giovedì 2 febbraio 2017
Leggendo Bigongiari si vive una costante
epifania del pensiero, del linguaggio,
del pensiero sul linguaggio. È un poeta estremamente consapevole di cosa
sia la parola, di quante contraddizioni essa si nutra e quanto debba
necessariamente essere evanescente, sfuggente, enigmatica la parola che noi
definiamo poetica. Così la sua è una
scrittura ermetica e vertiginosa, che si cancella nel momento in cui è offerta
allo sguardo, offerta all’oblio, che ricorre nel poema con insistenza; scrittura come atto assoluto perché etimologicamente
sciolto, ab- solutus, da tutte quelle convenzioni che sono
irrigidimenti del pensiero, che, come dimostra questo bel poema, Le legge e la leggenda, vuole solo
fluire, intuendo quella circolarità misteriosa che pare essere il Tempo.
Ci si immerge dunque in un
linguaggio potentemente allusivo, analogico, rimaniamo incantati dal suo disfarsi in ritmo,
flusso che disarticola il significato per rivelare che l’enigma è la sostanza
stessa delle parole. A volte l’uso di allitterazioni, assonanze, rime interne,
può risultare persino eccessivo ma nel complesso l’operazione del poeta è
quella di farci evadere, per tutta la
durata della lettura, dalle opacità
linguistiche dominanti. “Cosa sta dicendo?” è probabilmente l’espressione che
taluni potrebbero usare davanti a questa poesia delle implicazioni filosofiche così
evidenti. Cos’è il linguaggio, cos’è l’io, Dio, l’altro? Oppure cosa significa
questo “tu” così reiterato, che sembra chiamare tutti come testimoni di un
pellegrinaggio fra le ombre di cui si consiste. Il poeta è davvero un’ombra che
si aggira fra le ombre e vagando per la Terra di Nessuno ci tiene svegli con il
suo monologare, ci riconnette all’origine, ci tiene desti davanti allo stupore di una
parola che racconta il nostro esilio, il nostro essere stranieri a noi stessi.
Come un fiume che straripa il verso
di Piero Bigongiari esce dal rassicurante alveo dei codici linguistici che usiamo per comunicare, cioè per evitare
di pensare la parola come luogo di un abisso.
È la parola poetica pura, vive di connessioni fra il noto e l’ignoto, sintesi apotropaica,
dove il concetto è obliato - e il male è
quello di uno sguardo ovvio, che viola il segreto e l’enigma - poesia come
scaturigine di silenzi sacri, esplosione
del concetto i cui frantumi vengono usati per riecheggiare l’ombra, far pulsare
gli archetipi, o per dar voce ai daimon che sono il fondamento della
mente inconscia… La nota finale allarga il poema di Bigongiari a una dimensione filosofica ancora più vasta di
quella che nel poema s’intuisce faticosamente estratta fra le maglie dell’
indicibile e resa discorso in cui incontriamo l’altro, il Nessuno che noi stessi
siamo e che diventò tale per ”troppa numerazione”.
Parola di un estremo dinamismo,
nomadismo, ritmo di una voce che si
rivolge proprio all’altro, al tu di un
incontro che è amore, sullo sfondo del mito greco di Ulisse, per ritrovare
l’origine storica della nostra presenza nel mondo, per recuperare l’origine filosofica del nostro
vagare in quella terra di Nessuno che si apre come una rivelazione carica dei
profumi mediterranei del cappero, dell’olivo; con la brezza marina che
accarezza le nostre ferite.
Siamo così trasportati nella labirintica
visione di un poeta cieco, Omero, nel suo non detto, che per paradosso ci sprofonda nella
contemporaneità filosofica di allora (il testo uscì per Mondadori nel 1992 e i
brani del poema sono stati scritti nell’arco di tempo che va dal 1986 al 1991), cioè delle più argute riflessioni di
Deridda, Foucault, Lacan; Omero che segue i nostri passi e presiede alle nostre
fughe. All’origine vi è il silenzio, di cui la parola poetica è specchio.
Deformante forse, illusorio sicuramente. Bigongiari è un poeta che chiede
attenzione, non può essere letto distrattamente, pena il trovarsi in mano dei
frantumi che il poeta invece ha voluto legare in un ordito indistruttibile,
fino a farne un poema, cioè un’unità di senso e di dissipazione del senso,
luogo di una Terra promessa originaria a cui si torna, consapevoli che “si torna sempre/ dove non si è mai stati” .
È il paradosso che attraversa
tutto il poema dove i confini si dissolvono, la memoria si confonde con l’oblio,
la presenza di Dio, del dio ignoto dei greci,
con la sua assenza e dove felicità e dolore sono strettamente
legati e avvinti e dove sale la
consapevolezza tragica che “Analfabeta è
la felicità”. Il tutto è ambiguo,
ancipite, duplice, contradditorio.
Bigongiari allude a quella zona prima del
linguaggio, a quel caos di figure cui da sempre attinge il poeta, ansioso di
riportare dei barlumi di un fuoco originario prelinguistico ma non
prerazionale, anzi intensamente razionale quanto più si riveste, o finge di
rivestirsi, di abiti onirici. Perché è
nella coscienza il simbolo non nei sogni. Bigongiari lo dice chiaramente nell’
oscura - e per questo tanto più
rivelatoria- nota che segue il testo del
poema. Oscura come l’enigma, da cui un’
improvvida parola ci ha scagliati fuori,
e di cui il poeta,” fedele all’ignoto”, desidera il ritorno. Cosa sia la leggenda è
chiaro, il mito di Ulisse, ma la legge? Mistero che non si esaurisce, perché è
vano cercare nel poema qualcosa che definisca, che nomini nella materia
irrefutabile del linguaggio comune. Nella nota finale si fa riferimento alle
tavole della legge di Mosè e riferimenti
biblici sono sparsi in tutta l’opera.
Così è anche la logica
dell’erranza, anche se l’altrove è una chimera, il nostro andare è un
ritornare, all’ infanzia, alla terra,
alla Terra di Nessuno, che è la grecità, che è il nostro mondo
contemporaneo perché Bigongiari cita il luoghi
del mito originario, Schiera, per
esempio, la terra dei Feaci ma anche
luoghi al lui cari, luoghi di una memoria personale, Lucca, Livorno, in una grande commistione
temporale e questo in un testo che fa
della riflessione sul Tempo uno dei suoi
centri di gravità. Nessuno così è l’eroe classico ma anche l’uomo contemporaneo.
Nessuno è l’Uomo e l’universalità è raggiunta da questo grande poeta, Piero
Bigongiari, coetaneo di Luzi, nato in provincia di Pisa nel 1914, e morto a Firenze
nel 1997, e di cui quindi il 7 ottobre di quest’anno ricorre il ventennale
dalla morte.
“So che scrivo non sull’acqua,
bensì
sul nebuloso quaderno del fato,
che sarò più di colui che è
stato.”
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