martedì 3 febbraio 2009
Con Il mito di Sisifo Camus affronta i temi più dibattuti della filosofia degli anni trenta-quaranta, in particolare il tema dell’assurdità dell’esistenza ma questa assurdità risulta essere l’esito di un processo interno all’uomo per l' acquisizione di una consapevolezza nuova, che ride di tutte le metafisiche precedenti e della pretesa di trovare un senso laddove solo il caos domina sovrano.
Non esiste nessuna realtà trascendente ? Non esistono dei e anche il senso della vita è solo l’ipocrita alibi di chi,profondamente, senza saperlo, conduce un’esistenza assurda ? Bene, si configura allora un uomo nuovo, l’uomo assurdo, che vivendo senza speranza, indifferente a felicità e infelicità, ha un solo movente: acquisire il più grande numero di esperienze, secondo la propria vocazione interiore. L’evento dell’irruzione dell’assurdo nella vita è però, secondo Camus, assolutamente salutare, saltano le gerarchie di senso e valore e l’uomo si trova davanti la realtà nuda e cruda, in un mondo spogliato di ogni dimensione metafisica o escatologica, senza più scopi, senza futuro, l’unica salvezza è immergersi nel tempo, nel suo fluire senza senso, perdendosi in un vortice di situazioni e sensazioni. E’ la quantità che conta, il proliferare insensato di occasioni di vita, con la consapevolezza che tutto è destinato all’autodistruzione e non ci sono valori superiori a cui aggrapparsi, sono stati spazzati via dell’emergere di una coscienza che non sa che farsene dell’eternità e vuole l’immediato, l’hic et nunc, accentandone la caducità.
Camus si profonde in decine di pagine con uno sforzo dialettico notevole, nel tentativo di dimostrare che una vita consacrata all’assurdo racchiude ricchezze insospettabili e possibilità di vita maggiori di quelle di un’esistenza regolata dell’ordine e dal senso. Mi pare che questo sia un buon modo di consolarsi di una perdita ma il lutto rimane e l’angoscia non è risolta, anche se c’è da dire che trovare una soluzione a questo problema sarebbe chiedere troppo a un libro che soprattutto pone interrogativi.
Ma un bagliore di soluzione al conflitto fra l’uomo e il mondo, che Camus incarna nella parola assurdo, si intuisce nei capitoli finali e sarebbe alla fine la stessa soluzione prospettata da Nietzsche, una sorta di amor fati, per cui Sisifo, eroe assurdo per eccellenza, può persino arrivare ad amare il macigno che senza posa rotola a valle e che egli costantemente deve riportare in cima , in una assurda fatica senza speranza. Ma se la prospettiva nicciana era già stata criticata d a Adorno che parlava della triste sorte di un prigioniero costretto ad amare le proprie sbarre , questo vale sicuramente anche per Camus. Non capisco bene, in virtù di quale ascesi assurda (il termine è di Camus stesso) Sisifo dovrebbe amare nel macigno la totalità della sua esperienza di alienato.
I ragionamenti dello scrittore francese mi sembrano essere dunque deboli davanti a un‘angoscia che già Heidegger ha individuato essere la sostanza più profonda dell’essere umano e non c’è da banchettare sui resti dilaniati della parola speranza. Deboli nel senso che denotano una certa inconsistenza, e la scrittura fatica a reggere il gioco, risultando a volte addirittura pedante. Il saggio dunque, a mio avviso, non centra il bersaglio, filosoficamente mi è sembrato incerto, perché troppo apodittico, e anche il tema dell’assurdo non è sviscerato con la stessa crudeltà che affascina ne Lo straniero, ne Il mito di Sisifo invece Camus si perde per strada in una ridda a volte inconcludente di frasi che faticano a delineare in maniera precisa la validità del pensiero assurdo, propugnato dall’autore francese. Qualche sussulto qua e là ma la prosa di Camus scivola nell’indifferenza, solo nel tratteggiare la figura di Don Giovanni ritrova un po’ di vitalità o ancora nell’interessante saggio su Kafka, contenuto in appendice alla seconda edizione del testo.
Ma anche se in sostanza il libro dà l’impressione di essere un’opera giovanile, acerba, è però sostenuta da una passione e da un impeto che impedisce di considerarla del tutto un fallimento, perché in ogni modo si configura come un’operazione coraggiosa; Camus si getta nel fermento delle filosofie della sua epoca, cercando qua e là appigli per il suo pensiero e mostrando come la filosofia dell’età contemporanea sia invischiata in una crisi dalla quale ancora oggi ,a distanza di quasi settanta anni dalla pubblicazione de Il mito di Sisifo, non sembra poter uscire.
Non esiste nessuna realtà trascendente ? Non esistono dei e anche il senso della vita è solo l’ipocrita alibi di chi,profondamente, senza saperlo, conduce un’esistenza assurda ? Bene, si configura allora un uomo nuovo, l’uomo assurdo, che vivendo senza speranza, indifferente a felicità e infelicità, ha un solo movente: acquisire il più grande numero di esperienze, secondo la propria vocazione interiore. L’evento dell’irruzione dell’assurdo nella vita è però, secondo Camus, assolutamente salutare, saltano le gerarchie di senso e valore e l’uomo si trova davanti la realtà nuda e cruda, in un mondo spogliato di ogni dimensione metafisica o escatologica, senza più scopi, senza futuro, l’unica salvezza è immergersi nel tempo, nel suo fluire senza senso, perdendosi in un vortice di situazioni e sensazioni. E’ la quantità che conta, il proliferare insensato di occasioni di vita, con la consapevolezza che tutto è destinato all’autodistruzione e non ci sono valori superiori a cui aggrapparsi, sono stati spazzati via dell’emergere di una coscienza che non sa che farsene dell’eternità e vuole l’immediato, l’hic et nunc, accentandone la caducità.
Camus si profonde in decine di pagine con uno sforzo dialettico notevole, nel tentativo di dimostrare che una vita consacrata all’assurdo racchiude ricchezze insospettabili e possibilità di vita maggiori di quelle di un’esistenza regolata dell’ordine e dal senso. Mi pare che questo sia un buon modo di consolarsi di una perdita ma il lutto rimane e l’angoscia non è risolta, anche se c’è da dire che trovare una soluzione a questo problema sarebbe chiedere troppo a un libro che soprattutto pone interrogativi.
Ma un bagliore di soluzione al conflitto fra l’uomo e il mondo, che Camus incarna nella parola assurdo, si intuisce nei capitoli finali e sarebbe alla fine la stessa soluzione prospettata da Nietzsche, una sorta di amor fati, per cui Sisifo, eroe assurdo per eccellenza, può persino arrivare ad amare il macigno che senza posa rotola a valle e che egli costantemente deve riportare in cima , in una assurda fatica senza speranza. Ma se la prospettiva nicciana era già stata criticata d a Adorno che parlava della triste sorte di un prigioniero costretto ad amare le proprie sbarre , questo vale sicuramente anche per Camus. Non capisco bene, in virtù di quale ascesi assurda (il termine è di Camus stesso) Sisifo dovrebbe amare nel macigno la totalità della sua esperienza di alienato.
I ragionamenti dello scrittore francese mi sembrano essere dunque deboli davanti a un‘angoscia che già Heidegger ha individuato essere la sostanza più profonda dell’essere umano e non c’è da banchettare sui resti dilaniati della parola speranza. Deboli nel senso che denotano una certa inconsistenza, e la scrittura fatica a reggere il gioco, risultando a volte addirittura pedante. Il saggio dunque, a mio avviso, non centra il bersaglio, filosoficamente mi è sembrato incerto, perché troppo apodittico, e anche il tema dell’assurdo non è sviscerato con la stessa crudeltà che affascina ne Lo straniero, ne Il mito di Sisifo invece Camus si perde per strada in una ridda a volte inconcludente di frasi che faticano a delineare in maniera precisa la validità del pensiero assurdo, propugnato dall’autore francese. Qualche sussulto qua e là ma la prosa di Camus scivola nell’indifferenza, solo nel tratteggiare la figura di Don Giovanni ritrova un po’ di vitalità o ancora nell’interessante saggio su Kafka, contenuto in appendice alla seconda edizione del testo.
Ma anche se in sostanza il libro dà l’impressione di essere un’opera giovanile, acerba, è però sostenuta da una passione e da un impeto che impedisce di considerarla del tutto un fallimento, perché in ogni modo si configura come un’operazione coraggiosa; Camus si getta nel fermento delle filosofie della sua epoca, cercando qua e là appigli per il suo pensiero e mostrando come la filosofia dell’età contemporanea sia invischiata in una crisi dalla quale ancora oggi ,a distanza di quasi settanta anni dalla pubblicazione de Il mito di Sisifo, non sembra poter uscire.
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