sabato 23 agosto 2014
Che
cosa è la scrittura? Questa è una delle numerose domande che attraversano
questo testo mirabilmente enigmatico del poeta, naturalizzato francese ma nato in Egitto, Edmond
Jabès, Il libro della sovversione non
sospetta, che leggo nella traduzione di Antonio Prete, edita da ES. La
domanda, l’interrogazione, sembrano essere i fondamenti di quest’attività che i
più considerano futile. Non c’è riposta però, o meglio “la risposta uccide”, così le possibili risposte in realtà si
moltiplicano vertiginosamente. L’uomo è
colui che per sua natura interroga, Dio,
la soglia, il nulla, la pagina … E l’uomo che scrive è colui che sempre
desidera oltrepassarsi, dove l’oltre coincide però con l’origine, con Dio, o
meglio con la sua assenza. L’uomo che scrive più di tutti sperimenta l’esilio,
e trova nel niente “il luogo eterno”
del suo esilio. Non c’è risposta, dicevamo, perché Dio stesso è una domanda,
l’assenza ci domina, “ci corrode”:
assenza dell’immagine, assenza di parola, il silenzio. Silenzio è proprio il
nome che possiamo dare al nostro essere domanda che non può trovare risposta.
Il libro, ogni libro, proviene da un
silenzio anteriore alla parola, anteriore anche a Dio, che è colui che si cancella e l’uomo stesso è fatto
a immagine e somiglianza di questa cancellazione. Fondamento dell’essere umano,
spiega Jabès, un’insufficienza ontologica: “Queste
pagine testimoniano l’impossibilità di venire a capo non soltanto del proprio
pensiero, ma di se stessi. Dicono il nostro disorientamento di fronte
all’impotenza ad essere che ci costituisce.”
In
questo libro sibillino ogni riga è maschera, maschera di una domanda che non
può essere pronunciata, allusione continua, gioco contraddittorio, liberazione
di energie nascoste nel linguaggio. La sua potenza è proprio forzare la parola
per accedere metaforicamente all’essere, che in quanto tale è impensato,
voragine senza nome cui ogni nome allude.
Dietro
ogni libro, il Libro. Perché se il nome di Dio è impronunciabile, come vuole la
tradizione ebraica, Jabès era ebreo, esso è il silenzio cui ogni scritto tende,
vertigine della sua stessa cancellazione, niente originario in cui l’uomo e Dio
s’inabissano. Tutto è paradosso, ogni parola nasconde se stessa nella luce, si
rivela nell’ombra. Scrivere non è un atto narcisistico perché la pagina non è
uno specchio ma il luogo dove ci tocca “affrontare
un volto sconosciuto”.
Così
ogni parola di questo testo chiede di essere decifrata anche se è implicito che
ogni tentativo di decifrazione è destinato al fallimento, perché l’essenza
stessa della scrittura è l’enigma. Nella parola sovversione Jabès trova
un’accettabile approssimazione che gli permette, come in sogno, di intuire cosa
nasconda questo enigma. Già nello straordinario incipit si afferma: “La sovversione è il movimento stesso della
scrittura: il movimento della morte.”Come non sentire echi di Bataille? La
sovversione come evento connaturato naturalmente all’atto della scrittura,
trasgressione di un limite che porta in sé la morte come rischio. La scrittura
è un’attività sovversiva anche perché ”Il
dire è sempre una sfida all’indicibile e il pensiero denuncia l’impensato.”
Ogni
affermazione nasconde una domanda, cuore pulsante di ogni frase, in questo
testo l’interrogazione si configura come unica realtà. L’umano pulsa di una
domanda che rivolge a Dio, sua alterità e viene il sospetto che lo stesso Dio
arda di una domanda posta all’uomo. Porre l’interrogazione al centro della
scrittura e dell’attività umana è un gesto di grande umiltà, di grande
saggezza, di grande maturità.
Il
cuore del libro, di ogni libro, il suo ”orizzonte
interiore” è l’impensato, luce di cui ogni scritto è l’ombra, ogni libro
così è il doppio di un libro sacro anteriore, da sempre, per sempre perduto. E’ l’impronta che Dio ha
lasciato scomparendo. Perché Il libro
della sovversione non sospetta è anche un’acuta indagine teologica sul
mistero di una divinità assente. Molto moderno, molto novecentesco, il pensiero
cui si allude è quello della teologia negativa: Dio non esiste dunque è, perché
l’esistenza sarebbe per lui un limite, assoggettandolo al tempo. Il Libro è
perduto, riempito dal silenzio stellare, voce della divinità nascosta e
assente. Perché il Dio degli ebrei, almeno quello della tradizione cabalistica
cui Jabès sembra fare riferimento, non ha immagine, non ha voce, è parola prima
di ogni parola, silenzio prima di ogni dire per cui ogni dire subisce la
sconfitta nel tentativo di colmare questo silenzio inscalfibile,immodificabile,
pietrificato.
Questo
Dio è un dio del deserto, del niente, dell’assenza. Non bisogna dimenticare
leggendo Il libro della sovversione non
sospetta che ogni atto critico rischia lo smacco, leggerlo, infatti, significa
entrare in un labirinto in cui ogni passo è un rischio, labirinto dove
incontriamo il dolore dell’assenza, il nulla e ci imbattiamo in un volto
sconosciuto. Libro che ci mostra come la poesia contemporanea debba rendersi
astratta per restituirci i ritmi fondamentali dell’universo linguistico, che è
il nostro principale orizzonte nonché la più pericolosa delle trappole.
***
Una bella analisi di
questo libro potete trovarla nel blog Il lettore comune.
0 commenti:
Posta un commento