lunedì 31 agosto 2009
Dieci brevi saggi compongono questo libro in cui il pensiero di Agamben si muove nei territori della letteratura e della filosofia, affrontando la sfida della contemporaneità che vuole concetti su cui edificare un senso, laddove la società sembra essere allo sbando dei luoghi comuni vociferanti un po’ ovunque.
Così nelle parole di Agamben Genius il dio latino della generazione, il dio personale che vigila sulle nostre esistenze, diventa il simbolo dell’impersonale che abita dentro di noi, e che rappresenta aldilà delle codificazioni della coscienza la nostra parte più profonda e inconoscibile, con la quale si possono intrattenere solo rapporti indiretti, ed è il sostrato di ignoto la cui conoscenza è difficile e pericolosa e il cui apporto è però fondamentale. Il Genius di ciascuno va ascoltato perché in esso risiede la voce del nostro destino più profondo, bisogna dunque vedere nelle nostre manie l’espressione di un’esigenza superiore, quella di Genius. Ma questi, che è un dio personale, è anche l’espressione di ciò che in noi “ci supera e ci eccede” è “l’impersonale, il pre-individuale”, ciò che trascende la singolarità e va aldilà di ogni principium individuationis e Genius partecipando di queste realtà ci è perciò sottratto, è la zona di ignoto che anela a quell’emozione profonda che vive in noi, quella che Nietzsche chiama “sensazione suprema”e può essere la gioia come l’angoscia, la sofferenza come l’estasi.
Agamben cita solo en passant la parola inconscio, preferendo dare alle sue tesi un’impronta filosofica, ma dopo la psicoanalisi l’ignoto che c’è in noi ha acquisito una fisionomia particolare e diventa difficile andare oltre le suggestioni junghiane, Agamben ci prova ricordandoci sostanzialmente che noi siamo soprattutto quello che di noi stessi non sappiamo e probabilmente solo nell’incontro con l’altro troviamo un possibile contatto con Genius,“ l’emozione rimasta in noi incomprensibile”. Quando scrive dei poeti dice una verità indubitabile: il poeta è colui che vuole nascondersi, vuole essere trascurato, questa era già un’ossessione di Carmelo Bene che lo ha ripetuto fino allo sfinimento, il filosofo paragona questo desiderio di oscurità al bambino che si nasconde in una cesta o in una soffitta, e che mai rinuncerebbe al piacere di questo nascondiglio, che gli trasmette un'ebbrezza particolare, e forse il senso di una libertà assoluta,” Noi non siamo al mondo “ in effetti poterebbe essere il grido che da Rimbaud ad Artaud riecheggia nei versi dei poeti, il cui misconoscimento è spesso parte del gioco della loro opera.
Scrivendo di fotografia, ne sottolinea la dimensione di fascino metafisico, e vede soprattutto nella sua misteriosa banalità la profezia del giorno del giudizio, scrivendo di letteratura afferma la presenza dell’autore unicamente nel “gesto che rende possibile l’espressione, nella misura stessa in cui insedia in essa un vuoto centrale”; autore la cui presenza fantasmatica è proprio quel “vuoto leggendario” da cui procede misteriosamente il discorso, “ l’illeggibile che rende possibile la lettura “.
Un saggio è dedicato al tema della parodia di come questa nasca introducendo una discordanza, una separazione fra melos e logos, e si sviluppi nei secoli nella necessità assoluta anche di una profanazione, in grado forse di restituirci un senso diverso del sacro. A proposito della felicità ne vede il sottile legame con la magia, la necessità che essa arrivi per caso senza che vi sia un merito, e in questo il filosofo vede un’etica superiore, quella per cui della felicità si può essere consapevoli dopo che è passata, non mentre la si vive, ed è appunto una magia il fatto che essa, di fatto, mai ci appartenga, e citando Benjamin Agamben ci ricorda che la nostra più grande sofferenza infantile è stata proprio riconoscere la nostra “incapacità di magia”.
Ma il saggio più importante è forse il penultimo, Elogio della profanazione, in cui una profonda riflessione sulla società capitalistica si unisce a una meditazione sulla natura della profanazione, e di come questa sia divenuta oggi impossibile. Se “Profanare significa restituire all’uso comune ciò che è stato separato nella sfera del sacro” quella che Agamben chiama “religione capitalistica” alienando e allontanando la realtà in una pura rappresentazione spettacolare, separando ogni cosa da se stessa e trasferendola nella dimensione del consumo, impedisce la fruizione del reale e quindi tutto diventa impossibile da profanare, da usare, perché tra questi concetti come si è visto Agamben individua una similarità, solo nel gioco è ancora possibile il gesto di una profanazione, che restituisca all’uso, ciò che è stato separato.
“I bambini che giocano con qualunque anticaglia … trasformano in giocattolo anche ciò che appartiene alla sfera dell’economia, della guerra, del diritto …”
In questo modo , scrive Agamben, queste potenze disattivate e profanate nel gioco , diventano
“ la porta di una nuova felicità”, che consiste nel mandare in corto circuito i “dispositivi del potere “ e restituire “ all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato “. Perciò la profanazione si configura come uno degli obiettivi di una nuova politica, che vada in una direzione opposta a quella della “religione capitalistica “ e questo è il compito che Agamben affida alle nuove generazioni: “la profanazione dell’improfanabile”.
Profanazioni è edito da Nottetempo
Così nelle parole di Agamben Genius il dio latino della generazione, il dio personale che vigila sulle nostre esistenze, diventa il simbolo dell’impersonale che abita dentro di noi, e che rappresenta aldilà delle codificazioni della coscienza la nostra parte più profonda e inconoscibile, con la quale si possono intrattenere solo rapporti indiretti, ed è il sostrato di ignoto la cui conoscenza è difficile e pericolosa e il cui apporto è però fondamentale. Il Genius di ciascuno va ascoltato perché in esso risiede la voce del nostro destino più profondo, bisogna dunque vedere nelle nostre manie l’espressione di un’esigenza superiore, quella di Genius. Ma questi, che è un dio personale, è anche l’espressione di ciò che in noi “ci supera e ci eccede” è “l’impersonale, il pre-individuale”, ciò che trascende la singolarità e va aldilà di ogni principium individuationis e Genius partecipando di queste realtà ci è perciò sottratto, è la zona di ignoto che anela a quell’emozione profonda che vive in noi, quella che Nietzsche chiama “sensazione suprema”e può essere la gioia come l’angoscia, la sofferenza come l’estasi.
Agamben cita solo en passant la parola inconscio, preferendo dare alle sue tesi un’impronta filosofica, ma dopo la psicoanalisi l’ignoto che c’è in noi ha acquisito una fisionomia particolare e diventa difficile andare oltre le suggestioni junghiane, Agamben ci prova ricordandoci sostanzialmente che noi siamo soprattutto quello che di noi stessi non sappiamo e probabilmente solo nell’incontro con l’altro troviamo un possibile contatto con Genius,“ l’emozione rimasta in noi incomprensibile”. Quando scrive dei poeti dice una verità indubitabile: il poeta è colui che vuole nascondersi, vuole essere trascurato, questa era già un’ossessione di Carmelo Bene che lo ha ripetuto fino allo sfinimento, il filosofo paragona questo desiderio di oscurità al bambino che si nasconde in una cesta o in una soffitta, e che mai rinuncerebbe al piacere di questo nascondiglio, che gli trasmette un'ebbrezza particolare, e forse il senso di una libertà assoluta,” Noi non siamo al mondo “ in effetti poterebbe essere il grido che da Rimbaud ad Artaud riecheggia nei versi dei poeti, il cui misconoscimento è spesso parte del gioco della loro opera.
Scrivendo di fotografia, ne sottolinea la dimensione di fascino metafisico, e vede soprattutto nella sua misteriosa banalità la profezia del giorno del giudizio, scrivendo di letteratura afferma la presenza dell’autore unicamente nel “gesto che rende possibile l’espressione, nella misura stessa in cui insedia in essa un vuoto centrale”; autore la cui presenza fantasmatica è proprio quel “vuoto leggendario” da cui procede misteriosamente il discorso, “ l’illeggibile che rende possibile la lettura “.
Un saggio è dedicato al tema della parodia di come questa nasca introducendo una discordanza, una separazione fra melos e logos, e si sviluppi nei secoli nella necessità assoluta anche di una profanazione, in grado forse di restituirci un senso diverso del sacro. A proposito della felicità ne vede il sottile legame con la magia, la necessità che essa arrivi per caso senza che vi sia un merito, e in questo il filosofo vede un’etica superiore, quella per cui della felicità si può essere consapevoli dopo che è passata, non mentre la si vive, ed è appunto una magia il fatto che essa, di fatto, mai ci appartenga, e citando Benjamin Agamben ci ricorda che la nostra più grande sofferenza infantile è stata proprio riconoscere la nostra “incapacità di magia”.
Ma il saggio più importante è forse il penultimo, Elogio della profanazione, in cui una profonda riflessione sulla società capitalistica si unisce a una meditazione sulla natura della profanazione, e di come questa sia divenuta oggi impossibile. Se “Profanare significa restituire all’uso comune ciò che è stato separato nella sfera del sacro” quella che Agamben chiama “religione capitalistica” alienando e allontanando la realtà in una pura rappresentazione spettacolare, separando ogni cosa da se stessa e trasferendola nella dimensione del consumo, impedisce la fruizione del reale e quindi tutto diventa impossibile da profanare, da usare, perché tra questi concetti come si è visto Agamben individua una similarità, solo nel gioco è ancora possibile il gesto di una profanazione, che restituisca all’uso, ciò che è stato separato.
“I bambini che giocano con qualunque anticaglia … trasformano in giocattolo anche ciò che appartiene alla sfera dell’economia, della guerra, del diritto …”
In questo modo , scrive Agamben, queste potenze disattivate e profanate nel gioco , diventano
“ la porta di una nuova felicità”, che consiste nel mandare in corto circuito i “dispositivi del potere “ e restituire “ all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato “. Perciò la profanazione si configura come uno degli obiettivi di una nuova politica, che vada in una direzione opposta a quella della “religione capitalistica “ e questo è il compito che Agamben affida alle nuove generazioni: “la profanazione dell’improfanabile”.
***
Profanazioni è edito da Nottetempo
0 commenti:
Posta un commento