Leggenda

domenica 13 marzo 2016






David Bowie. Lazarus.  Chapeau davanti a uno capace di trasformare in spettacolo, in evento artistico,  anche la propria morte. Alla faccia dell’industria,  si lascia consumare per l’ultima volta,  diventa  la voce di quella stella nera che ci segue dalla nascita, trasforma la sua agonia privata in fatto teatrale, musicale, poetico.
  
 Ci  racconta la vulnerabilità del corpo esposto alla malattia, rende teatro allucinato il furto che la morte compie. Operazione di autenticità da parte di  colui  il quale  sempre ha raccontato la necessità della simulazione,  il gioco del mascheramento, qui ribadito dalla benda che  indossa.

Così  diventa figura di un mito antico, orfico forse, che non mette in discussione anzi rafforza la dimensione contemporanea, quasi post umana, che egli  ha sempre  incarnato:  modernità algida, androgina, extraterrestre, profondamente ambigua nel maquillage cosmico e stregato.

Grazie a Bowie, scopriamo ancora una volta la nostra nudità davanti alla morte, il nostro antico terrore, la primordiale paura davanti  all’annientamento.  In attesa di ascoltare l’intero album, che dicono eccezionale,  il video di Lazarus è un canto che viene direttamente da una consapevolezza che non può che essere  fatale. E così Bowie ci mostra questo limbo, con la sicurezza dell’artista che,  a cospetto della morte, già dentro la morte, non ha più nulla da perdere o da guadagnare.

È un commiato dalla vita straziante quello di Lazarus; nell’ultima scena si vede Bowie rientrare in un armadio e chiudersi dentro, scomparendo nel buio.  Mimare la propria  malattia, la propria  morte, ancora una volta per esprimersi,  anche davanti al buio.

Così Bowie indossa la sua ultima  maschera, la più terribile, prima di deporre l’abito di scena, fare i suoi ultimi incantesimi, salutare e andarsene.  Lo show continua, naturalmente, ma forse perde un po’ della sua aria di leggenda. L’industria  acquista invece l’ingranaggio quasi mistico del mito. E ci camperà cent’anni. Su tutto sfolgora ancora lo sfarzo tagliente del sorriso di Bowie, diventato,  da tempo ormai, spazio e segno dei tempi sempre più fantascientifici in cui viviamo.

                                                                                                                                                                            12-13 gennaio 2016

4 commenti:

Humani Instrumenta Victus ha detto...

“Con ottica di malato guardare a concetti e valori più sani, o all’inverso, dalla pienezza e sicurezza della vita ricca far cadere lo sguardo sul lavoro segreto dell’istinto della décadence. Questo è stato il mio più lungo esercizio, la mia vera esperienza”.
[F. Nietzsche]

Ettore Fobo ha detto...


@Humani Instrumenta Victus

“L'immortalità si paga cara: bisogna morire diverse volte mentre si è ancora in vita.”

Friedrich Nietzsche

Elena ha detto...

Mi ha sempre dato i brividi. Dietro l’enigma del suo sorriso si intravede costantemente lo spettro della morte. E quando indossa le sue più inquietanti maschere avant-garde, ad esempio negli anni ’90 - a mio parere tra i più sottovalutati della sua carriera – non manca mai un’ironia beffarda. Ha disseminato il suo universo di così tanti simboli e riferimenti colti e meno colti all’arte, alla pittura, alla psicanalisi, ad altri musicisti, alla letteratura, al suo stesso materiale, che perdersi non suona tanto una possibilità quanto un rischio calcolato, forse un invito. Nel messaggio c’è una generale positività, spaventosa, simile a quella di un clown. E libertà. Come sia riuscito a conservarla, a fare sempre quello che voleva come lo voleva e a dettare le regole senza cadere nel dimenticatoio è uno dei tanti misteri che lo riguardano.
Blackstar a mio parere è uno dei suoi dischi migliori, forse il più grande di tutti se si tiene conto della quantità e della qualità di tempo che ha potuto dedicargli.
Il tuo riferimento a Nietzsche mi ha fatto pensare ad un verso di Amy Winehouse:
"I died a hundres times"

Ciao Ettore

Ettore Fobo ha detto...


@Elena

Penso sia stato capace di evocare una realtà enigmatica, misteriosa, diventando un’icona decisiva del nostro tempo. Pochissimi artisti hanno saputo rendere pop un universo di raffinatezze intellettuali così elaborate. L’album Blackstar è molto bello, anche per i motivi che scrivi tu. Ciao, Elena.