Azzurro elementare – Pierluigi Cappello

sabato 4 ottobre 2014





Con il titolo di Azzurro elementare, una copertina minimalista e un’introduzione di Francesca Archibugi, nel luglio del 2013 Rizzoli pubblica una raccolta che racchiude due opere di Pierluigi Cappello, che sono di per sé già dei classici della recentissima  poesia contemporanea, originariamente editi da Crocetti: Assetto di volo (2006)  e Mandate a dire all’imperatore (2010).

Nasce così un’antologia che segue il percorso di Cappello cronologicamente, in un arco di tempo che va dalle poesie del 1992 a quelle del 2010.

Cappello si esprime in due idiomi, oltre all’italiano, il dialetto friulano; le liriche in dialetto sono tradotte in maniera interlineare e sono un po’ faticose da seguire e confermano l’idea di una loro sostanziale intraducibilità.

Se la poesia è una ricerca sul linguaggio, un’episteme che fa del linguaggio il fulcro di un percorso nel pensiero, nelle sue estasi, nei suoi incubi, nei suoi vuoti, la ricerca di Cappello lo porta a elaborare una lingua tersa, dove è soprattutto il dato naturale a emergere nella sua nettezza metafisica.

Lingua che porta in sé la grazia e la gioia, che indaga la realtà da una prospettiva d’incantesimo.  Nella poesia Una lettura, la cultura mitologica non si rivela sterile erudizione, il poeta intesse un fecondo rapporto con gli eroi dell’Iliade, tutto basato sull’immaginazione che la lettura crea. Altrove la stessa intimità di favola si rivela nelle poesie dedicate a Umberto Saba, a Saint-Exupéry, dove a dominare è il rapporto del primo, poeta e scrittore triestino,  con il mare e del secondo, aviatore e scrittore francese, con il cielo.

La poesia di Cappello è vertiginosa e immaginifica, così incontriamo espressioni potenti come ”il tuo centesimo rabbrividito d’anima”, “Il fuoco di febbre che rese/ogni minuto una battaglia di Lazzaro”, o ancora il definitivo verso “e io rimasto spopolato dentro”. In Assetto di volo è soprattutto la natura a essere cantata, dimensione di quiete in cui il poeta s’immerge e noi con lui. La natura si rivela così esperienza del linguaggio, sua origine e meta.

Anche un semplice calabrone che vola nella stanza dove il poeta scrive è fonte di riflessione, occasione di poesia, se anche il sole fiorisce sui rami fuori dalla finestra, metaforicamente sorto nell’interstizio fra il poeta che scrive e ”la parola niente”.

Bisogna attenersi alla “misura dell’erba”, rimanere umili, attaccati alla terra, evitando l’ubris della civilizzazione violenta, attendendo semplicemente che” il prato sorrida/ com’è scritto nei libri”.

In questo verso ancora una volta la natura e il linguaggio umano si confondono come se la poesia fosse l’anima stessa del paesaggio e il poeta un negromante che cercasse con la sua scrittura di evocarla.

La bravura di Cappello pare soprattutto quella di coniugare la quotidianità con la vastità incalcolabile di ciò che la trascende. In particolare nella poesia che inizia con “Il caffè può essere un caffè”,  durante una sosta al bar, agitando le monetine nella tasca, pensando al loro cambiare verso, al loro mescolarsi,  il poeta  pensa di aver tenuto in tasca nella sua caotica casualità ” la direzione e il senso/ dell’universo intero.”

Le parole zampettano come animaletti sul foglio, le parole più pure, però, sono nell’interstizio che separa “l’ultima parola detta” e “la prima nuova da dire” perché solo il silenzio è “perfetto”.

Davvero la natura è percepita come sacra, si capisce da tutta la raccolta. Prendiamo questi versi:
“D’aprile da piccolo/ gli alberi mettevano mitrie/ alzavano le teste in lunghe/ lunghe liturgie/ e tempio era il silenzio/luminoso delle nuvole.”

È con le poesie di Mandate a dire all’imperatore che Cappello raggiunge il vertice della sua ricerca, la parola si distende, le immagini si fanno sempre più intense, il dettato acquista imprevedibili solidità ritmiche.

La poesia eponima Mandate a dire all’imperatore inizia con una citazione di Vittorio Sereni “ nulla nessuno in nessun luogo mai” e si configura come l’ennesima riflessione sul linguaggio, ”il buio della parola”, rimuginando la convergenza fra vita umana e vita animale.

Oppure in Ombre, una delle poesie più lunghe, i morti ritornano nella memoria per dirci ”cosa siamo stati”.

La natura ci parla, attraverso i temporali, che portano in sé un racconto, attraverso la luce del sole, traverso le pietre inerti, persino.

In Parole povere ogni verso è un abbozzo di storia con vari protagonisti, colui che sarchia la terra, colui che cade dalla bicicletta, “uno pieno di muscoli”, uno che scrive su un involto da salumiere, un ubriaco, a configurare una  dimensione in cui la preghiera sa di pioggia e la pietà è inutile perché vince su tutto ”l’allegria dei vinti e una tristezza grande”.

La natura non sempre è un idillio se i fiori fioriscono nel verde “in ferocia e purezza”, simboli della “vita senza memoria”, con una vena ossimorica che ricorda Pasolini.

Fino al poemetto finale La strada della sete che inizia con un’impegnativa citazione di Dante, ”infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”,  e sembra compendiare i temi del libro, la memoria soprattutto,  con i suoi morti, il padre su tutti, se “i gesti sono ineffabili/ parenti delle nuvole”,  è evanescente la sostanza stessa di questi versi, dove la sorpresa si scioglie in calma e” la calma in abbandono” e tutto è un sogno, lacerto della memoria stessa, in una sorta di discesa agli inferi in cui il poeta incontra le ombre del proprio passato.

Così, in definitiva, Azzurro elementare è un libro prezioso, naturalmente enigmatico, opera di una delle voci più significative della poesia italiana contemporanea.


2 commenti:

Mia Euridice ha detto...

Adoro Pierluigi Cappello.
Credo sia uno dei poeti più intensi, originali e profondi che abbiamo la fortuna di leggere.

Grazie Ettore.

P.S. Potrebbe andare anche su Lanke? Te ne sarei molto riconoscente.

Ettore Fobo ha detto...


Sì Euridice, tempo una settimana e lo pubblicherò anche su Lankelot.