Marcia gioie - Massimo Fantuzzi

sabato 28 maggio 2011

“Passionisti della comunicativa, si credono soggetti e sono assoggettati.”

“La poesia è il riecheggiar del dire oltre il concetto”.

Carmelo Bene

Cosa succede quando un poeta crea un suo proprio linguaggio, riesce nella sua sfarinatura della lingua a “inesprimere l’esprimibile” secondo il dettato di Barthes? Crea lo sconcerto davanti alla vertigine e voragine del linguaggio, crea la dissoluzione della lingua nella sua caricatura mezzo profetica e mezzo insensata.

Questo ha fatto Massimo Fantuzzi, per esempio, in questo piccolo libro per bibliofili, Marcia gioie, pubblicato nel 1999 da Alkalea edizioni, e che rileggo oggi dopo diversi anni. La sensazione è che parlarne sia già un fuori tema, perché bisognerebbe assumere su di sé il suo stesso linguaggio, che vive in assenza di tornaconti comunicativi, inventando il poeta questo balbettio ancestrale, questo linguistico” incespicare”, che fa la scrittura di questo prosimetro di rara intensità. Perché enorme pare il lavorio sul linguaggio che Fantuzzi elabora, tesse, plasma come sorta di respiro ininterrotto, o d’ininterrotto me ne frego alle dinamiche di ogni comunicativa. Perché qui, c’è la deformazione di ogni comunicato stampa della prosa, nella deriva schizo di un flusso che si disarticola. Si disarticola non per movimento involontario, ma perché profondamente pensato, riscritto, meditato, ” ruminato” nell’accezione nicciana.

Che cosa significa elaborare il proprio linguaggio, il proprio linguacciuto becchettare? Forse significa trarre dalla propria povertà un “Mosè spillato ad oro”, un invasamento pitico, uno strabordare epico o eroico di noi stessi, soprattutto di quel grumo d’inconoscibile che risiede in noi. E’ un gioco certo, ma in cui si rischia la mente. Fantuzzi riesce in un’impresa non di poco conto: trattare la parola da pari a pari, su un terreno di liberatoria mistificazione, consapevole della sua potenza d’inafferrabile. Così le sue poesie o le sue prose appaiono come degli enigmi senza soluzione, dei raggiri, delle mistificazioni di cui è impossibile afferrare la sostanza eppure la si vede, s’intuisce quello che Sgalambro chiama il “nocciolo duro della poesia”, questo luciferino diamante sfavilla innanzi a noi e subito dispare. L’impressione è che si voglia rendere l’oralità, con tutte le sue incrinature, con un linguaggio che potrebbe essere accostabile per certi versi al grammelot, al linguaggio verde degli alchimisti, all’argot della malavita, con la nostalgia per il pensiero selvaggio e infantile designato dalle glossolalie, cui certi pastiche linguistici fanno evidente riferimento.

L’autore soffrì da bambino di un disturbo fonetico, che gli impediva la parola fluente, così si ritrasse nella solitudine della scrittura, elaborandone una di complessità stilistica notevole, una scrittura volutamente involuta, scostante, solipsistica, elitaria. Inutile cercare punti di riferimento: le prose e le poesie di Fantuzzi si negano a ogni comprensibilità, creano il loro mondo, le loro suggestioni, senza neanche mendicare una voce dalla tradizione cui fare riferimento. Sembrano a volte addirittura negare la possibilità della propria fruizione, ergo non possono essere consumate. Opera a tratti sommamente autistica, a tratti potentemente ebbra di sé, Marcia gioie esplora le dinamiche oscure del linguaggio, inesprimendo la quotidianità, trasfigurandola in un ardito gioco linguistico, che non conosce altro che il proprio ordito inesplicabile, la propria vitalità elegantemente sconnessa e forse aggressiva.

Così le vicende quotidiane diventano misteriose come un’epifania sacrale, dove il sacro sta tutto nell’atto della scrittura, azione meditata sul filo del non sense, contestazione radicale della stessa forma della poesia, invenzione di una lingua propria, aggressione verbale contro” l’oggi tutto demoplutocalcistico”. La sensazione è proprio questa: se non c’è nulla di inesprimibile nel linguaggio corrente, se tutto è detto, l’eccessiva dicibilità del reale è avvertita poeticamente come un sopruso e allora diventa necessario trasformare il nostro linguaggio in un luminoso balbettio e balletto schizoide, per evitare di collassare dentro i luoghi comuni del pensiero prosastico e coerente. Quanta cultura bisogna avere fatto a pezzi, quanti libri bisogna aver meditato e stracciato, per arrivare a elaborare questo linguaggio furiosamente e lucidamente solipsistico, che sembra negare ogni assioma e assunto della nuova divinità contemporanea: la comunicazione.

In un tale contesto di sparizione, la domanda sul senso rimane equivoca e inevasa, la lingua di Fantuzzi è artificiale, proprio nel senso di un fuoco d’artificio che per un attimo appare in cielo e poi più nulla, cosa è stato? meraviglia, forse, la consapevolezza che comprendere è sempre un atto illusorio, il significante è più forte del significato, la poesia è ritmo, se non può più essere melodia, lasciamo che ci sconcerti nascondendosi e rivelandosi a suo piacimento. Poesie e prose grandemente autoreferenziali e anticoncettuali che mettono a durissima prova il lettore, ma al tempo stesso esprimono una strana, equivoca, leggerezza, pur nello sfaldamento anche sintattico, leggerezza di un dettato colto ma al tempo stesso misteriosamente infantile.

Così quella di Fantuzzi, straniero nella sua stessa lingua, è un’operazione di spellamento del linguaggio- linguaggio freddo come il ghiaccio oppure caldo come un abbraccio- la sua è un’operazione di dissodamento della parola, che finalmente rivela tutto il suo balbettio, la sua primordiale evanescenza. La scrittura di Fantuzzi sembra il preludio del dissolvimento di ogni soggettività, la sua poesia è tutta segni, significanti in balia di una forza estranea, contro cui il poeta si scontra per far scintillare la sua meccanica linguistica, traccia di qualcosa che svanisce, il senso, e quello che rimane è pura parodia, derisione del tentativo stesso di cercarlo, questo benedetto senso, dal sapore sempre consolatorio e reazionario. Non c’è più soggetto dicevo, dunque forse non c’è più lirismo, l’epos c’è, invece, ed è tutto nel sentire oceanico, che inscena questa lingua - maschera, che pare osservarci beffarda.

Io non ho paura, il mio Signore ad istruirmi venne: solo i graffi restano quel tanto.”

2 commenti:

Elena ha detto...

Qualcosa come andare oltre le colonne d'Ercole del linguaggio standoci dentro? La gioia credo stia nel superamento di quei confini, con quell'unico fine. E' bellissimo, ciò che scrivi

Ettore Fobo ha detto...

E' esattamente come dici tu, Elena.
Aggiungo che mi sembra una ricerca di trascendenza, il linguaggio è la totalità, e in quanto tale, non deve più essere usato per esprimersi, comunicare, ma stare innanzi a noi come oggetto assoluto, pressoché intangibile. Grazie del complimento, un caro saluto.