Il Capitano è fuori a pranzo - Charles Bukowski

sabato 18 maggio 2013







Si fa sempre più strada in me la convinzione che il successo di Bukowski sia legato principalmente a un fattore: egli ha saputo dire e scrivere ciò che molti pensano ma che pochi hanno il coraggio di dire e scrivere, e cioè che la vita è dolore, il mondo un inferno  e che gli esseri umani sono troppo spesso pessimi soggetti, abbruttiti da questo dolore e resi malsani dai miasmi di questo inferno. Inoltre lo scrittore americano ha saputo spesso togliere dalle sue pagine, grazie all’ironia o al sarcasmo, tutta la pesantezza che una simile consapevolezza solitamente genera.

Così, in questa sua ultima opera, un diario, “Il Capitano è fuori a pranzo”, Bukowski, benché ormai scrittore di successo, non fa che ribadire queste scomode verità, e realizza un’opera minore senza dubbio, che nella sua minorità concentra però l’estrema summa del suo pensiero. Il volume, edito da Feltrinelli e tradotto da Andrea Buzzi, è arricchito dalle illustrazioni di Robert  Crumb, che danno corpo alle visioni di Bukowski; un binomio irresistibile, quello fra Crumb e Bukowski, un’accoppiata davvero vincente.

Il luogo simbolo, come sempre, è l’ippodromo, che sembra sintetizzare l’umano nella sua essenza, luogo dove la speranza di un’improbabile svolta al grigiore dell’esistenza affonda quest’umanità di reietti nel pantano di una routine disperante. Bukowski è uno di loro ma possiede quel senso critico che gli permette di riconoscere il pantano e di non affondarvi completamente. Così egli racconta della miseria morale, dell’abbruttimento, della depravazione di un’umanità che lo infastidisce e da cui vorrebbe tenersi lontano.

Qualcosa,  però,  nel generale disfacimento si salva e lo salva: la musica classica, vera fonte di beatitudine, la scrittura, terapia, sfogo emozionale e àncora di  salvezza, l’amore per la moglie Linda e per i suoi nove gatti, e infine il computer, nella fattispecie un Macintosh, che, lungi dall’essere l’onnipresente deus ex machina della nostra era, è per Bukowski,  all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso,  l’alleato della scrittura, il complice che rende la sua fantasia un flusso di parole subito visualizzate e che, rispetto alla macchina da scrivere,  semplifica enormemente  le cose.

Il tono schietto, la voce aspra ma calda, le battute sarcastiche, la visione cinica e al tempo stesso velata d’ironia, la disperazione lucida non priva di risvolti umoristici, sono le prerogative di Bukowski, gli ingredienti che lo fanno amare. Così in questo libro veniamo a conoscere ancora una volta le sue idiosincrasie: il cinema hollywoodiano, la musica rock, i poeti, perlopiù vanesi, inconcludenti e senza spina dorsale.

A questi ultimi in particolare dedica una requisitoria che molto dovrebbe far riflettere coloro che si dedicano all’attività poetica per mera vanità. Bukowski, giunto all’ultima corsa, è ancora il perfetto cantore e l’affilato critico di quella che Zygmunt Bauman chiama società liquida, la nostra, in cui domina la precarietà in tutti i sensi, precarietà lavorativa, sentimentale, valoriale, esistenziale. Il suo messaggio è chiaro: la vita è una tragica farsa e gli uomini cercano soltanto rimedi contro la disperazione, spesso inutilmente. Niente illusioni politiche, religiose, sociali, niente utopie per Bukowski, solo la realtà, spiacevole, ruvida,  rovinosa, per tutti noi,  
 “ divorati dal nulla”.

Ora che può permettersi un bagno in una costosa vasca Jacuzzi, lo scrittore americano non dimentica di quando, ubriaco, dormiva sopra i sacchi della spazzatura, e un grosso ratto lo risvegliava. Sa di essere rimasto lo stesso e che questa è la sua forza.

“ Il Capitano è fuori a pranzo” è anche una riflessione sulla morte, che avrebbe colto Bukowski di lì a poco, morte che rappresenta l’ingiuria finale, verso la quale lo scrittore prova a volte lo stesso fastidio che gli comunica il mondo, altrove invece essa viene accettata con tranquillità,  come un qualsiasi evento naturale.
La critica di Bukowski alla società è radicale, viscerale, rabbiosa, nasce da un disgusto impossibile da addomesticare. Gli uomini e le donne sono per lui perlopiù zombie decerebrati. Leggiamo:

Nella morte non c'è niente di triste, non più di quanto ce ne sia nello sbocciare di un fiore. La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte. Non fanno onore alla propria vita, la pisciano via. La cagano fuori. Muti idioti. Troppo presi a scopare, film, soldi, famiglia, scopare. Hanno la testa piena di ovatta. Mandano giù Dio senza pensare, mandano giù la patria senza pensare. Dopo un po' dimenticano anche come si fa a pensare, lasciano che siano gli altri a pensare per loro. Hanno il cervello imbottito di ovatta. Sono brutti, parlano male, camminano male. Gli suoni la grande musica dei secoli ma loro non sentono. Per molti la morte è una formalità. C'è rimasto ben poco che possa morire.”


Così Bukowski dimostra di essere uno che ha vissuto fino in fondo le contraddizioni e le voragini della contemporaneità, che non ha mai cercato di illudere se stesso e i suoi lettori, i quali apprezzano in lui l’onestà anche brutale, la mancanza di consolazioni e d’illusioni, la profondità di uno sguardo duro e  disincantato.


Sincerità e autenticità, che hanno permesso a Bukowski di esprimere la sua incoercibile e irriverente natura in tutta la sua intensità, all’interno un’opera letteraria che oggi, a distanza di quasi vent’anni dalla sua morte, è lecito riconoscere fra le più vitali del Novecento, nonostante sia stata pressoché ignorata dalla critica più paludata. Non male per uno che non si è mai posto come maestro di stile, che ancora una volta ha confermato la veridicità della frase di Antonin Artaud: ”Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non, di fatto, per uscire dall’inferno.”


2 commenti:

mariadambra ha detto...

E con la sua tenacia nel demolire il sogno americano e nel descrivere un'umanità allo sbando, è facile comprendere perché non fosse troppo amato in patria (seppure d'adozione)... essere troppo autentici è sempre pericoloso per chi fa del consumismo, del conformismo e dell'ipocrisia sorridente il fondamento di una società...
bellissima recensione
un abbraccio

Ettore Fobo ha detto...

Proprio così, Maria. Il successo di Bukowski è stato soprattutto fuori dai confini americani per le ragioni che tu sottolinei. Era uno scrittore scomodo, gli Stati Uniti sono storicamente un paese puritano, ipocrita, Bukowski ha infranto troppi tabù. Grazie del complimento, sei sempre gentile. Un caro saluto.