lunedì 22 dicembre 2014
Giorgio Piovano è un poeta poco
noto. Forse perché dopo un paio di libri negli anni Cinquanta abbandonò
l’attività poetica per la politica, per poi, però, ritornarvi in tarda età . Eppure questo Poema di noi è un libro che si ricorda,
“poema degli uomini senza storia”
come viene definito già nei primi versi. Piovano sperimenta una forma che oggi
ci pare classica enucleando contenuti vicini all’estetica del ”realismo
socialista” ma a differenza di diverse opere di quel genere non è stucchevole,
non è fastidiosamente retorico, non è
inutilmente vacuo, letto oggi, a
distanza di più di sessant’anni dall’ elaborazione del poema. Poema di noi vide, infatti, la luce nel 1950, anno in cui vinse il Premio
Viareggio opera prima; viene ripubblicato nel 2007 dalla casa editrice Effigie
nella collana Stelle filanti.
È un poema originale perché fonde il
neorealismo in voga in quegli anni con l’epica, raccontando una realtà in cui i
nuovi eroi sono gli operai, i lavoratori, i poveri, i paesaggi sono capannoni dai vetri
rotti sotto un cielo in cui si vedono soltanto i fili del tram. Il luogo è la città industriale, potrebbe essere Torino,
dove Piovano è nato, Milano, o a
qualsiasi altra città dove l’industria è prosperata. Il linguaggio è
volutamente semplice ma non semplificato o banale, diretto, ricco di pathos
tuttavia, il pathos politico che in quegli anni rendeva vitale la letteratura
di un Pasolini, per esempio, con cui Piovano condivide, oltre l’idea per una alta poesia civile, la
passione politica. Il rischio è che il poema sia datato, mostri le rughe degli
anni e in qualche verso ciò accade, specie negli ultimi canti, dove affiora un
po’ di magniloquenza, specie quando si auspica la rivoluzione, parola magica di
quegli anni che oggi pare un involucro vuoto. Anche per questo il poema
va letto, per vedere le differenze fra il secolo che stiamo vivendo e quello
appena passato. Non sono poche.
Nel Novecento, perlomeno fino
agli anni settanta, esistevano cose come
la speranza condivisa in un futuro in
cui le ingiustizie sarebbero state
debellate e la passione politica, che garantiva a questa speranza uno sfondo
concettuale, cose che oggi hanno poco o nessun senso. C’era la povertà, come
oggi, ma essa era come addolcita dal forte orgoglio di classe,
era condivisa senza vergogna, si poteva parlare di solidarietà. Oggi non è più
così. La subcultura consumistica veicolata dai media ha spazzato via queste
cose e altre ancora, lasciandoci in balia di un profondo vuoto di valori e di
idee. Non si tratta certo di rimpiangere il buon vecchio tempo antico, il
Novecento è stato un secolo infame ma nell’immediato dopoguerra si può dire che
l’Italia fosse un paese migliore di oggi.
Questo poema dunque racconta,
celebra, qualcosa che esiste ancora ma ormai non ha più consapevolezza di se stessa: la
miriade degli uomini senza storia che vengono sfruttati e “vengono a galla solo quando si compilano / le statistiche dei
cataclismi.”, di tutti noi insomma. Si capisce che questa miriade da popolo in
cerca di libertà si è trasformata in massa di consumatori narcotizzati.
Tuttavia, questo poema, anche se si
definisce ”anonimo e materiale”, riesce in un difficile intento: a dare un senso alla parola “Noi”, perché parla
di cose ormai desuete, la collettività per esempio, in un mondo fatto sempre
più di individui soli e in guerra fra loro per un tozzo di pane. Libro da
leggere, dunque, da meditare, che
porta con sé atmosfere di osterie piene
di fumo e canti, di fabbriche dove ferve il lavoro, di cooperative dove arde la
passione politica. Cose del secolo scorso, ahinoi, di cui anzi il nostro secolo, ormai, ride. È una risata
davvero amara, la sua.
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