Il numero più bello

mercoledì 20 giugno 2012


I

Nera la notte in cui fu calata
l’ombra umana negli abissi
siderali del male infinito!

Sotto la luce- oh totem scolorito-
annunciami la felicità del bosco
quando viene la sera.
E tu vecchia carcassa, muovi le labbra
dì il tuo motto:

(parole a mucchi di silenzi
inespressivi sotto una pergola)

“Non c’è interiorità.
L’ha rubata il dio delle masse.
Gli ultimi barbagli dipinti
di un sé magico e infinito
annichiliti da un paese sotterrato,
il cui nome è l’ovunque. “

(parole uccise a scotimento
di polveri stellari laddove
tutto è segno di moneta
il vivere e il morire)

II

Imbattersi nella propria ombra
quando si guarda lo specchio
è tormentare il niente
col sopruso di una faccia:

“ Tutte le cose pagano il fio
d’essersi sottratte al nulla
(per offendere Schopenhauer
per intristire Leopardi)
pagano il fio con la morte
d’essersi al nulla sottratte”.

Ed è giusto che io sia solo un’ombra
che un volteggio d’aquila svanisce
che un battito dell’ala del corvo
restituisce  alla polvere d’essere stato
- mettiamo, ed è cosa molto moderna-
me stesso o una sua caricatura all’ultima moda.
In questo mondo che è tutt’uno con la tenebra
in questo bel mondo di non nati
in questa vertigine di non sapere,
e  lottare per infischiarsene.

III

Covo di funebri passioni
sotto la frusta e il canto del gallo
sotto il torpore e dentro la melma
io ricordo i fiori della sua bocca
strappavo lo stelo con la lingua
e questo è quanto. Dicevo:

“ La carcassa dei miei giorni di felicità
giace accanto al totem del dolore.
Il mio canto ha tre lingue
di fuoco e una d’acqua.
La mia lingua è in fuga de me stesso.

Vedo una tigre nell’atto
di fissare una bambola.
Mettiamo sia questo
che volevo dire. Oppure…

Il cespuglio poi ferirsi con i rovi
attraversare la chioma di un albero
per sentire vibrare i coltelli della luce
e accanto a quel corpo poi dentro di esso
stuprare l’universo “.

Vedo un pozzo dentro cui cade un infante gettato- non ho voglia di dir da sua madre, sarebbe troppo infame- e precipita, precipita. Non ho voglia di udire il tonfo. Non riesco a trovarci un nesso. La mia lingua è in fuga da me stesso.

La vecchia musica dell’adolescenza
è finita, non siamo fratelli che dell’ombra,
circuiamo l’inesprimibile per cavare un suono che dica
la felicità che si prova allo sbocciare di un ranuncolo
che mostri ciò che è durevole
oltre l’attimo dell’oblio.

IV

Ah, voglio una parola frantumata!
Intesso voragini, placo marosi,
sono il piccolo dio dei versi,
tendo tranelli, mostro
l’azzurro simmetrico
dentro il palpito del cielo
configuro stormi
dal moto acquatico.
Amo dire la mia
sulle questioni filosofiche.
Attacco bottone con l’infinito,
poi smetto e gioco a dadi con me stesso.
Peccato che sul dado manchi
la faccia dello zero.
E’ il numero più bello.

                                                                                                              Aprile 2009
Ettore Fobo


***
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2 commenti:

Anonimo ha detto...

Davvero bella questa poesia,delle cose che ho letto ultimamente,una delle migliori.Io ho vent'anni e scrivo poesie,ma di gente della mia età che condivida questa passione ne conosco davvero poca,tutti troppo impegnati a non fare niente.
Complimenti ancora per le poesie e le riflessioni sul blog,
un saluto
simone

Ettore Fobo ha detto...


Grazie per l’’apprezzamento, Simone. Trovare qualcuno che s’interessi alla poesia è arduo a qualsiasi età. Si sconta un certo isolamento. Alla fine, però. qualcuno si trova. Non demordere. Un saluto.