lunedì 1 aprile 2013
Scrivere poesie è come urlare nel
deserto, non ti ascolta nessuno. Eppure quando vogliono glorificare un
cantautore qualsiasi lo paragonano a un poeta, convinti chissà perché di
nobilitarlo. Il più intelligente complimento che ho ricevuto in più di venti
anni che scrivo versi, me l’ha fatto recentemente il pittore Guido Antonelli:
“Lei sconta il grave handicap di essere un vero poeta.” E ha aggiunto. “La
poesia il pubblico non la capisce. Non la vuole neanche regalata.” Il residuo interesse
che una minima parte dei lettori (e non parlo della totalità delle persone, ignare
per lo più della letteratura) prova per la poesia è in grande misura verso ciò
che è monumentalizzato, dalla televisione (vedi Alda Merini) o dalla tradizione
(vedi Dante). Che dire dunque? Un mondo senza poesia per me sarebbe indegno
anche di vorticare stupidamente intorno a una stella ma sono consapevole che la
scomparsa della poesia lascerebbe indifferente la stragrande maggioranza delle
persone. Non farebbero nemmeno la fatica di tirare un sospiro di sollievo. Ed è contro tutto e contro tutti (specie gli
intellettuali, dotati della proverbiale
puzza sotto il naso) che io sostengo che la poesia è la forma più alta del
linguaggio umano, e che l’amore per le parole è il suolo su cui si costruisce
la nostra civiltà e la nostra umanità. Vaneggio? E sia.
15 commenti:
Veneggia, vaneggia! Ch'è vaneggiando che si fa poesia!
La nostra pesudocivilità, vana, vanagloriosa, vaneabonda, vana scorreggia! - ha scordato come si vaneggia.
per questo forse se ne sta attaccata in maniera così furibonda, smaniosa, frenetica, furiosa, arrabbiata, nervosa, intollerante, a una manciata ridicola di vane certezze incrollabili, rigide, assolute, confuse, informi, senza contenuto, vane, abnormi: se ne sta appiccicata sull'orlo dell'abisso a queste quattro croste di rottami sputati, credendosi al sicuro nel ripetere pochi mantra ideologici ridicoli tecnolatrici, caricature di Idee, spaventapasseri del Linguaggio, a random automatico, senza interruzione, catena montacarichi di sillabe spezzate. E in realtà sta sull'orlo dell'abisso, senza Parole, senza Silenzio, senza Amore, senza Anima, senza Cuore, senza Canto, aspettando solo di essere spazzata definitivamente via dal primo vento di passaggio.
Io rivendico il vaneggiamento, rivendico la dislessia, rivendico l'improvvisazione linguistica, la jam session dei suoni, le aporie e i paradossi del linguaggio, sani antichi mutismi contadini, lo sgorgare bdel linguaggio quando diventa una sola cosa col ritmo dell'Anima, oppure il prudente lucido sondare la contraddizione del filosofo o dell'empirista eretico. Rivendico perfino l'analfabetismo, se autentico ritorno a una reale, sana innocenza gnoseologica. Rivendico la parola come canto, suono, rumore, attenzione, disattenzione, tic, inceppamento, oblio, umore, fioritura, teatro simbolico, musica, frattura, aporia, grido, evocazione, rima, magia, natura, radici, terra, odori, cibo, istinto, selvatichezza, foreste, corpo, forza, quercia, vortice, spontaneità, oppure ricerca spasmodicamente concentrata, slogan dadaisti urlati in piazza, constatazione di catastrofi, liberazione di rabbie ed emozioni e sentimenti schiacciati, gabbie spaccate, gabbie descritte lucidamente, indagine, precisione non-logica, profezia, intuizione non motivata nè giustificata, controfattuale, saggezza animale, Tempio, ateismo, libertà, Essere.
Tutto ciò che nega la sottintesa, data per scontata, inutile, ovvia, tecnocratica economia del linguaggio contemporanea: l'economia del logico, dell'utile, del facilmente riconoscibile, del facilmente inquadrabile, classificabile, divulgabile, applaudibile, propagandabile, ripetibile, minimizzabile.
Che dire?
D'accordo su tutto il fronte.
Da grande avrei voluto fare la poetessa, sai. Non ce l'ho fatta.
In particolare rivendico la parola, poetica ma non solo, come ritmo.
La nostra società, e il suo linguaggio, sono malati di assenza di ritmo.
Nonostante l'insistenza sulla dimensione cronologica, frenetica, cinematica, la nostra società non ha un ritmo, è malata di ritmo spezzato, inceppato, tachicardico, impazzito, fino alla scomparsa di un qualsiasi ritmo, in una dimensione informe. Perciò non ha tempo.
Ritmo è respiro. Musica con un respiro. Pulsazione radicata in un luogo, un tempo, un corpo, una situazione. Suono ordinato da una pulsazione ritmica, non importa se appassionata e veloce o lenta e dondolante.
Nella nostra società invece tutto è senza tempo, senza luogo (è fatta di non-luoghi) senza corpo proiettata in un virtuale sintetico, e astratta, universale: crea un linguaggio adatto a qualsiasi situazione, qualsiasi luogo, chiunque, qualsiasi luogo, applicabile a qualsiasi cosa.
La parola poetica, come anche semplicemente ogni parola realmente umana, hanno un suono, un ritmo, un respiro, una specificità che ci riporta al corpo, al presente, al tempo, all'emotivo radicato fisicamente, concretamente incarnato in un cuore, in muscoli, nervi, pensiero, sinapsi, su un luogo di una Terra.
Paradossalmente, anche se a volte l'esperienza poetica può dare l'impressione di portare fuori dal tempo, in una dimensione atemporale, la mia impressione è invece che le esperienze poetiche siano fra le poche, oggi, che ci facciano realmente percepire il Tempo, che ci riconducano al Tempo, ci facciano entrare nel Tempo. Cioè in un Ritmo. Solo percependo Altri Tempi, Tempi Altri, forse, possiamo riallinearci al Tempo, al cuore pulsante del Ritmo.
@Diogene
La poesia non è mai stata di moda. Certo la nostra epoca, dove vige, come scrivi anche tu, un pensiero calcolante, maniaco dell’utile e dell’efficienza, è veramente nemica della poesia. Bello il tuo entusiasmo e la tua rabbia. Non bisogna rassegnarsi, bisogna resistere, non dico sperare, perché la speranza appartiene a un orizzonte religioso che mi è sempre più estraneo. Condivido pienamente le tue riflessioni sul ritmo che è tempo.
Beh, Euridice, ciò che scrivi sul blog ha spesso a che fare con la poesia. Non direi che non ce l’hai fatta. Forse semplicemente l’aureola - corona di spine della poetessa non ti serve.
Ettore, nelle mie parole c'è della rabbia, ma prevale nettamente l'entusiasmo, insieme a un sano divertimento dell'inveire in maniera gratuita, ingiustificata, deliquiante.
Porto i ringraziamenti di Guido alla citazione che è drammaticamente vera. Ho sempre pensato che la poesia sia essensialmente una forma di conoscenza del reale: la parola che penetra nella trama del reale e scova significati che la razionalità non può cogliere.
La poesia non è sentimento (questo lo sono le canzonette). E' conoscenza. Pura.
Ciao e complimenti come sempre.
Alex
(perchè nella gratuità sta l'uscita dalla logica calcolante).
A Logos: bello "una forma di conoscenza del reale: la parola che penetra nella trama del reale e scova significati che la razionalità non può cogliere."
però poesia è anche, o meglio può essere anche sentimento, come può essere desiderio, passione, litania, preghiera, riflessione teoretica, metafisica, canto, rapsodia, ninnananna, sinfonia, zufolo, paradosso filosofico, liberazione dell'immaginazione, cruda descrizione lucida, emozione sbrigliata, pulsazione ritmica/vibrazione fisico-emotiva... la poesia può essere un sacco di cose, e per dirlo meglio, è tutte queste cose insieme perchè nella poesia, come più in generale in tutta l'arte più autentica, tutte queste cose non sono più distinte, la pancia il cuore l'intuizione la mente il corpo l'immaginazione il sentimento l'emozione possono essere tutte imbrigliate e allineate da un unico canto, un unico ritmo, un'unica canzone lirica che ricompone e conduce tutto l'intero nostro essere, come una cosa sola e non più come un insieme frammentato di parti separate, a seguire un'unica vibrazione, un'unico canto, un unico ritmo, il filo rosso di un'unica intuizione che com-prendiamo con tutto il nostro essere. Poesia può anche in certi casi mostrare e descrivere fratture e contraddizioni insanabili fra nostre diverse parti e desideri, tuttavia lo fa sempre all'interno di una dimensione che, anche solo esibendo la frattura e la contraddizione, si muove verso l'unificazione e l'allineamento lungo un unico midollo spinale ontologico/ritmo dell'essere/sentiero animico di riunificazione del nostro essere.
@Logos
Metti il dito nella piaga di un grande fraintendimento. Anche secondo me la poesia non è mai sentimentale, se non nelle sue caricature e contraffazioni. E’ davvero un atto conoscitivo che ci mette a nudo, un percorso sapienziale. Grazie Alex, un caro saluto a te e a Guido.
@ Diogene
Sicuramente la poesia è una miriade di cose, e ogni tentativo di definirla la limita. Ognuno predilige un aspetto. Io devo molto alla visione di Eliot, sintetizzata in questa sua frase: “La poesia non è una liberazione di emozioni, ma una fuga dalle emozioni; non è l'espressione di personalità, ma una fuga dalla personalità.”
“Così, dunque, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire da un vecchio maestro di chitarra: «Il duende non sta nella gola; il duende sale interiormente dalla pianta dei piedi». Vale a dire, non è questione di facoltà, bensì di autentico stile vivo; ovvero di sangue; cioè, di antichissima cultura, di creazione in atto.
“Questo «potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega» è, insomma, lo spirito della terra, lo stesso duende che abbracciò il cuore di Nietzsche, il quale lo cercava nelle sue forme esteriori sul ponte di Rialto o nella musica di Bizet, senza trovarlo e senza sapere che il duende da lui inseguito era saltato dai misteriosi greci alle ballerine di Cadice o al dionisiaco grido strozzato della seguiriya di Silverio.”
“Ogni uomo, ogni artista, rievocherà Nietzsche; ogni scala che sale nella torre della propria perfezione è il prezzo della lotta che sostiene con un duende, non con un angelo, come si è detto, né con la sua musa. “
“Angelo e musa vengono da fuori; l’angelo dà luce e la musa dà forme (da loro apprese Esiodo). Pane d’oro o piega di tuniche, il poeta riceve regole nel suo boschetto di alloro. Di contro, il duende bisogna svegliarlo nelle più recondite stanze del sangue.
E respingere l’angelo e tirare un calcio alla musa, e perdere la paura della fragranza di violette che esala la poesia del Settecento e del gran telescopio nei cui cristalli s’addormenta la musa malata di limiti.
La vera lotta è quella con il duende.”
“Per cercare il duende non v’è mappa né esercizio. Si sa soltanto che brucia il sangue come un topico di vetri, che prosciuga, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che fa sì che Goya, maestro nei grigi, negli argenti e nei rosa della migliore pittura inglese, dipinga con le ginocchia e i pugni in orribili neri di bitume.”
"Una volta, la cantaora andalusa Pastora Pavón, «La bambina dei pettini», cupo genio ispanico, pari in capacità fantastica a Goya o a Rafael il Gallo, cantava in una taverna di Cadice. Giocava con la sua voce d’ombra, con la sua voce di stagno fuso, con la sua voce coperta di muschio, e se la intrecciava nella chioma o la bagnava nella camomilla o la perdeva in gineprai oscuri e lontanissimi. Ma niente; era inutile. Gli ascoltatori restavano zitti."
"Solo, e con sarcasmo, un uomo piccolino, di quegli ometti ballerini che escono all’improvviso dalle bottigliette di acquavite, disse con voce grave: «Viva Parigi!», come a dire: «Qui non ci interessano le capacità, né la tecnica, né la maestria. È altro ciò che ci interessa».
“Allora La bambina dei pettini si alzò come una folle, gobba come una prefica medievale, trangugiò d’un sol sorso un gran bicchiere d’acquavite come fuoco, e si sedette a cantare senza voce, senza fiato, senza sfumature, con la gola riarsa, ma… con duende. Era riuscita a uccidere l’intera impalcatura della canzone per cedere il posto a un duende furioso e rovente, amico dei venti carichi di sabbia, che induceva gli ascoltatori a stracciarsi le vesti quasi al medesimo ritmo dei negri antillani del rito ammassati dinnanzi all’immagine di santa Barbara.
La bambina dei pettini dovette squarciarsi la voce, perché sapeva che gli ascoltatori erano dei raffinati che non chiedevano forme, bensì midollo di forme, musica pura dal corpo leggero per potersi mantenere in aria. Dovette privarsi di facoltà e di sicurezze; ossia, allontanare la sua musa e rimanere indifesa, affinché il suo duende venisse e si degnasse di lottare a viva forza. E come cantò! La sua voce non giocava più, era un fiotto di sangue degno del suo dolore e della sua sincerità, e si apriva come una mano di dieci dita sui piedi inchiodati, ma pieni di tempesta, di un Cristo di Juan de Juni.”
“In tutta la musica araba, danza, canzone o elegia, il sopraggiungere del duende viene salutato con energici «Allah! Allah!», «Dio! Dio!», tanto vicini all’«Olé!» della corrida che chissà che non siano la stessa cosa; e in tutti i canti della Spagna meridionale l’apparizione del duende è seguita da sincere grida di «Viva Dios!», profondo, umano, tenero grido di una comunicazione con Dio per mezzo dei cinque sensi, grazie al duende che agita la voce e il corpo della ballerina, evasione poetica e reale da questo mondo, pura come quella raggiunta dallo stranissimo poeta del secolo XVII Pedro Soto de Rojas attraverso sette giardini, o quella di Juan Clímaco per una tremolante scala di pianto.” (F. Garcia Lorca, Gioco e teoria del Duende)
Bello, grazie Diogene. Non conoscevo questo brano di Garcia Lorca.
Posta un commento