Crudalinfa – la poesia di Giovanna Menegus

lunedì 25 luglio 2016




Quella di Giovanna Menegus è una poesia che si segnala subito per il suo nitore, è una poesia tersa che racconta l’esperienza umana in ciò che essa ha di essenziale, la sua linfa, appunto come dice il nome stesso del sito da lei gestito, Crudalinfa. E così è la natura a essere spesso protagonista, in ciò che essa ha di enigmatico e di generante, di sorgivo. Così i tigli, le robinie, i platani, i larici, diventano un segno, un’epifania per il passante che li contempla e rimane come inebriato dai loro freschi colori. La natura è il luogo di un’azione costante, di una generazione incessante. La poesia ne raccoglie umilmente il canto, ne riporta la potenza di rivelazione dagli accenti orfici. Attenzione, però, nulla di più fragile ed evanescente della poesia, che vive per un attimo sul confine del silenzio, prima di sparire, di fondersi con esso, ritornando così alla sua origine:

“Il verso è   ora 
subito poi svanisce
si cancella
sgorga dal silenzio
dal silenzio
viene riassorbito”

Ciò nonostante il poeta, che nulla possiede, è destinato a creare l’intero mondo, che è suono, luce, linguaggio, canto. Perciò nulla di meglio che usare una foglia di magnolia come segnalibro per un testo di Dylan Thomas, a suggellare così la contiguità fra verso  e natura.   

Questa poesia è costellata di rimandi ad altri poeti, Dickinson, Rilke, Bonnefoy, Merini, Sexton, Eluard, Rosselli, fra gli altri, a definire così la poesia come colloquio fra i secoli e i mondi, dove un’intersoggettività segreta incontra l’alterità. La citazione di Marina Cvetaeva che Giovanna Menegus riporta è perciò emblematica, ”la lettura è prima di tutto con-creazione”, dove si esprime una grande verità: il lettore crea insieme all’autore i versi che crede di leggere. Anche in Borges, fra gli altri, si trova una consapevolezza simile. Forse questo sforzo richiesto al lettore è uno dei motivi per cui la poesia è così spesso negletta.

I poeti entrano e ci conducono nella “vertiginosa fessura fra tutto e nulla”, si dibattono “fra disperazione del silenzio/e corpo a corpo/ con la forma”, e sono spesso voci  femminili che Giovanna Menegus incontra in questo viaggio fra vertigine e  stupore, fra cupio dissolvi  ed estasi, fra abbandono e creazione.  


La vita stessa può essere eco del mare in una conchiglia o la musichetta irritante di un carillon; Dio stesso può essere ridotto dall’uomo a diventare un grigio contabile di “spiccioli raccolti durante la messa”, poiché si cerca di quantificare “l’ineffabile” forse per non esserne sopraffatti; anche a Milano soffia come un’aria di mare, strana magia, che avvertono tutti, misteriosamente, dai manager che paiono squali muniti di valigetta al senegalese che sta all’angolo. Ma c’è anche un’amara constatazione della “dittatura delle immagini” che ci impone la nostra società, dove “il nostro infinito è un centro commerciale /senza centro” e gli umani diventano tutti  ugualmente invisibili”.
In qualche modo, però, le parole ci salvano dall’essere sommersi dalla vacuità contemporanea.

Così Menegus scrive: “Le parole devono suonare insieme, /generate vive/d’uno stesso seme:/fiorire tenere come viole,/maturare su un muro/volto al sole.” Ancora una volta per sottolineare l’urgenza di una parola naturale come la viola che può fiorire o seccarsi.

Tuttavia è il silenzio che dà forma alla parola, è il silenzio che ci dà senso, e che ci ospita - “inesauribile grembo di silenzio” viene chiamato - come confermano questi  versi che concludono la sezione intitolata Illuminazioni, intonazioni, etc:

“Nell’arco teso del silenzio
sospese le parole e i suoni
aboliti tutti – solo qui abito,
solo qui m’è data forma d’esistenza”.


Il verbo è “foresta pietrificata”, le sillabe sono foglie, il canto ha radici, i larici profondono le loro benedizioni, il linguaggio del poeta s’immerge nelle profondità terrestri, questa poesia racconta se stessa come un evento naturale, come manifestazione di un’armonia segreta ma profondamente connessa con le vibrazioni primordiali della vita.


Così la poesia di Giovanna Menegus oscilla fra silenzio e rivelazione, fra istanze bucoliche e rivoli orfici -  raccontando anche la quotidianità dei non luoghi (banche, discount,  centri commerciali) -   e nella sua semplicità incantata mostra in fondo al lettore delicatezze d’altri tempi. È una poesia realistica, scevra di onirismi, mi sembra,  pittorica, con una sensibilità estrema verso il colore  e la luce, che racconta la città come agente di alienazione e la natura come luogo di una riconciliazione con le forze primigenie.


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