Impressioni lunatiche

mercoledì 29 settembre 2010

Con aspide-nastro all’intorno,
una polposa luna albicocca
l’occhio, incantato dal vanire
infinito delle nuvole caduche,
guarda chimerica regina,
e sono chiodi roventi le stelle
sul cosmico cranio di un Cristo

Frale qui l’anima galleggia,
come un sospiro di neonato,
lattiginosa luna custodisce
la misura del suo primo grido.

In orfico silenzio fra fronde
(galassia intrauterina )
vita ultraterrena pulsa.
Ed è liquido l’umor della gatta:
evaporazione felina che guizza,
fra le erbe attizzate dall’ombra.

Scarabocchiato un infinito
sta in venatura di foglia,
è una goccia di latte la luna
ora sul pastrano dell’assurdo.

Cenni autobiografici con annesso piccolo messaggio pubblicitario

domenica 19 settembre 2010


Quando ho cominciato a scrivere per il blog, avevo in testa unicamente questa idea: provare la scrittura critica, affrontare il territorio minato della recensione letteraria, giudicare, organizzare il pensiero, quando in precedenza, devo dire seguendo le orme di Nietzsche o Deleuze, sulla scia di Carmelo Bene o Artaud, mi ero occupato più della sua disorganizzazione. Decisi così di assumere uno pseudonimo, dividermi idealmente in due. Mi piaceva l’idea di essere letto, o di poterlo essere con più facilità, giacché in vent’anni di scrittura di poesie, avevo sempre sottoposto con cautela i miei versi agli altri. Qualche articolo di critica lo avevo pubblicato qua e là, controvoglia e per inerzia. Non sono mai stato sfiorato dall’idea, che tutt’oggi reputo folle, di ricavare dalla letteratura qualcosa di più di una pacca sulle spalle, o un riconoscimento che sfiora sempre l’oltraggio. “Io mi vergogno, sì, mi vergogno di essere poeta!” scriveva Gozzano e tale è la condizione dei poeti oggi e sempre. Chi si vanta di esserlo è un impostore o comunque mi è sospetto perché il desiderio dei poeti è quello di essere trascurati, dimenticati, nascosti, come ha detto Carmelo Bene fino allo sfinimento, come ha mostrato Giorgio Agamben. Dopo la cesta di panni dell’infanzia quale miglior luogo in cui nascondersi di una poesia?
Certo, nella gran futilità dell’esistere talvolta affiora il desiderio di gridare al mondo con orgoglio la propria condizione di clandestino nella voragine del linguaggio, ma perché turbare il nulla, graffiare l’altrui indifferenza? Così si chiedeva e si chiudeva la mia anima, e anche se ora penso che intercettare qualche naufrago, interessato ai tuoi messaggi in bottiglia, possa essere una bella cosa, non dimentico questa profonda tendenza all’oblio.
Ettore Fobo è una maschera unicamente perché io sono una maschera, anzi spero più di mille, perché voglio restare il più possibile nell’ombra, e questo è il senso dell’arte secondo Wilde, “nascondere l’artista e rivelare l’arte”, sebbene a parte Wilde, Huysmans e qualcun altro da cui l’accetto, la parola arte mi faccia rabbrividire, giacché non possiamo continuare a ignorare il dadaismo, e il suo allegro calcio nel sedere a tutte le categorie concettuali. A proposito dello pseudonimo, ho già scritto che è il dono di un amico, cui devo molto anche per altri motivi, è in realtà anche il nome che io ho dato al personaggio di alcuni miei racconti, sin dall’età di sedici anni, facendolo mio.
Travestirmi da critico è anche un altro modo per nascondersi in una cesta, con la voglia matta di essere scoperti per provare quel brivido. Contraddizione vitale, sfumatura esistenziale. Quando Yeats parla di sé antitetico, e scrive che arrivare alla maschera è lo scopo del poeta dice una grande verità, quando Pessoa si disintegra in diversi eteronimi racconta della stessa urgenza.
Vincendo questa ritrosia a diffondermi, di cui ho detto, nel 2006 avevo pubblicato La Maya dei notturni, che raccoglieva le poesie scritte nel biennio precedente, ma che ora considero in realtà quasi un poema, quel quasi è dovuto al fatto che non era nelle mie intenzioni scrivere un poema, è stato un esito involontario. Tecnicamente però è un prosimetro, perché ci sono numerosi brani in prosa. Allora mi sono firmato col mio vero nome Eugenio Cavacciuti, ora ne pubblico un altro e ho deciso di assumere lo pseudonimo Ettore Fobo che ho sul web. Il libro si intitola Sotto una luna in polvere e raccoglie più di cento poesie, che ho scritto nell’arco di circa vent’anni, fra i quindici e i trentatré per l’esattezza. E’ pubblicato da Kipple Officina Libraria, nella collana Capsule. Ha 190 pagine e costa 8 euro. Pubblicherò qualche estratto, nei prossimi giorni. Non è distribuito nelle librerie. Potete trovarlo qui.
A proposito della mia poesia posso dire soltanto che sono partito leggendo Baudelaire e Rimbaud, Blake, Garcia Lorca, Poe, la Dickinson e tra gli italiani Campana, Montale e Quasimodo; subito dopo sono approdato a Laforgue, Eliot, Auden, Pound, Cendrars. I nomi sono tanti, impossibile citarli tutti, anche se mi piacerebbe, ma, diavolo, a rischio di risultare stucchevole non posso non citare Saint John Perse, Borges, Majakovskij, Trakl, Huidobro, Corbiére … E oggi reputo Gottfried Benn la summa della modernità. Grazie dell’ascolto.
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