Profanazioni-Giorgio Agamben

lunedì 31 agosto 2009



Dieci brevi saggi compongono questo libro in cui il pensiero di Agamben si muove nei territori della letteratura e della filosofia, affrontando la sfida della contemporaneità che vuole concetti su cui edificare un senso, laddove la società sembra essere allo sbando dei luoghi comuni vociferanti un po’ ovunque.

Così nelle parole di Agamben Genius il dio latino della generazione, il dio personale che vigila sulle nostre esistenze, diventa il simbolo dell’impersonale che abita dentro di noi, e che rappresenta aldilà delle codificazioni della coscienza la nostra parte più profonda e inconoscibile, con la quale si possono intrattenere solo rapporti indiretti, ed è il sostrato di ignoto la cui conoscenza è difficile e pericolosa e il cui apporto è però fondamentale. Il Genius di ciascuno va ascoltato perché in esso risiede la voce del nostro destino più profondo, bisogna dunque vedere nelle nostre manie l’espressione di un’esigenza superiore, quella di Genius. Ma questi, che è un dio personale, è anche l’espressione di ciò che in noi “ci supera e ci eccede” è “l’impersonale, il pre-individuale”, ciò che trascende la singolarità e va aldilà di ogni principium individuationis e Genius partecipando di queste realtà ci è perciò sottratto, è la zona di ignoto che anela a quell’emozione profonda che vive in noi, quella che Nietzsche chiama “sensazione suprema”e può essere la gioia come l’angoscia, la sofferenza come l’estasi.

Agamben cita solo en passant la parola inconscio, preferendo dare alle sue tesi un’impronta filosofica, ma dopo la psicoanalisi l’ignoto che c’è in noi ha acquisito una fisionomia particolare e diventa difficile andare oltre le suggestioni junghiane, Agamben ci prova ricordandoci sostanzialmente che noi siamo soprattutto quello che di noi stessi non sappiamo e probabilmente solo nell’incontro con l’altro troviamo un possibile contatto con Genius,“ l’emozione rimasta in noi incomprensibile”. Quando scrive dei poeti dice una verità indubitabile: il poeta è colui che vuole nascondersi, vuole essere trascurato, questa era già un’ossessione di Carmelo Bene che lo ha ripetuto fino allo sfinimento, il filosofo paragona questo desiderio di oscurità al bambino che si nasconde in una cesta o in una soffitta, e che mai rinuncerebbe al piacere di questo nascondiglio, che gli trasmette un'ebbrezza particolare, e forse il senso di una libertà assoluta,” Noi non siamo al mondo “ in effetti poterebbe essere il grido che da Rimbaud ad Artaud riecheggia nei versi dei poeti, il cui misconoscimento è spesso parte del gioco della loro opera.

Scrivendo di fotografia, ne sottolinea la dimensione di fascino metafisico, e vede soprattutto nella sua misteriosa banalità la profezia del giorno del giudizio, scrivendo di letteratura afferma la presenza dell’autore unicamente nel “gesto che rende possibile l’espressione, nella misura stessa in cui insedia in essa un vuoto centrale”; autore la cui presenza fantasmatica è proprio quel “vuoto leggendario” da cui procede misteriosamente il discorso, “ l’illeggibile che rende possibile la lettura “.

Un saggio è dedicato al tema della parodia di come questa nasca introducendo una discordanza, una separazione fra melos e logos, e si sviluppi nei secoli nella necessità assoluta anche di una profanazione, in grado forse di restituirci un senso diverso del sacro. A proposito della felicità ne vede il sottile legame con la magia, la necessità che essa arrivi per caso senza che vi sia un merito, e in questo il filosofo vede un’etica superiore, quella per cui della felicità si può essere consapevoli dopo che è passata, non mentre la si vive, ed è appunto una magia il fatto che essa, di fatto, mai ci appartenga, e citando Benjamin Agamben ci ricorda che la nostra più grande sofferenza infantile è stata proprio riconoscere la nostra “incapacità di magia”.

Ma il saggio più importante è forse il penultimo, Elogio della profanazione, in cui una profonda riflessione sulla società capitalistica si unisce a una meditazione sulla natura della profanazione, e di come questa sia divenuta oggi impossibile. Se “Profanare significa restituire all’uso comune ciò che è stato separato nella sfera del sacro” quella che Agamben chiama “religione capitalistica” alienando e allontanando la realtà in una pura rappresentazione spettacolare, separando ogni cosa da se stessa e trasferendola nella dimensione del consumo, impedisce la fruizione del reale e quindi tutto diventa impossibile da profanare, da usare, perché tra questi concetti come si è visto Agamben individua una similarità, solo nel gioco è ancora possibile il gesto di una profanazione, che restituisca all’uso, ciò che è stato separato.

“I bambini che giocano con qualunque anticaglia … trasformano in giocattolo anche ciò che appartiene alla sfera dell’economia, della guerra, del diritto …

In questo modo , scrive Agamben, queste potenze disattivate e profanate nel gioco , diventano
la porta di una nuova felicità”, che consiste nel mandare in corto circuito i “dispositivi del potere “ e restituire “ all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato “. Perciò la profanazione si configura come uno degli obiettivi di una nuova politica, che vada in una direzione opposta a quella della “religione capitalistica “ e questo è il compito che Agamben affida alle nuove generazioni: “la profanazione dell’improfanabile”.

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Profanazioni è edito da Nottetempo

Il coperchio- Charles Baudelaire

mercoledì 12 agosto 2009

Scorra le terre e navighi per un mare remoto,
sotto un clima di fiamma o sotto un sole gelido,
accolito di Cristo o a Citera devoto,
Creso ardente o pitocco tenebroso e famelico,
villico,cittadino, in movimento, immoto,
posi inerte il suo piccolo cervello o pulsi anelo,
ovunque l'uomo prova sgomento dell'ignoto,
e con occhio che trema solleva il capo al Cielo.

Lassù, il Cielo! Incombente tetto sulla sua testa
volta d'opera buffa illuminata a festa,
dove ogni istrione calca un sanguinoso suolo;

amico ai pazzi asceti,contro gli empi feroce,
il Cielo ! Atro coperchio dell'immenso paiuolo
dove, infinita e minima, l'Umanità si cuoce.

...
Da I fiori del male- Charles Baudelaire- traduzione Gesualdo Bufalino- Mondadori

Favole della vita-Peter Altenberg

domenica 9 agosto 2009


Altenberg porge uno “ specchietto tascabile” alla società del suo tempo, la Vienna a cavallo tra Ottocento e Novecento , ove essa può ravvisare la crisi dei suoi valori, la vanità dei suoi presupposti, la perdita di identità che la caratterizza profondamente, ma soprattutto ci rende conto della sua interiorità di escluso per vocazione, della sua prigionia dorata di individuo in un mondo sempre più spersonalizzato. Fra racconti che sono “estratti di vita” aforismi che incidono per la loro brevità, divagazioni intellettuali, prose poetiche, si snoda l’esperienza letteraria di questo raffinato rabdomante di sensazioni, che lascia nell’anima l’impressione che tutto, bene o male, pur nella sua mediocrità, riesce a mantenere il suo incantesimo; così tulipani, bambine che pescano , gite in barca, parchi montani, conversazioni galanti, sono i brandelli di una ricerca di se stessi che ciascuno può compiere, complice questo scrittore austriaco , amico di Kraus, i cui temi sono disparati, la cui ricerca di una verità poetica affonda negli strati più remoti del romanticismo, per riemergere moderna nella consapevolezza dell’estrema vanità di ogni tentativo di fuoriuscire dalla logiche imperiose della borghesia più blasè. Mai cinico, sempre colmo di questo incantamento Altenberg esalta la donna, il cui fascino esercita su di lui un potere immenso, mai è incline alla lubricità, il suo sguardo, sebbene nelle sue parole affiorino tutte le turbolenze del desiderio, pare pienamente casto, pur nelle sue deviazioni feticistiche, la sua venerazione della femmina è un vero e proprio culto religioso, da cui egli non recede mai,ed è il filo rosso che lega questi frammenti, colmi di una sensibilità in lotta con il grigiore e con le inevitabili asprezze della vita. Certo l’uomo è una creatura torbida, cupa e inerte che solo la vicinanza con l’elemento femminile può risollevare allo stato di creatura divina; così le adolescenti, le ballerine di Altenberg portano la grazia nel mondo, con il loro movimento , coi loro sguardi, coi loro giochi, regalano qualcosa che il mondo stesso non è in grado di accogliere, senza profanare. Il rischio del kitsch è abilmente evitato in questi scritti, foglietti volanti che spesso Altenberg scriveva nei caffè di Vienna, lasciandosi andare in una dimensione in cui l’ispirazione non è costretta da nessuna imposizione, in cui è libera di amare anche ingenuamente i suoi prati estivi, le sue fanciulle, i suoi fiori. Talvolta affiora la ferocia si vorrebbe “torcere il collo“ ai tulipani che simboleggiano la donna amata che ci rifiuta, si vorrebbe “nel proprio intimo” prendere a calci colei che sobri, si venera in sommo grado, ma questa ferocia è sempre sotto controllo mentale, una fuoriuscita di lava dal bocciolo di un sentimento la cui purezza è il risultato di un processo di affinamento interiore, traverso il lavorio di una coscienza poetica che si mescola ad
un' immediatezza raggiunta quasi per caso; Altenberg dice della sua scrittura che è una rapsodia meditata sul momento, un‘improvvisazione senza fini e senza fine. Certamente il personaggio Altenberg, ciò che egli crea con le sue stesse parole, è un ingannatore, come tutti i poeti, il velo che pone sulle cose, per farle apparire come miraggi di un’esistenza beata è una pura creazione letteraria, ciò nonostante la grazia esiste, talvolta diabolica, esiste e lo scrittore austriaco, ha lo sguardo adatto per vedere in essa l’epifania, la rivelazione, lo shock e tradurli in scritti delicati, anche quando trattano temi inquietanti, scritti sorretti da una visione poetica la cui esattezza è il segno che qualcosa è stato visto, un lampo metafisico ha galleggiato sopra le nostre teste .
"Dio pensa nel genio, sogna nel poeta e dorme nella restante umanità “. Ecco che gli artisti romanticamente si struggono, soffrono, si esaltano a un livello incomprensibile agli altri, addormentati nel loro bestiale torpore, sentono con un’intensità sconosciuta alle masse, sono il sale della terra e Altenberg ci invita ad assomigliare ad essi, ad essere dei creatori di bellezza, in un mondo in cui la bellezza è costantemente minacciata, e l’orrore cova i suoi scempi nel modo che sappiamo. Forse in questa esaltazione della figura dell’artista è all’opera un’illusione romantica di Altenberg, il cui entusiasmo per la bellezza però suona assolutamente autentico e ciò basta. Un prato montano, una fanciulla, possono inebriare allo stesso modo una fantasia che cerca la sua estasi nella quotidiana fatica d’esistere, un articolo di giornale che parla della sparizione di una ragazza diventa un simbolo dell’annientamento della giovinezza e della bellezza stessa.Altenberg accenna appena alle ninfe, ma la loro scomparsa, dolorosamente cantata dai poeti dell’Ottocento, è presente nelle sue righe, “la follia che viene dalle ninfe” di cui scrive Calasso era sicuramente nelle sue vene di appassionato di una femminilità da sempre in via d’estinzione. Questa raccolta delle opere di Altenberg - tutte pubblicate fra il 1896 e il 1925 - stupisce per la potenza di fascinazione che riesce ad esprimere, da queste pagine si esala tutta la tensione più feconda della società viennese, che così bene viene tratteggiata anche nelle sue piccole o grandi follie, i suoi riti quotidiani, le sue disavventure. Quelle di Altenberg sono le parole di un esteta che non si rassegna, e cerca romanticamente “l’ideale nel reale”, che talvolta affonda nella mediocrità dell’esistenza con il sogno disperato di un mondo in cui dominino, per usare le parole di Baudelaire,” lusso, calma e voluttà “. La sua sensibilità per le venature più riposte di un paesaggio, la sua passione per i fiori, il suo gusto liberty per la conversazione, la passione per le adolescenti, e gli straordinari dialoghi che registrano gli umori di una società in declino, sono il lascito di questi scritti che nella loro semplicità, paiono conservare l’indecifrabilità del reale, aumentarne a dismisura il mistero. Ecco mistero è tutto ciò che respira nell’opera di Altenberg, il cui nitore è spiazzante, la cui chiarezza naturale non è offuscata dalla cupezza che pure s’indovina aver tediato il suo autore per tutta la vita, dilagando negli ultimi anni anni in una disperata confessione di disfatta. Quando è al meglio la prosa di Altenberg è incantevole, simile a certi dipinti di Klimt nella sua vaga aura sognante, è densa di una emotività delicata, di una tenerezza che sfugge ai chiaroscuri dell’esistenza e rimane testimonianza di una sensibilità che disperatamente ha cercato di restare a galla nel mare di tristezze di cui troppo spesso consta la vita, rimanendo aggrappata alla concezione romantica dell’esistenza, in un’epoca in cui ella denunciava già segni di cedimento, di cui Altenberg mostra di essere dolorosamente consapevole, da ciò deriva la sua modernità e la tempo stesso la sua inattualità di poeta della piccole cose.Certo talvolta il suo entusiasmo può apparire stucchevole e datato, frutto di un'epoca ormai scomparsa, ma la leggerezza dei suoi "schizzi" l'esattezza delle sue percezioni, il più delle volte raggiungono lo scopo di farci sentire parte di un mondo di tenerezze ancestrali e invincibili.Il suo sguardo afferra l’orrore, ma preferisce sostare in quella zona di contemplazione per cui vedere è tutto, sentire pulsare il mistero dell’esistenza e rimanerne affascinati è lo scopo; ricordando la levità di certi scritti di Robert Walser, i foglietti volanti di Altenberg testimoniano il tentativo di raggiungere l’estasi attraverso le parole, ed è così, girovagando fra parchi, laghi e montagne, che Altenberg coglie gli umori di una società minacciata dal vuoto. Egli la vede e, a differenza di Kraus , non la giudica,non la sferza , ama l’odore di dissoluzione che da essa emana, e sorride.
Gli ultimi scritti sono pervasi invece da una disperazione senza fondo, testimonianza di una sensibilità che si percepisce in declino, scompaiono i prati, le fanciulle e affiora nient’altro che la dura realtà dell’io, la vecchiaia, la malattia e quel bel mondo di incantesimi si trasforma nell’agonia di una mente, che non sopporta più la durezza della vita. Le ultime parole di questo scrittore sono spoglie,aride. Dove è finito l’entusiasta cantore delle inezie e delle bellezze del vivere ? Sotto il peso di una consapevolezza che non vuole pace, aborrisce il suo stesso successo, e non riesce più a evadere, imprigionata da un’ombra, che pare incombere su tutti noi .




· Favole della vita è edito da Adelphi