Strand non è quasi mai tragica, perché a dominare è spesso la leggerezza, la leggerezza zen  del saggio che ha visto tutto,  che sa tutto e sa anche che questo tutto è niente, o meglio “la congiunzione luminosa di niente e  tutto”,  dove l’uno sembra confondersi nell’altro e i confini che separano l’essere dal non essere sono labili, e forse solo l’oblio è l’unica risposta alla nostra angoscia metafisica.

Quasi invisibile diventa così una definizione della stessa poesia, della stessa letteratura. Ricorrente è il tema dei molti sé che abitano nel profondo ciascun individuo e che possono affiorare in qualunque momento e in qualunque momento svanire, come prova di quanto sia labile ed effimero lo stesso concetto di identità. E’ una vera epica della sparizione, come ho già scritto altrove a proposito di Strand, la cui ricognizione tra frantumi di realtà pronta  a dissolversi è una pacata, dolce, o meglio dolcemente terribile, meditazione che, se ci parla del vuoto,  ci riempie però dell’ineffabile presenza di un’alterità sconosciuta, l’alterità che respira profondamente nel cuore della poesia. Con questo testo così Strand si rivela poeta devoto all’invisibile, al silenzio, al nulla, e ci regala l’ennesima perlustrazione quasi indolente e svagata dentro gli inganni e le illusioni della nostra umana condizione.

Il quotidiano nihil che ci scruta dallo specchio, in queste prose, diventa la misteriosa rivelazione di un’estrema banalità, che potremmo chiamare ”la banalità dell’assurdo”. Nella consapevolezza di questa insanabile contraddizione, sospesi fra mistero e ovvietà, fra noto e ignoto, dove, come nei versi di Philip Larkin, l’ignoto sopravanza di gran lunga il noto, c’è forse la possibilità della salvezza.
Essa consiste, come per il personaggio di una di queste prose che si trova a fissare per ore le pagine vuote di un libro, nel fissare il nulla, senza farci inghiottire, di osservarlo per tenerlo  a bada, fuori e dentro di noi, come la manifestazione suprema di un’ironia (forse) divina. Tenere testa all’orrore del vuoto, contemplandolo spassionatamente, non dico con gioia, perché questa sarebbe propria delle nature oltreumane ma almeno con ironico distacco.  

Strand pare così un saggio orientale, un saggio taoista, la sua scrittura, sospesa sull’abisso come l’uovo di un dipinto di Piero della Francesca,  c’insegna a familiarizzare con il nulla, come il ministro della Cultura di una di queste prose, ci guida  a fare amicizia con il baratro, attraverso  la dolce, la terribile, l’ipnotica danza delle sue parole.




Una prosa poetica di Mark Strand

venerdì 13 giugno 2014




Spossatezza al tramonto

Il cuore vuoto rientra a casa dopo una giornataccia in ufficio. E cosa può fare il cuore vuoto se non svuotarsi del vuoto. Spazzare via ciò che non si può spazzare via richiede un notevole sforzo mentale, l’impegno infruttuoso di facoltà già oberate da un gran peso. Povero cuore vuoto, precocemente invecchiato, come fatica per fare ciò che la mente gli dice di fare. Ma la lotta non porta a niente. Il cuore vuoto non può eseguire gli ordini della mente.  Se ne sta seduto al buio, a fantasticare, e il vuoto si accresce.

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da “Quasi invisibile” – Mark Strand - traduzione di Damiano Abeni – Mondadori – 2014

La figlia del papa – Dario Fo

sabato 7 giugno 2014








Dario Fo, con questo suo primo romanzo, La figlia del papa, uscito per Chiarelettere nell’aprile del 2014, dimostra tutto sommato di essere un artista capace ancora, all’età di 88 anni, di rinnovarsi, rimanendo al tempo stesso fedele alle fonti della sua ispirazione, che da sempre affondano  nell’antichità medievale o rinascimentale, spesso rielaborate anche linguisticamente.  Con questo romanzo si propone di diradare il fumo di leggende, miti o semplici maldicenze che da sempre avvolgono il personaggio di Lucrezia Borgia, di cui Dario Fo riscrive la vicenda, partendo proprio dalle fonti storiche,  interessato,  come si legge nella quarta di copertina, nient’altro che a “ricercare la verità”.
  
Che quella raccontata dal premio Nobel sia la verità pare,  però,  poco probabile, sarebbe stato più onesto riconoscere al racconto la sua natura di finzione letteraria e lasciare perdere l’ossessione tutta contemporanea per la verità. La verità, bah, questa illusione lasciamola agli storici e ai preti.

Il romanzo è abbastanza agile, scritto con una lingua immediata ed efficace che non indulge a sperimentalismi di alcun genere, solo in alcuni casi un gergo moderno traspare come un po’ incongruente. Mi sarei aspettato una maggiore aderenza linguistica all’epoca narrata, ma in fondo non è un grande problema, perché il romanzo funziona abbastanza, anche per la scelta di usare come tempo grammaticale  il presente, che conferisce ulteriore immediatezza alle vicende raccontate.

Così l’epoca narrata, con i suoi intrighi, le sue guerre, i suoi colpi di scena, i suoi assassini, pare più facilmente specchio della nostra, a conferma che l’umanità cambia d’abito, muta le proprie maschere, ma nella sostanza rimane identica. E’ proprio questo è ciò che colpisce: se la Storia è maestra in qualcosa, lo è in questo. Solo in superficie, accidentalmente, le cose cambiano, in profondità risuona sempre il detto dell’Ecclesiaste: “Non c’è niente di nuovo sotto il sole”.

L’abilità, solo a tratti un po’ furbesca, di Dario Fo è quella di restituirci il periodo storico, per inciso la fine del Quattrocento e il primi due  decenni  del Cinquecento, attraverso il racconto delle gesta di una famiglia cui la vox populi,  e in parte la storiografia,  ha nei secoli attribuito ogni genere di nefandezza: la famiglia Borgia, con il capostipite Rodrigo, che diverrà papa,  i figli Cesare,  e Lucrezia, soprattutto,  la figlia del papa appunto, principalmente messi in evidenza

 E’ una storia d’inganni di cui Lucrezia soprattutto farà le spese. Sin da bambina, infatti, ella sarà vittima del padre - che si fingerà per tanti anni suo zio, lo zio cardinale, fino  quando eletto papa non rivelerà la verità alla famiglia -  e del fratello,  lo spietato Cesare. Pedina nelle loro mani ella sarà costretta a sposarsi  più volte per assecondare la ragion di stato ma saprà lentamente emanciparsi e rivelare una natura forte, libera, capace di volgere a proprio favore anche le disavventure.

Così il romanzo si configura come la celebrazione di una donna, che per la storia è controversa e  che, invece, secondo la versione di Dario Fo,  fu manovrata sin da bambina, facendo con coraggio emergere la propria personalità contro tutto e contro tutti, figura di eroina, determinata e compassionevole, che seppe sfuggire al degrado morale della sua epoca e della sua famiglia, uscendo paradossalmente pulita dal pantano di calunnie, illazioni, maldicenze che la perseguitarono tutta la vita e addirittura nei secoli successivi la sua morte. Tra queste maldicenze Fo annovera anche le accusa d’incesto con il padre papa e con il fratello Cesare, che tanto hanno infiammato l’immaginazione dei contemporanei e dei posteri, fino a fare di Lucrezia Borgia  la figura luciferina di una pericolosa e dissoluta femme fatale.   

 La ricostruzione di Dario Fo, non so quanto storicamente attendibile, è comunque interessante, al solito egli ci conquista con un’affabulazione moderna intessuta di passione per la storia, magari rielaborata secondo il suo estro.  il romanzo ha però il  limite di avere una conclusione debole, un finale in sordina, un epilogo opaco. Anche certi dialoghi sanno troppo di fiction, di feuilleton, per essere pienamente credibili, si rinnova la sensazione che linguisticamente Dario Fo avrebbe dovuto osare di più, nella ricostruzione di un linguaggio rinascimentale che fosse totalmente accettabile e magari più colorato, più sontuoso e spumeggiante, e forse anche più arduo, meno leggibile. Troppo spazio viene inoltre  dato alle vicende amorose con qualche spiacevole caduta nel romanzo rosa.

La figlia del papa è comunque un’operazione letteraria coerente con il percorso artistico di Dario Fo, ed è tutto sommato un  romanzo che si può leggere, senza,  però,  aspettarsi troppo. Un premio Nobel può scrivere anche un romanzo senza troppe pretese, gradevole, un testo che più che alla grande arte appartiene alla letteratura di consumo. Non bisogna per questo gridare allo scandalo. Io l’ho letto volentieri, traendone anche diletto, nonostante nutra da sempre riserve su Dario Fo.  Il testo è anche accompagnato da disegni dello stesso Fo, che ha realizzato anche la copertina, disegni interessanti che arricchiscono il testo e fanno del libro un’operazione artistica a tutto tondo.