sabato 18 gennaio 2014
Mi sembra che con questo testo, Granovisioni, Elena Giacomelli
sperimenti una dicotomia fondamentale che lacera l’animo del poeta: da una
parte la pulsione a voler dire tutto, dall’altra l’angoscia di non lasciare
tracce. E’ un turbine. Così Elena Giacomelli crea un linguaggio sospeso,
irrequieto, elusivo, enigmatico, per rivelare e nascondere la natura
essenzialmente metafisica del suo sguardo. Metafisica qui è intesa come opera
di galleggiamento, di sospensione, rottura di significati che finiscono per
colare come un liquore stregato.
Il tentativo è far presa sulla realtà,
fotografare attimi dispersi nel fluire del tempo, come nella splendida poesia Undici storie dove ogni oggetto, ogni
personaggio, ogni animale protagonista, con la sua sola presenza accennata, suggerisce
una storia, ma non la esaurisce didascalicamente: è l’abbozzo di una linea che,
inevitabilmente, tende all’infinito. Così gli ultimi versi prolungano lo
sguardo ben oltre l’hic et nunc: “la storia del calzolaio che seguiva le
scarpe/ delle donne nelle strade buie.” E’ un seguire l’imponderabile,
l’immisurabile, che fa la potenza di queste poesie, con il loro, in fondo
visionario, mormorio sospeso fra sogno e realtà, fra poesia e la sua assenza,
fra “prosaiche mire” e gli inganni
del tempo.
Troviamo nel testo domande che da
sole evocano mondi: “soltanto attraverso
i poeti posso scolpirmi/ nuove facce?” dove fatalmente “ogni coscienza è una molecola dispersa” e dove l’io poetante si riconosce a fatica solo nell’immagine di
un “disco rotto”. Così tutto è un calcolare distanze, fra la
propria pelle e quella altrui, perché anche l’intimità o la lontananza si
possono misurare, fra l’esistenza del singolo e quella collettiva, fra il
desiderio e il possibile. Si prende atto
della separazione che intercorre fra la creazione poetica e il “brodo oscuro del pensiero acritico. “.
E’ una poesia molto materica, materica
fino a una strana evanescenza, come se il microscopio dei versi ci restituisse
una realtà troppo nuda per essere vista, troppo scorticata per essere sanata.
Troppa luce acceca, troppa invisibilità è in realtà un’epifania. Ciò che si
agita dentro i versi costringe al silenzio, perché ”Qualcosa si appropria delle mie/
parole e le spappola”. Così il linguaggio fragile della poesia è
assediato da ombre, fantasmi, ricordi, visioni irrisolte, frammenti del caso e
del caos. Ed è proprio il caso che sembra muovere noi, pedine umane, verso
l’impossibilità di portare “a termine
alcunché”.
La poesia di Elena Giacomelli si situa in
un’impasse, in una ferita ontologica. Che cosa abbia causato la ferita è un
urto, con il reale, o meglio con la sua tragica assenza. Così sembra che queste
poesie si situino in quello che Guy Debord chiamava ”il cuore dell’irrealismo contemporaneo”. Non c’è una vera e propria
deriva onirica (illusoria e perciò salvifica) in questi versi che colpiscono
per la loro lucidità di specchi. Sono come placidi laghi in cui però la nostra
immagine non si riflette, perché qualcosa ha decretato la nostra scomparsa.
Così non c’è quasi traccia dell’autrice,
manca in queste poesie l’autobiografismo in cui cade facilmente il poeta
al suo esordio. C’è all’opera una maturità che, oltre che stilistica, è intellettuale ed esistenziale.
Il poeta ha un dono ma questo
dono è anche una condanna. Perché egli finge di poter trasformare in pietra le
immagini che in realtà gli sono affidate solo dal caso. Non c’è una vera e
propria regia dietro ai versi (eppure qui tutto sembra calcolato al millesimo) ma solo la casualità
folle di un turbine di foglie che volano e che l’autore al pari del lettore
cerca di afferrare. Afferrare un senso magari, addentarlo. Ma no, la poesia sfugge
loro, equivoca e inafferrabile. Allora sembra che questi versi siano affiorati
dal nulla, come rune di un inesplicabile dettato contemporaneo. Anche in
questo, Granovisioni di Elena
Giacomelli è una rivelazione: ci mostra oltre ogni dubbio che tutto ci sfugge,
ci rotola davanti, si annichilisce, si cancella. Ciò che rimane è il dolore, o
forse l’estasi, di questa cancellazione. Com’è possibile dar forma, compito
supremo dell’artefice, se tutto si disgrega?
“Accade di trovarsi storditi e divisi dalla frenesia di dare una forma a
ciò in cui si ha voglia di perdersi e disgregarsi prima di essere riusciti a
farlo. Così tutto resta sospeso in una bolla di potenzialità[…]”
Elena Giacomelli indaga e indugia
in questa “bolla di potenzialità”,
dove tutto è possibilità, promessa, anelito, in cerca della “squisitezza di un abbandono”, parola
chiave quest’ultima per comprendere le
dinamiche di una scrittura all’apparenza
molto controllata, in realtà attraversata nel profondo da paure e
inquietudini molto contemporanee e che in ogni momento sembra sul punto di
deflagrare.
2 commenti:
Grazie Ettore. Non so dire se è stata più grande la sorpresa o il piacere di ritrovarmi su queste pagine.
Un caro saluto
Elena
Anch’io ti ringrazio, Elena, per le belle parole che hai speso per me sul tuo blog.
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