Donne - Charles Bukowski

sabato 15 dicembre 2012





                                                                                              Scrivo racconti e poi ci metto il sesso per vendere.”

Charles Bukowski

Bukowski sarà forse un maschilista della peggior specie, (senz’altro così gli piaceva apparire) sicuramente non si è mai nascosto  dietro un dito, non è mai stato  ipocrita, ha sempre saputo  bene che il suo pubblico da lui voleva sempre la stessa cosa: sesso e alcol. Così in questo romanzo, Donne, il leitmotiv è sempre lo stesso: il suo alter ego si sbronza, fa sesso con donne e lascia filtrare attraverso la sua prosa tutta la desolazione di una vita senza attrattive che non siano quelle sopra esposte. C’è una grande monotonia in questo romanzo, la situazione si ripete identica: l’alter ego Chinaski è pressoché simile allo stesso Bukowski, ha lavorato alle poste, è un ubriacone, è uno scrittore che si sta affermando. Così tra un reading e l’altro, tra una bevuta e l’alta, riceve telefonate da ragazze che vorrebbero conoscerlo e che invariabilmente finiscono a letto con lui.

Siamo sulle soglie della pornografia, Bukowski non esplora le dinamiche del sentimento, sarebbe patetico, la pagina è nuda, secca, oscena, senza alcun alibi, lo scrittore americano potrebbe apparire dunque antipatico, perché  mostra inequivocabilmente la natura monotona e bestiale del desiderio maschile. Qui la donna è ridotta a puro congegno masturbatorio, il sesso è dunque solo un’altra dimensione di alienazione senza rimedio, come le bevute, le corse di cavalli, i reading, che finiscono invariabilmente con sbronze colossali. Le donne descritte si assomigliano tutte, hanno in genere brutte storie alle spalle, forse sono pazze, sicuramente affamate di sesso, intrecciano con Chinaski relazioni brevi e tormentate e vengono rimpiazzate da altre e il ciclo si ripete. C’è quindi una dimensione sospesa fra allucinazione pornografica e realismo metropolitano, che, se può dispiacere, ha però il pregio di essere autentica.

Romanzo scabroso, Donne,  probabilmente non è tra le cose migliori che abbia scritto Bukowski; l’anonimato della città, l’alienazione dei rapporti, è comunque di un certo interesse, e la prosa di Bukowski, sfrontata ma a tratti tenera, è sempre in grado di avvicinarci al nucleo di quest’alienazione, senza illuderci mai, ci dà il sapore aspro della disperazione. Eppure il romanzo non è avvilente, c’è una certa comicità che riscatta dal plumbeo scenario pornografico descritto, a tratti pesante. E’ uno  humor nero sottile e insinuante che preserva Bukowski, e di conseguenza il suo alter ego, dalla disperazione e dalla follia.

Tutti i personaggi, uomini e donne, paiono vittime di una realtà che non offre loro nulla, solo la speranza di una vittoria alle corse, il mediocre piacere del sesso consumato freddamente, il calore dell’alcol che scende per la gola. Questi sono i temi di tutto Bukowski, che in questo romanzo rischiano  di apparire cliché un po’ logori; ogni tanto verità spiacevoli affiorano nel testo, la vita è questa, prendere o lasciare, sospesi come siamo fra frustrazioni e grottesche speranze destinate a essere deluse.

Così Bukowski appare ancora una volta come l’interprete ideale di un’umanità delusa e avvilita, abbruttita dal vizio, che vaga disperata in una città ostile e inclemente. La sua scrittura non conosce mezze misure o mezzi termini, Bukowski è uno scrittore autentico, sincero, schietto, la  disperazione che mette in scena è vitale ed è anche il motore della chiaroveggenza che lo contraddistingue. Vecchio saggio o vecchio porco che tutto ha visto e che di tutto si è stancato, lo scrittore americano anche nelle cose meno riuscite non abbandona mai il suo piglio sarcastico, la sua vena dissacratoria, perché nella vita qui descritta non c’è  nulla che valga la pena e l’umanità ridicola, patetica, non ha davvero nulla a cui aggrapparsi, se non,  appunto,  il fantasma del piacere sessuale, ombra tra le ombre.

La monotonia stessa dei rapporti, la freddezza con cui Bukowski descrive gli atti sessuali, la centralità della solitudine, fanno di questo romanzo un piccolo, e forse involontario, studio antropologico, dove femmine e maschi, privati delle illusioni che li rendono complici, si ritrovano gli uni davanti agli altri nella loro nudità di vittime, perché tutto è inganno, prima o poi cala su noi tutti la stessa consapevolezza del nulla che incarniamo.  

Questo nulla è davvero senza ornamenti, gelido e ripugnante, qui siamo aldilà di ogni consolazione,  dentro una disperazione nera e a tratti davvero squallida. Ma neanche il nulla va preso troppo sul serio, sembra dirci Bukowski, la vita è una farsa, non resta che ridere di essa, anche se  ci sta schiacciando, non  ci resta che opporre un ghigno stralunato all’orrore che dilaga.

2 commenti:

Elena ha detto...

Seguendo il filo del niente si arriva a parlare della sostanza, e così sembra che questo articolo si trovi al posto giusto a completare o a spiegare il precedente.
Il sorriso consapevole e sfrontato della foto non consola, eppure sta lì come una solida àncora.
Ciao Ettore

Ettore Fobo ha detto...


E’ vero, sembra quasi fatto apposta, invece è del tutto casuale. Pensa che quest’ultimo articolo è stato originariamente scritto nell’estate del 2011 e riscritto poco tempo fa. Grazie, Elena, ciao.