Dialoghi della conoscenza – Vicente Aleixandre

sabato 18 giugno 2011

Questi Dialoghi della conoscenza risalgono al 1974, tre anni prima che Vicente Aleixandre vincesse il premio Nobel per la letteratura. Il titolo è ambiguo e un poco fuorviante, non si tratta, infatti, di dialoghi ma di monologhi, monologhi che tutt’al più si riecheggiano e sono strutturati intorno a svariati personaggi; il vecchio, la ragazza, il torero, il dandy, il pellegrino, l’inquisitore, etc., che si confrontano indirettamente su una raggiera di temi che circolarmente ritornano. Principalmente si tratta qui di sperimentare la differenza fra conoscere e sapere, dove l’uno, il conoscere, significa il vivere e la giovinezza, l’altro, il sapere, la morte e la vecchiaia. Che i dialoghi siano elusi non è un caso, tutti questi personaggi vivono, infatti, nell’incubo di una solitudine senza rimedio, così in queste poesie l’affermazione” Sono solo” ricorre ossessivamente. Ciascuno è come chiuso in una dimensione di incomunicabilità e fronteggia una natura indifferente alla sua sorte, o addirittura nemica: “ La notte/ è infida e a volte nasconde un pugnale silenzioso.”

Il procedimento di molti di questi personaggi è apodittico e sentenzioso, ma tale polifonia serve all’autore paradossalmente per celebrare la centralità del dubbio, che però mi sembra avere a volte un’accezione negativa, giacché, come si dice in una poesia, credere coincide con il vivere. Ma su ogni tema Aleixandre esprime una duplicità, per questo è difficile trovare univocità in queste parole che si contraddicono. Risuonano le parole di Simone Weil: “ La nostra vita è impossibile, assurdità. Ogni cosa che noi vogliamo è contraddittoria con le condizioni o le conseguenze relative; ogni affermazione che noi pronunciamo implica l’affermazione contraria; tutti i nostri sentimenti sono confusi con il loro contrario.” Così il poeta spagnolo agisce sul filo di una vertigine di ambivalenza, e in molti di questi finti dialoghi affermazioni contrarie si contendono la scena.

Questi personaggi, pur sforzandosi di accogliere il reale, non sempre vi riescono, sembrano spesso naufragare nella propria disfatta e insensatezza, in certi casi sono simili a morti che vagano nell’ ”inquieta città”. Ma l’esperienza di questi personaggi non è puramente negativa , è anche un’ immersione nel mondo dei sensi, nella luce di Spagna, nel sentire che è vivere, a differenza del pensare che sembra essere una fuga dall’immediatezza stessa dell’esistenza. La vita è riconosciuta nella sua pienezza solo dal sentimento, poiché “ chi sente vive e continua a vivere”, anche se talvolta il pensiero, perlopiù scisso dal sentire, è percepito come la totalità dell’esistenza umana, totalità spesso negativa, riconoscimento della futilità di tutto, o altrove, più positivamente, è un semplice brivido di compenetrazione uomo - cosmo.

Il dato dei sensi sarà anche, come vogliono i filosofi, ingannevole, Aleixandre è più interessato a riconoscere la vitalità sottesa a questo inganno ”mentre il mistero continua” . Poiché “la scienza è un regno in cui l’uomo si perde” non è il vero conoscere, il quale s’identifica con il vivere stesso, è piuttosto il sapere, latore di morte e d’imperscrutabile sonno, abisso della vecchiaia che non desidera e non chiede più nulla, forse neanche la morte, ottenuta già in vita, con questo simulacro di vita.

Meleusina, la maga, dichiara con orgoglio la propria solitudine, che è il segno del suo non essere proprietà di nessuno, “ Sono di me stessa, e di nessuno”, il dandy percorre la città con il suo “bastone tristissimo” e la sua eleganza sembra un fiore all’occhiello del suo stesso cadavere, Pietro il pellegrino cerca Dio e lo trova solo nella pietra che calpesta, il torero in una vertigine scopre che “la vita è un inganno” ed egli lo affronta a corpo aperto”, l’inquisitore è preda di un furibondo desiderio di distruzione , ”Ma brucino tutti!”.

Ciascuno è solo, anche il figlio e il padre si fronteggiano senza potersi sfiorare, ognuno chiuso nel suo bozzolo di solitudine, dove anche “amare è qualcosa/ d’inevitabile o semplicemente un modo/ di esistere: la coscienza”.

Aleixandre ci regala con il suo tono pacato una riflessione sull’esistenza, dove tutto sembra sfuggirci e abbandonarci, rimane solo il conoscere, anelito che deve però rimanere inappagato, sforzo senza esito, pena la morte in vita che così tanta importanza ha in questo testo, enigmatico nella sua intelligente, a tratti ieratica, semplicità.

Dialoghi della conoscenza è un libro che non colpisce immediatamente, ma con forza si insinua nella mente dopo diverse letture, forte della sua lentezza di investigazione spirituale, opera di un poeta giunto alla vecchiaia e alla gloria letteraria senza più illusioni e con una grande nostalgia della giovinezza. La vecchiaia, che coincide con il sapere, è, infatti, vista unicamente come negativa, la conoscenza sembra essere possibile solo nella gioventù, il resto è declino, il sapere, esito di questo sforzo, soltanto un astro spento, e talvolta in alcune poesie sembra addirittura impossibile trovare la forza semplicemente per rimpiangere l’antica luce, in altre invece, quelle in cui risuona la voce della gioventù, la vita ci sorprende con la sua potenza.

6 commenti:

zoon ha detto...

un abbraccio a te, ragasso, che ci si riveda presto :)

Antares666 ha detto...

Grazie della visita e del commento!
Un forte abbraccio :)
Marco

Elena ha detto...

Mi piace tanto questa parola: insensatezza. Del tempo e della solitudine, dell'esistere. Il quadro di Hopper è perfetto sopra questo tuo modo di far sentire il freddo della coscienza poetica.

Ettore Fobo ha detto...

Grazie, Elena, in effetti, dicendo “ il freddo della coscienza poetica”, hai centrato in pieno la questione. C’è una frase emblematica di Emily Dickinson:

” Quando vengo a contatto con la poesia, sento un freddo così intenso che penso nessun fuoco potrà mai più riscaldarmi.”

Il quadro di Hopper mi comunica una mescolanza di solitudine e compagnia. Essere là, in quel bar, solo, ma in attesa di qualcuno.

eustaki ha detto...

molto interessante, mi sembra di capire che siano monologhi che definiscono figure-funzioni. chissà perchè ho associato istintivamente questo testo a la sinagoga degli iconoclasti di wilcock. magari non c'entra niente.
ti saluto

Ettore Fobo ha detto...

Direi che la tua interpretazione è azzeccata, Eustaki.
Non ho letto però questo testo di Wilcock,anche se lo conosco di fama e ho sempre desiderato leggerlo, il titolo è nelle mie corde. Ti ringrazio per avermelo ricordato. Un saluto.