Quasi invisibile – Mark Strand

sabato 14 giugno 2014







Nelle poesie di Strand, e anche in queste prose poetiche contenute nella raccolta Quasi invisibile, tradotta per Mondadori da Damiano Abeni, il nulla è sempre in agguato, poiché ogni cosa è in qualsiasi momento prossima a svanire e svela nella sua essenza una sostanziale carenza ontologica, l’oblio regna, sovrano inquietante, sui nostri sforzi d’esistere, di avere durevole consistenza, di conferire un senso al nostro vagare sopra una terra indifferente.

Sin dalla prima prosa di questa raccolta, l’inganno domina la scena, individui che fingono di essere ciò che non sono s’incontrano in un misterioso bordello: un banchiere che proclama di essere un pastore e una vedova che si finge cieca, un onnipervasivo mistero avvolge le loro menzogne.

Questi piccoli quadri poetici hanno in sé come qualcosa d’incompiuto, sono abbozzi, come se Strand si limitasse a suggerire pittoricamente un’atmosfera ma non completasse il disegno, donando a queste prose una sensazione di sospensione temporale. Dopo la lettura si rimane dunque stupiti e in attesa di altro e ogni prosa comunica con la successiva questa suspense che non è narrativa, nulla in fondo accade perché nella poetica di Strand nulla può accadere o accade solo il nulla, parlerei piuttosto di una suspense poetica. Strand si limita a suggerire un tema, lasciando che sia l’immaginazione del lettore a completare l’opera. Centrale il ritmo di queste prose, l’andatura leggera come quella di una foglia al vento che si posa per terra in attesa di dissolversi, come tutto.

Così questi piccoli poemi in prosa diventano misteriose manifestazioni di uno dei più grandi poeti contemporanei e si configurano come inquietanti riflessioni sulla fragilità della condizione umana, fragilità ontologica e fondante. Riflessioni che non ci riempiono, non saziano la nostra sete di sapere ma ci interrogano profondamente, lasciandoci senza risposta, Strand invita unicamente a sostare davanti alla domanda come davanti a un tempio che, kafkianamente, ci è precluso. E Kafka pare proprio il nume tutelare di molte di queste storie senza storia, in cui l’assurdità ci colpisce come la suprema delle banalità cui siamo assuefatti così tanto da non prestare a essa più alcuna attenzione.

Così il cuore vuoto, protagonista della prosa intitolata Spossatezza al tramonto, ha l’unico desiderio di svuotarsi del vuoto stesso, desiderio impossibile, perché il vuoto si accresce, un uomo trova sul tavolo una lettera scritta dal padre, morto però da quarant’anni ma la lettera non dice nulla se non un laconico ”Caro figliolo”, il pensiero è come il vento che  si sposta di città deserta in città deserta, in una terra di nessuno solo “anime misere” sono portate a “fare esperienza dell’impossibile.” Quasi invisibile pare così un libro silenzioso, evanescente, una meditazione enigmatica sull’assurdità dell’esistenza, sulla banalità stessa di quest’assurdità, che offre però al lettore una fisionomia leggera, delicata, quasi impalpabile. E allora è questo il senso del titolo: qualcosa prossimo a cancellarsi appare e subito si dissolve. In quel quasi del titolo c’è però tutta la nostra esistenza spettrale. Così il libro pare raccontare un’unica storia in diverse varianti, la storia della nostra umana vacuità, che però, nelle parole di Strand non è quasi mai tragica, perché a dominare è spesso la leggerezza, la leggerezza zen  del saggio che ha visto tutto,  che sa tutto e sa anche che questo tutto è niente, o meglio “la congiunzione luminosa di niente e  tutto”,  dove l’uno sembra confondersi nell’altro e i confini che separano l’essere dal non essere sono labili, e forse solo l’oblio è l’unica risposta alla nostra angoscia metafisica.

Quasi invisibile diventa così una definizione della stessa poesia, della stessa letteratura. Ricorrente è il tema dei molti sé che abitano nel profondo ciascun individuo e che possono affiorare in qualunque momento e in qualunque momento svanire, come prova di quanto sia labile ed effimero lo stesso concetto di identità. E’ una vera epica della sparizione, come ho già scritto altrove a proposito di Strand, la cui ricognizione tra frantumi di realtà pronta  a dissolversi è una pacata, dolce, o meglio dolcemente terribile, meditazione che, se ci parla del vuoto,  ci riempie però dell’ineffabile presenza di un’alterità sconosciuta, l’alterità che respira profondamente nel cuore della poesia. Con questo testo così Strand si rivela poeta devoto all’invisibile, al silenzio, al nulla, e ci regala l’ennesima perlustrazione quasi indolente e svagata dentro gli inganni e le illusioni della nostra umana condizione.

Il quotidiano nihil che ci scruta dallo specchio, in queste prose, diventa la misteriosa rivelazione di un’estrema banalità, che potremmo chiamare ”la banalità dell’assurdo”. Nella consapevolezza di questa insanabile contraddizione, sospesi fra mistero e ovvietà, fra noto e ignoto, dove, come nei versi di Philip Larkin, l’ignoto sopravanza di gran lunga il noto, c’è forse la possibilità della salvezza.
Essa consiste, come per il personaggio di una di queste prose che si trova a fissare per ore le pagine vuote di un libro, nel fissare il nulla, senza farci inghiottire, di osservarlo per tenerlo  a bada, fuori e dentro di noi, come la manifestazione suprema di un’ironia (forse) divina. Tenere testa all’orrore del vuoto, contemplandolo spassionatamente, non dico con gioia, perché questa sarebbe propria delle nature oltreumane ma almeno con ironico distacco.  

Strand pare così un saggio orientale, un saggio taoista, la sua scrittura, sospesa sull’abisso come l’uovo di un dipinto di Piero della Francesca,  c’insegna a familiarizzare con il nulla, come il ministro della Cultura di una di queste prose, ci guida  a fare amicizia con il baratro, attraverso  la dolce, la terribile, l’ipnotica danza delle sue parole.




2 commenti:

Logos ha detto...

Ciao Ettore,
questo libro mi attende sulla scrivania ma ho quasi paura ad affrontarlo perchè so l'impatto emozionale che mi darà.

Nel frattempo ti consiglio un testo molto crudo, a tratti mi ha ricordato l'Urlo, di Yahya Hassan ,giovanissimo poeta danese di origini palestinesi.
Testi molto crudi, poetica ricca di immagini forti e taglienti. Nessun intento sociale se non il racconto di una estraneità perenne.

Ciao

Alex

Ettore Fobo ha detto...


Ti ringrazio del consiglio, Logos. Cercherò qualcosa di quest’autore. Per quel che riguarda Strand, sarai stupito. Un caro saluto.