Una questione di decibel

sabato 29 giugno 2013




“Avere qualcosa da dire/nel mondo a se stessi, alla gente. / Che cosa? Non so veramente/perché io non ho nulla da dire.”

Marino Moretti

In quest’epoca è obbligatorio avere opinioni. E’ necessario proclamarle, per esistere. Volenti o nolenti, siamo carne da sondaggi, materiale per le manipolazioni del marketing. Non avere opinioni equivale a non esistere. Ammettere la propria ignoranza a proposito  di un argomento, o peggio il proprio disinteresse, non usa più. Tutti devono dire la loro. Così vuole la democrazia, per cui, finalmente, il parere di un ignorante vale quanto il parere di un esperto. Tutto vale uno. A meno che l’esperto in questione non sia consacrato dalla televisione, bestiario contemporaneo. Altri bestiari sono Twitter o Facebook: proliferazioni tumorali dell’opinionismo. Dietro tutto ciò si nasconde di solito solo un narcisismo fetido, sconclusionato, totalmente vacuo.  Non avere opinioni è il peccato contro lo spirito santo della nostra epoca, ed è una delle poche libertà rimaste. Perciò colui che ama la libertà, in primis non si fa ammanettare dalle proprie idee, che,  lungi dall’essere dei fossili, sono perlopiù  volatili fino all’inconsistenza. La strada per l’inferno è lastricata di opinioni. Esse sono acuminate come cavalli di Frisia, granitiche come macigni e, peggio dei macigni,  inamovibili. Quando un’opinione si maschera da verità, ecco i dogmi, gli slogan, gli imperativi categorici. Tutto ciò per me assomiglia troppo a una mancanza di modestia, cioè all’incapacità di vedere e accettare l’umana piccolezza. Questa società ama le opinioni perché per lei tutto è indifferente, verità e menzogna si confondono così bene che sono divenute indistinguibili. Pochi hanno il pudore di rispondere ”Non so” a un sondaggio e tirare dritto. Si sente perciò la necessità di una morale aristocratica, che come il rasoio di Occam ponga fine al proliferare di tanta demenza. Non c’è speranza di vederla sorgere. In compenso ciascuno avrà diritto, democraticamente, alla propria opinione, su tutto. E guai a chi sarà sprovvisto di essa. Tutti dovranno dire la loro e nella cacofonia generalizzata non si capirà più nulla. Logico che in questa confusione verrà  fuori, se non è già venuto, qualche sedicente messia con la verità in tasca. Questi sarà semplicemente uno capace di urlare più forte degli altri. Sta arrivando, o è già arrivata,  l’era in cui la verità sarà soltanto una questione di decibel. 

Trionfo dell'amore - Vicente Aleixandre

sabato 22 giugno 2013





Dietro un titolo un po’altisonante e vacuo come Trionfo dell’amore, si cela una interessante  antologia poetica di uno dei massimi poeti spagnoli del Novecento, Vicente Aleixandre, che fu insignito nel 1977 del premio Nobel per la letteratura.  La raccolta, tradotta da Dario Puccini, che fu originariamente pubblicata nel 1972 da Edizioni Accademia, parte da Ambito (1928) per arrivare a Poesie della consunzione (1968), sintetizzando dunque una parte importante del percorso poetico compiuto dal poeta spagnolo, nato nel 1898, come Federico Garcia Lorca, e morto nel 1984.

La prima cosa che noto è la dirompente potenza icastica del linguaggio, astratto, visionario, insieme terribilmente carnale e potentemente metafisico. E’ una duplicità che sembra essere la cifra stilistica di Aleixandre, che concepisce la lingua poetica come un labirinto di significati contradditori, come un’arena dove il toro, elemento primigenio, danza con il torero, simbolo della civiltà umana.

Cultura e cosmo, vita animale e vita umana, sembrano intrecciarsi e fondersi. L’insieme dà il capogiro e sembra conciliare elementi di surrealismo con preziosismi barocchi e con echi di creazionismo,  e conferma ancora una volta che il fine del poeta è suscitare la meraviglia, lo stupore, come nei versi di Giovan Battista Marino: “E’ del poeta il fin la meraviglia,/ parlo dell’eccellente e non del goffo,/chi non sa far stupir, vada alla striglia!”

E’ la ricerca della grazia a muovere le parole del poeta, grazia non umana, celeste, primigenia, in cui gli elementi ancestrali sono modellati come epifanie di un cosmo di pura astrazione, come manifestazioni di un ordine immaginifico più reale della realtà stessa. Aleixandre non sopporta limiti, barriere, confini, il suo verso vuole straripare costantemente e inondare il mondo con la sua luce dionisiaca.

 Misteriosa la poesia Non esiste l’uomo inizia con questi strani versi: “Solo la luna sospetta la verità./ Ed è che l’uomo non esiste. “

Questa poesia si configura come un’accorata ode alla luna, frammento di un cosmo indifferente all’uomo, luna che è vista come una potente entità spettrale che penetra in profondità nella mente del poeta e nelle fibre segrete del mondo intero. Il linguaggio di Aleixandre è insieme teneramente essenziale e fastosamente barocco, in bilico fra la sintetica sentenza affilata e una dimensione torrenziale, è espressione rutilante di forza immaginativa, che sembra inseguire “la verità tangibile di un corpo che sussulta” e insieme la “repentina coscienza di una/ compagnia là nel deserto”; in questa dimensione l’uomo è come un lampo serrato “fra due oscurità”, in perpetua ricerca dell’altro.

L’amore sembra essere una realtà centrale, ed è ”senza prima né poi”, ma in ultima analisi si configura come una realtà amara, dolorosa ”perché l’amore è triste”, come recita un verso della poesia intitolata Nascita dell’amore, tratta dalla raccolta Ombra del paradiso.

 Il libro centrale, quello che maggiormente sintetizza il pensiero di Aleixandre, quello in cui il poeta spiega ciò che origina le sue visioni, è indubbiamente Storia del cuore (1958).

Qui leggiamo poesie come Nella piazza, dove il poeta racconta della sua fascinazione per il turbinante mondo della città, con le sue strade e le sue folle che trascinano, fuse in un unico cuore, in unico battito, che egli  ha il compito di cantare. Esattamente come il Baudelaire de Lo spleen di Parigi, Aleixandre ci mostra la potenza della città, vortice in cui è bello perdersi, naufragare, smarrirsi: “Ma è puro e bello struggersi nella felicità/ di fluire e di perdersi/riscoprendosi nel moto con cui il gran cuore degli uomini/ palpita a distesa.”

Negli ultimi versi di questa straordinaria poesia avvertiamo nitidamente l’emozione del poeta nel sentirsi parte della folla definita “ torrente che ti reclama”, luogo in cui è possibile essere se stessi, come in un incantesimo di fraternità universale. E’ presente anche lo sforzo di uscire da se stessi, per accogliere l’altro, per abbracciare il mondo, c’è in questi versi il tentativo di uscire dalle anguste prigioni del narcisismo: “non ti cercare nello specchio/ nello spento dialogo in cui non ti senti.”

Nelle successive raccolte la voce di Aleixandre progressivamente si affina e la sua poesia diventa un’indagine sospesa fra filosofia e natura, fra ricerca gnoseologica e quadro naturalistico.

Nella poesia Per chi scrivo scopriamo chi sono i destinatari del messaggio poetico di Aleixandre: paradossalmente sono proprio coloro che non lo leggono e lo ignorano: il “vecchio che s’addormenta nella panchina”, la bambina che passa e che lo osserva, la vecchia che  molte vite ha messo al mondo e che stanca vede passare l’esistenza davanti alla sua porta. E poi ci sono le figure quasi archetipiche: l’assassino, la ragazza innocente, il mare infinito. Il canto del poeta spagnolo esalta ”tutta la materia del mondo” che nei suoi versi assurge a una dimensione metafisica.

Così la verità s’impone come la luce del sole su un altipiano, oltre il dubbio, oltre l’ombra, oltre la dimensione chiusa e finita dell’umano vagabondare. Ed è una rivelazione: “L’essere, l’essere senza tempo,/ e un fiume passa, e tremano le stelle.”



Poesia da "Sotto una luna in polvere"

domenica 2 giugno 2013



LUCCIOLE                                                                             

Luce sui campi incolti dove
sono stato generato una notte
dall’amplesso di stelle erbose.
Due volte luce sui campi incolti,
alla periferia dello sguardo di Dio.
Le orbite dell’alveare mi fissano,
e fra le fronde topi mi guidano
all’istantaneo chiarore di lucciole,
all’estinguersi del vico che porta
a un afrore di capre rinchiuse.
E il letame cumulo lontano
al cielo innalza l’ombra
del rivelato senso di nascita
al me stesso olfatto che scopre:

La prima impressione è dolore di cane.

Rendez vous con l’infinito ancora,
oltre la saggezza di formiche e bruchi
forse nella follia stupita del baco,
che rinuncia a sé, per il volo sacro.
                                                                                         
                                                                                                     Ottobre 2001
            Ettore Fobo



Potete leggere altri estratti del libro sul sito The NeXt Station, sul blog Sheep in fog e nell’etichetta Sotto una luna in polvere in questo blog.

Disponibile anche in ebook nelle principali librerie on line (Amazon, Mondadori etc)