lunedì 27 agosto 2018
E così via è l’ultima raccolta, uscita postuma, di Iosif Brodskij, che
vide la luce nel 1996 negli Stati Uniti, dove il poeta viveva in esilio dal
1972. Adelphi la propone nella traduzione di Matteo Campagnoli e Anna Raffetto
nel novembre del 2017.
È l’estrema opera di uno dei
maggiori poeti russi del Novecento, insignito del Premio Nobel nel 1987, a 47
anni, il più giovane di sempre insieme a
Camus, esule per motivi politici, refrattario com’era al regime comunista che
lo perseguitò e avverso a tutti i totalitarismi, incline a una ricerca di
libertà, considerata pericolosa ed eretica dalle gerarchie.
Qui Brodskij esprime una poesia
densa, compatta, dove il colloquio interiore è arricchito dalla potenza dei
luoghi attraversati, da San Pietroburgo a Roma, da Milano a Lisbona, da Venezia a
Ischia (molta Italia in questi versi!) alcuni visitati realmente altri, la Cappadocia
di Silla e Mitridate, per esempio, ricostruiti minuziosamente nella loro antica
geografia storica.
Si tratta di un libro corposo in
cui il poeta russo si esprime spesso con l’ironia della maturità, del distacco,
della saggezza e del disincanto, mixando i linguaggi, il russo e l’inglese, per
creare sulla pagina una visione assolutamente originale, personale e persuasiva.
La grande poesia va letta con
attenzione, meditata, questo libro non sfugge alla regola. Così è un crescendo,
più aumenta l’intimità con questa poesia, più i preziosismi onirici, le
divagazioni, gli epigrammi, il disegno colloquiale dell’opera, mostrano la voce
di un classico che, refrattario alle mode, crea il proprio tempo dall’argilla
della propria immaginazione.
Perché se a prima vista sembrano
digressioni slegate fra loro, a una lettura più attenta e partecipe, questi
versi divengono la sostanza di una ricognizione filosofica, per sfuggire alla “cattiva infinità” di cui scriveva già
Hegel, per svolgere la loro funzione di denuncia sociale: la nostra era ci
costringe a vivere una vita da “pupazzi”; la loro funzione di disamina storica: la
Cappadocia diventa un territorio stregato attraversato da eserciti in lotta, in
un affresco storico dove la Storia stessa è così mirabilmente descritta: “ Poiché la storia, ovviamente, consiste
nell’attrito di ciò che è temporaneo contro il permanente.”.
È presente anche l’introspezione
famigliare: la figura del padre morto che riemerge in un sogno; sono descritte curiose figure archetipiche del
moderno, come lo spasimante di una
ragazza “per due terzi uomo, per un terzo
automobile” nella poesia significativamente intitolata Centauri I
Poesia densa si è detto dove
svoltato l’angolo di una descrizione si
è fulminati da un epigramma: “Vale la
pena di accelerare/ il passo soltanto se qualcuno ti incalza sul sentiero/
assassino, bandito, il tempo andato…”, quando anche le nuvole sono ”più del corpo lievi/ e migliori
dell’’anima.”
Nella splendida poesia Vertumno, oltre a ricordare l’amico e
traduttore italiano Gianni Buttafava, trasfigurato nella visione mitica di
Vertumno, appunto, Brodskij scrive una sofisticata ode al transitorio “perché lui solo[…]/
sa percepire la felicità.”, lasciando versi visionari come questi: “Un cane dipinto con i colori dell’aurora
abbaia/ dietro a un passante che ha i colori della notte.” e scontrandosi con
il dolore del lutto e della perdita.
In Ritratto della tragedia, quest’ultima perde l’aureola di qualsivoglia solennità epica e si
rivela una bisbetica compagna dei giorni umani con cui intrattenersi in un
perenne bisticcio dove la verve
comica svela la sua natura scurrile e ciò che infine tocca a questa
personificazione del tragico è aprire la porta per mostrarci un porcile che
forse è il mondo intero.
Il dato visionario si coglie
sempre sommesso ma preciso: “Vivevamo in
una città color vodka ghiacciata”.
Leggiamo in Canzone di benvenuto
il resoconto scarno, svagato,
surrettiziamente ironico, della vita di
una donna, dall’infanzia alla morte; in Omaggio
a Cechov vediamo i personaggi del celebre drammaturgo immersi in una
raggelata quotidianità, prossima al delirio dei sensi.
Così questa poesia ci racconta la
nostra transitorietà, il lutto, la perdita della memoria, il tempo andato,
spesso ricorrendo all’understatement,
all’ironia usando la rima per demistificare la poesia stessa, riconducendola a
mero colloquio intrapsichico. Rima che
faticosamente i traduttori cercano di rendere in italiano con esiti più o meno
felici.
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