sabato 2 giugno 2018
Psicopolitica di Byung-Chul
Han, edito nel 2016 da nottetempo e tradotto da Federica Buongiorno, è il
classico libro che tutti dovrebbero leggere, in primis gli infatuati del web e della rivoluzione digitale, i
cultori dei social network, gli adoratori degli smartphone, i devoti di Facebook e Instagram. Per Han, queste
realtà, lungi dall’essere possibilità, si sono progressivamente trasformate in
trappole di cui noi utenti siamo quesì sempre
inconsapevoli. Ho usato termini religiosi perché tutto ciò per il
filosofo sudcoreano si configura proprio come una religione, la religione dei Big Data - stadio ultimo di quel
capitalismo di cui già Benjamin aveva indovinato l’aspetto di nuova
opprimente trascendenza - dove noi, utilizzando questi strumenti all’apparenza
neutri, forniamo la materia prima che muove la nuova produzione,
l’informazione, che velocizza esponenzialmente
le modalità di accumulo del capitale e mercifica le nostre esistenze fin
nelle più riposte fibre psichiche. Da qui il termine psicopolitica. Ho detto
materia ironicamente perché si tratta in realtà di produzione di immateriale. Non
è più il corpo il produttore per eccellenza ma
la psiche, sfruttata, manipolata,
schiavizzata. Psiche che tanto più si sente libera tanto più fa girare
come un cappio al collo questa economia del desiderio narcisistico di
visibilità.
È la libertà ad essere in crisi,
se già nell’etimo il soggetto è sub- iectum,
sotto messo, ora il padrone non è più esterno ma interno, è il “progetto” stesso della cattiva coscienza
del capitalismo. Dallo sfruttamento si passa all’autosfruttamento e la libertà
diventa solo il nome che l’individuo dà
alla frenesia di dispiegare narcisisticamente tutto il suo potenziale di schiavitù
volontaria verso i nuovi feticci del
consumo divenuti digitali. Tutto viene appiattito e omologato, le controversie
intellettuali diventano risse virtuali, o una bolla di reciprocità
fittizia che impedisce un reale incontro con l’altro.
Si tratta di un nuovo Panottico, dove non è lo sguardo onnipresente del Grande Fratello a dominare la società ma un’illusione di libertà o meglio il suo sfruttamento per i fini oscuri del Mercato. Siamo così spinti a esprimerci, a condividere, a denudarci nel culto della trasparenza ma il like che clicchiamo con innocenza, noncuranza e ingenuità, ci ricorda Han, è il marchio della nostra sottomissione. Società del controllo, certo, ma dove siamo noi stessi a incatenarci, a sorvegliarci, a fornire al boia - invisibile, anonimo, faccia vuota della contemporanea paranoia - la nostra testa con entusiasmo. È il neoliberismo, stadio avanzato di un capitalismo che ha conquistato territori che prima gli erano preclusi, e come un serpente apre nuovi spazi di conquista, penetrando nel nostro inconscio, prevedendo i nostri comportamenti e ancora di più modellandoli e indirizzandoli senza che noi ce ne accorgiamo. Così anche la analisi di un Foucault paiono datate, se oggi il nuovo Panottico siamo noi stessi. È questo il cambiamento più radicale.
“Il soggetto che sfrutta se stesso – scrive Han – porta un campo di lavoro con sé nel quale egli è vittima e
carnefice. Come soggetto che si autoespone e che si autosorveglia, egli porta
con sé un panottico nel quale è detenuto e guardiano.”
La nuova società del capitalismo avanzato non
è una società disciplinare che sorveglia, censura e punisce i suoi sudditi, ma una
società di “prestazione” dove
ciascuno è chiamato ad essere “imprenditore
di se stesso”. Per questo la depressione è il male del secolo. Come
resistere alla violenza di una società in cui tutto è mercificato e tutto deve
essere ottimizzato per produrre il massimo risultato e il massimo profitto? Niente
spazio per i sentimenti negativi, che pure conferiscono profondità alla vita, positività ad oltranza è il credo dei nuovi
guru della performance totale. Nessuna possibilità che fiorisca in questo
deserto appiattito dai dati una qualche differenza, una diversità
inconciliabile, una qualche forma di opposizione, un’eresia. Viene in mente Nietzsche :”Chi pensa diversamente va spontaneamente in
manicomio”, dove però il pensare diversamente significa rifiutare il falso
e corrotto edonismo digitale, non essere connessi, peccato contro lo spirito
santo della nostra epoca.
La novità forse più rilevante di
questo saggio è che il nuovo campo di battaglia, il nuovo territorio di
conquista, è la psiche di quello che un
tempo era l’uomo, poi divenne suddito, cittadino, infine spettatore e consumatore e oggi è uno “sciame” di informazioni e desideri etero diretti, con la sensazione
illusoria di essere onnipotente e padrone del proprio destino.
Per Han in una società del genere solo l’idiota si può salvare, colui che nell’antica Grecia non aveva incarichi pubblici, nell’era digitale è colui che non è connesso, non è informato, è impermeabile alla nuova dominazione. Questa è la provocazione ma anche il limite di questo libro. Ben pochi sapranno essere ”idioti” o potranno esserlo.
Siamo forse vicini a quella che alcuni scrittori
di fantascienza chiamano singolarità, il momento in cui la tecnologia cambierà drasticamente la
nostra vita, la nostra mente, il nostro corpo e nulla sarà più come prima.
Cambiamento epocale di cui la scoperta del fuoco, della ruota, dell’agricoltura,
della stampa, appariranno solo
deboli riflessi. Qualcuno ha
posto questo evento a una ventina d’anni da ora.
Dai primi segni che Han annota
pare delinearsi una catastrofe che, però,
io penso, misteriosamente, in un rigurgito di speranza, potrebbe anche
rovesciarsi in epifania.
4 commenti:
Il serpente si è mangiato la vecchia talpa?
Sembrano lontani i tempi in cui alcuni intellettuali, sull'onda dell'ebbrezza determinata dalla rivoluzione telematica di internet (circa 15-20 anni fa), si facevano profeti di una società moltitudinaria assolutamente democratica e a partecipazione diretta.
@Humani Instrumenta Victus
Sì, tempi di speranze cieche. Nel capitalismo tutto volge al peggio. Non resta che augurarsi che le forze in gioco si ritorcano prima o poi contro se stesse. Auguriamoci un cortocircuito.
Saggio davvero interessante. Lo recupererò appena finisco tutti i libri che ho accumulato in anni di ordini online, spinta da belle recensioni. L'industria culturale è anch'essa frutto del capitalismo mi sa.
@Kate
Sfuggire al capitalismo è molto difficile. Come dimostra questo libro esso ha invaso tutti gli spazi di quello che un tempo era il privato. L'indusria culturale già nel nome denuncia la sua complicità con il capitalismo.
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