sabato 7 aprile 2012
La traduzione di un’opera poetica è una delle operazioni più difficili e nel caso di quest’antologia di Marina Cvetaeva Dopo la Russia questa difficoltà è ancora più evidente. La traduttrice Serena Vitale deve fare i conti con una scrittura dirompente, elusiva, rapsodica, ellittica, emorragica e mi pare ci riesca benissimo, confezionando una traduzione esemplare, che ha la bellezza di un originale e trasferisce la potenza oracolare di questo dettato stranito, penso di poter dire fra i più complessi del Novecento. Questa complessità reca con sé l’idea dell’immediatezza, il tono è sempre accorato, esaltato, ansimante, ai limiti del delirio, consapevolmente assunto dalla poetessa russa come espressione del caos primordiale in cui affonda il linguaggio. Ancora una volta risuonano le parole di Barthes, quando scrive nei suoi Saggi critici che il compito del poeta non è esprimere l’inesprimibile, convinzione degli ingenui, bensì in maniera più enigmatica ”inesprimere l’esprimibile”, sottrarre al linguaggio la sua superficie di illusoria comprensibilità e restituircelo voragine sibillina.
Quella della Cvetaeva sembra una poesia difficile da tradurre, fatta com’è di pensieri in fuga, frasi interrotte, giochi di parole, esclamazioni apparentemente fortuite collegate da un’immaginazione furibonda, che come un fiume attraversa la pagina, trasportando le parole alla loro foce con una potenza espressiva che sembra risiedere nei nervi stessi della poetessa. Qui è tutto un sussultare ambiguo di forme linguistiche, un fremere di concetti spappolati, un venir meno delle parole, di cui si descrive l’implosione, il collasso semantico, l”urlo primordiale”.
Prendiamo per esempio il Poema della fine, sembrerebbe raccontare la fine di un idillio amoroso ma la tensione che si avverte è tale che sembra descrivere la fine stessa di un universo, forse di quell’universo patriarcale che ha imprigionato la donna in una serie di stereotipi. Quella di Cvetaeva è una poesia emorragica, sulla pagina la poetessa russa sanguina parole e immagini con una furia calcolata, con impeto trascinante, tanto che, benché complessa, questa poesia pretende una lettura veloce, non il rimuginare di chi si chiede sterilmente cosa significa ma l’accettazione di colui che sa che la poesia è, come ha detto mirabilmente Carmelo Bene, “il risuonar del dire oltre il concetto”.
Così si coglie il lavorio di Serena Vitale per restituirci la nervatura di una poesia che più appare caotica, più rivela la sua profonda realtà di oracolo gettato con rabbia oltre il muro del sonno piombato delle parole comuni. Quello che più colpisce è l’invenzione linguistica, la manipolazione delle parole, l’esattezza di uno stile altamente costruito, che però da l’idea di essere fulmineo come un getto di colata lavica. E’ proprio vulcanica la poesia di Marina Cvetaeva, un flusso che, se disarticola le parole, lo fa per restituircene l’imponderabile mistero, la potenza primigenia di quello che la stessa Serena Vitale nell’introduzione chiama ”magma sonoro”.
Grande nemica della poetessa russa è l’”immortale mediocrità” dei filistei, dei ricchi, dei borghesi, cui dedica un ironico elogio, la pattumiera del quotidiano, fatta di “bigodini, pannolini/ calamistri arroventati/capelli bruciacchiati/cappelli, cuffiette(…) di felicità volgari/ coniugali” oppure “la perniciosa anemia cristiana”, che celebra “l’assurda eresia/ che chiamano anima.” o ancora “l’immortale piaga della coscienza” che è sempre coscienza del disagio. S’intitola Amore una delle poesie più brevi, che riporto integralmente, perché è una delle poche in cui il pungente disincanto lascia spazio anche alla dolcezza:
“Fuoco? Uragano? Terremoto?
Andiamoci più piano…
Dolore noto come agli occhi
il palmo della mano, e alle labbra
il nome del proprio bambino…”
Cvetaeva canta l’assenza, il venir meno, le “tenebre veggenti”, la separazione degli amanti, e il mito della felicità amorosa viene irriso in versi enigmatici, sibillini. Smarrimento, esilio, assenza, disagio, sono le parole chiave.
“Per asili e tuguri terrestri/ come orfani, smarriti./ E quale, quale marzo è oggi?/ Ci hanno smazzato. Come carte.”
Risuonano sullo sfondo i dati biografici, con i suoi terribili lutti (Cvetaeva perse la figlia di tre anni, che morì di denutrizione), con il suo esilio (la poetessa visse a Parigi) le persecuzioni del regime sovietico(il marito venne fucilato), l’ostilità persino della comunità di esuli russi, insomma quelle tragiche esperienze che la condussero all’atto estremo del suicidio, nell’agosto del 1941, a 48 anni.
La vita, qui in questi versi, viene ricondotta a vanità delle vanità, Cvetaeva ne coglie la miseria, in versi lucidi, rabbiosi, quasi furenti, dove la rabbia più che nei contenuti è dentro lo stile stesso della scrittura, che non si preoccupa dell’immediata leggibilità ma insegue soltanto la propria ambigua frantumazione. La poetessa russa opera per sottrazione, in un tessuto spogliato via via di metafore e immagini, fino a che rimangono soltanto i sussulti dei nervi, un linguaggio frequentemente spezzato. A volte il suo verso sembra l’affiorare di un grido, con tutte quelle esclamazioni, quei trattini che troncano la frase, la riducono a brandelli, la fanno precipitare. Su molti suoi versi, penso per esempio al Poema della montagna o a al già citato Poema della fine, o ancora allo splendido esito di Sibilla, c’è poi qualcosa di solenne che incombe, una fatalità misteriosa, una gravità oracolare. Emergono sentenze velenose contro la società, l’astio di un’esclusa si raffina fino a diventare spregio e sfregio della mediocrità umana.
Oltre le parole consuete che usiamo per ingannarci, arriva la poesia, con la sua oscurità, che però non redime, non sazia, ci lascia insaziabili come Fedra, cui la poetessa russa dedica una lirica appassionata. Così il mito e la letteratura, con le sue Euridici, le sue Ofelie, le sue Fedre, le sue Elene, confermano la solitudine dell’essere umano, la necessaria solitudine di chi non accetta la mediocrità che pure servirebbe a lenire il dolore dell’assenza ma qui l’assenza è anche ricercata, richiesta, come nel caso della poesia in cui Euridice, rivolgendosi a Orfeo, lo implora di non cercarla, di lasciarla fra i morti. Quella di Cvetaeva è una poesia tragica, violenta, anche furiosa come il grido di una Baccante, come il ringhio di una lupa, sotto una luna gelida.
“Di canuta lupa romana sguardo,
che nel lattante vede: Roma!
Maternità sognante della roccia.
Non ha nome il mio smarrirmi! Tolti tutti i veli -
di perdite mi ammanto.”
Il corpo è socraticamente una prigione, un “sepolcro”, la nascita una caduta nel tempo, l’anima un’”assurda eresia” il poeta “è quello / che imbroglia in tavola le carte /che inganna i conti e ruba il peso”. Non c’è quasi traccia di felicità in questi versi, che funzionano come un meccanismo perfetto e perfettamente stritolante, e ci lasciano soli e sbalorditi, a fare i conti con il nostro quotidiano nulla, con la grande assenza e il grande vuoto della nostra interiorità più profonda, quando si è aldilà di ogni consolazione. Mi sembra che Cvetaeva si situi proprio in questa dimensione, non accettando la mediocrità dell’esistenza, sentendone spaventosamente la tragica futilità ma trasfigurando questa consapevolezza in un canto straordinario che in fondo non è che un grido di prolungato sgomento.
"Sussulto – e giù dal cuore il peso
tutta nell’alto – l’anima!
Lasciami parlare del dolore.
Lasciami- della mia montagna.
Non voglio rattoppare mai
il nero squarcio.
Lasciami cantare del dolore
sulla montagna, in alto.”
4 commenti:
Inesprimere l'inesprimibile! Interessante lettura del dire poetico. Mi fornisci materia sulla quale riflettere.
Ottima recensione.
Buona Pasqua.
Questo è probabilmente il libro più bello che ho letto quest'anno.
Grazie dei complimenti Massimo, buona Pasqua anche a te.
Conosciuta solo di nome e di fama... la leggerò e scoprirò...
ps
Io scoperto Lars Gustafsson... poeta svedese sottilmente connettivista.
Grazie del consiglio, Logos, un saluto.
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