sabato 18 febbraio 2012
"Il poeta è un fingitore. /Finge così completamente/ Da fingere che è dolore/ Il dolore che davvero sente.”
Fernando Pessoa
Subito Pessoa evoca un’idea di modernità: non potendo essere se stesso per una sorta di maleficio, o per quella che ai tempi si chiamava nevrastenia, si frantuma in un’infinità di doppi, si trasla nella maschera, si frantuma. Pessoa è proprio questo universo poetico frantumato in più direzioni, che sono poi i vari eteronimi che il poeta portoghese interpretò sulla pagina, poeti dotati di una loro biografia, di un loro pensiero, di una loro visione. Pessoa divenne così il filo che univa e reggeva un universo di infinita simulazione, di mascheramento, di supremo nascondiglio. In Pessoa, come penso in Kafka, è potente l’impossibilità di essere, di manifestarsi, per effetto quasi di un maleficio, quello che Artaud chiamava “affatturamento globale”, perché il pensiero è male, è una malattia, i filosofi sono ”uomini pazzi”.
La più grande ossessione di Pessoa è il peso della propria presenza nel mondo come essere intellettuale, e quindi gioco forza immaginario, metafisico. La sua grande mistificazione è un chiave inglese per scardinare tutte le altre illusioni della metafisica, in primis il concetto di identità. Per Pessoa ciascuno non è un’unità ma come per Nietzsche, è una costellazioni di impulsi e di sogni. Non c’è nulla di metafisico, “tutto è occulto” e le religioni sono solo una forma di pazzia- “Pazza , la fede vive il sogno del suo culto”- cosa ci rimane, spogliati di tutto l’apparato metafisico, non potendo più naufragare in Dio, se non accettare l’arida, la rude, realtà della Tabaccheria, in Pessoa antimetafisico, luogo metafisico per eccellenza? E’ questa la grande contraddizione d Pessoa che se rinuncia a Dio, a se stesso, al simbolismo delle cose, che sono quello che sono, come in una poesia di Sbarbaro, sente nostalgia di queste realtà metafisiche che nella maggior parte versi, a livello intellettuale, tanto dispregia, segni di una malattia.
Talvolta, però, soprattutto nel Pessoa ortonimo, Dio appare come una dimensione con cui rapportarsi, egli appare come la voce dell’universo, la sintesi delle sue creature. Quindi in Pessoa c’è un inevitabile sdoppiamento, egli prima finge di non credere a realtà trascendentali poi di credere, mescola le carte e ironicamente ce ne mostra una con un jolly ghignante. E’ l’ambiguità inevitabile di chi, attraverso la moltiplicazione delle maschere, sempre si dissimula, preferendo l’evanescenza di questo processo allo spietato inquadramento dell’identità. Dunque sognare sì, vagheggiare, vaneggiare, ma rimanendo al tempo stesso consci della propria presenza nel mondo, in cui anche l’infinito ci ignora, dove la stessa vita è “un mendicante sbronzo/ che porge la mano alla propria ombra”.
Nelle parole dell’eteronimo Alberto Caerio c’è un rifiuto del panteismo dei poeti mistici, in nome di un’oggettiva consapevolezza molto moderna, che intuisce la nullità delle cose, magiche perché dotate solo di esistenza, non di pensiero, che in Pessoa è sempre un agente inquinante. Cosa c’è da sognare per l’uomo moderno incarcerato in un abisso di convenzioni se non la spontaneità degli animali e dei bambini, o addirittura, per l’uomo metafisico, gravato di troppi sogni e troppi incubi, lo stadio inanimato della pietra?
Pessoa sogna senza sognare, in lui vive un profondo disincanto che lo distacca dalle cose, di cui pure egli diventa il cantore: Il cantore dell’oggetto pietrificato, della “nostalgia delle cose che non furono mai” né potranno essere, teso unicamente alle commedie della propria anima, alle vicende della propria interiorità tragicamente riconosciuta senza sostanza. Pessoa vive da poeta tutte le contraddizioni della modernità e cerca di superarle attraverso l’artificio e la simulazione, per conquistarsi semplicemente uno sguardo neutro. Non si può uscire da se stessi, l’uomo è insieme la prigione e la guardia carceraria, si potesse sospendere il pensiero e accedere a cosa? Pessoa non crede alla beatitudine dell’estasi, forse la sua beatitudine era la suprema banalità per cui una cosa è quella che è. Dietro non c’è nulla nessun mistero, ma solo la superficie che riflette un profondo disincanto. Pessoa non sembra credere nemmeno alla propria poesia, al suo potere di farmaco, è disilluso tanto più cerca artificiali esaltazioni nel suo vagheggiare solitario. “C’è molta metafisica nel non pensare a nulla.”
In Pessoa ogni eteronimo racchiude un’unicità, un mistero, una voce inconfondibile, a cominciare da Bernardo Soares quello maggiormente ricalcato su Pessoa stesso, fino all’autore di una delle poesie più violentemente cupe Alvaro de Campos, prigioniero di una nave e dell’oppio, del male di vivere, colui che con gesto irato vuole troncare con ogni commedia della propria anima, in uno slancio di autenticità.
Pessoa sente con l’immaginazione e si chiede cosa significhi il passare del fiume, la vita del contabile, la tabaccheria davanti casa. C’è solo questa via, quest’angolo di mondo; l’orizzonte, l’oltre non sono temi di Pessoa che non vi crede, non c’è trascendenza alcuna, se non, e qui Pessoa involontariamente è mistico, nel non pensare. Tutt’al più quello che conta è la sensazione, il sentire trasognato di chi vive smarrito ma consapevole del proprio smarrimento, da cui trae anzi sostanza di canto universale, nel caso di Pessoa il canto della disgregazione, dell’impossibilità ad essere e della necessità di fingere, perché la sensazione finale è che per Pessoa dietro la maschera non ci sia nessuna faccia ma il vuoto.
“Non sono niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho dentro tutti i sogni del mondo.”
Alvaro de Campos” convalescente del momento”, è quasi un futurista, esalta la macchina e scaglia un ultimatum contro la Cultura borghese del suo tempo, è un poeta decadente, ”sonnambolico”, devastato dal male di vivere. Riccardo Reis è un poeta sognante, nelle sue Odi si rivolge a delle donne, anche se ogni bacio sa di congedo, e la “legge inappellabile ”gli duole dentro. Alberto Caeiro è l’antimetafisico, l’antimistico, che proclama che le cose non nascondono nessun segreto, solo si limitano ad esistere; Caeiro sembra cosi perseguire l’innocenza della pietra. Infine Bernardo Soares, l’impiegato contabile autore del Il libro dell’inquietudine, sognatore dedito all’inazione, schiacciato dalla consapevolezza metafisica della propria inanità, rinchiuso in poche vie di Lisbona a tessere le sue trame di fantasia e sogno. Pessoa incarna così una pluralità di voci, che si distinguono una dall’altra, e insieme sono unite da echi profondi.
E’ una costante simulazione, una finzione profonda, l’artificio di mille maschere che sembrano divenire autonome. La sostanza, massimamente evanescente, è in questi versi dell’eteronimo Alberto Caeiro, tradotti come tutti quelli citati da Paolo Collo.
“Altre volte a fior dei ruscelli
Si formano bolle nell’acqua
Che nascono e si disfano
E non hanno alcun senso
Salvo esser bolle d’acqua
Che nascono e si disfano.”
Tutto qui, verrebbe da dire, nessuna trama occulta, nessun senso metafisico, eppure…
La metafisica, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra, nel non pensiero infatti Pessoa riconosce la meta delle sue ambizioni, non pensiero che lo avvicina ai mistici, tanto disprezzati. Pessoa è insieme sia una cosa che l’altra, un universo di emblematiche frantumazioni, sotto il segno, algido, di una moltitudine di maschere. Qui tutto è invenzione dal nulla e consapevolezza del nulla, Pessoa interpreta l’uomo novecentesco alla massima potenza, e ci lascia ancora oggi un’idea della modernità, come luogo di questa moltiplicazione di nemesi, ombre, maschere, potenze dell’ignoto. Ascoltiamo ancora Alberto Caeiro:
“ (Lodato sia Dio perché non sono buono,
E ho l’egoismo naturale dei fiori
E dei fiumi che seguono il loro cammino
Preoccupati senza saperlo
Solo di fiorire e scorrere.
E’ questa l’unica missione del mondo,
Questa- esistere chiaramente
E saper farlo senza pensarci).”
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