Che mangino caos – Kate Tempest

mercoledì 22 novembre 2017





Kate Tempest ha solo 32 anni. Eppure ha già solcato con sicurezza invidiabile i mari della poesia, del teatro, della narrativa, della performance totale (è anche rapper). In Italia è uscito per Frassinelli il bel romanzo Le buone intenzioni, che una forma di pudore m’impedisce di definire bellissimo. Nel settembre del 2017 è il turno di questo poemetto, Che mangino caos, che è stato preceduto  qualche mese prima da un album, con le poesie recitate o rappate  su una base musicale. È il genere definito spoken words.

Siamo davanti a un’opera dirompente che come tutte le opere dirompenti ci mette a nudo, ci interroga nel profondo di noi stessi, ci mostra cosa è diventata la vita moderna, all’interno di una metropoli che ci soffoca, Londra in questo caso, dove la poetessa è nata e vive. Ma Londra pare essere solo un caso esemplare di ciò che sta accadendo all’intero pianeta, la cui immagine apre il testo. Il grido della poetessa si alza per denunciare il collasso del nostro sistema di vivere, lo sfacelo dell’ambiente in cui viviamo, la crisi del modello di comunità, la solitudine esistenziale di vite sprecate. Perché il fulcro è narrare i pensieri di sette personaggi insonni, che si trovano svegli in questa Londra da incubo, nella stessa ora, le 4.18, ora simbolica per il teatro inglese a partire dall’opera di Sarah Kane. Quest’ora maledetta è l’ora in cui avviene il più alto numero di suicidi, in questo poemetto rintocca funesta e come una goccia di cianuro avvelena con la paranoia queste menti, prede di una disperazione a volte inspiegabile, anche se procedendo nella lettura, come vedremo, Tempest propone una spiegazione.

Sono questi versi disperati, aggressivi, definitivi, ma alla fine attraversati da una speranza di palingenesi, che leggiamo in questa edizione e/o tradotta da Riccardo Duranti. Poesia da recitare a voce alta come si legge in esergo, che impetuosa si srotola sotto i nostri occhi. Allucinazioni di un realismo clinico, visioni cosmiche (la Terra è un puntino sperduto nell’universo), e queste sette persone insonni appese al filo di rimuginazioni e ricordi che non si uccidono ma trovano  la catarsi di una pioggia torrenziale che li fa uscire di casa per gettarsi sotto l’acqua per calmarsi e rigenerarsi. Suicidio metaforico, rinascita, rinnovamento, battesimo laico, perché questo invoca Kate Tempest in questo poemetto duro, a tratti straordinario per potenza ritmica e visiva, per la sua foga controllata, “ urlando ai miei cari/ di svegliarsi e amare di più/ scongiurando i mei cari di /svegliarsi/ e amare di più.” Ricetta semplice a dirsi ma complicata da attuare.

In questa Londra antropofaga come qualsiasi metropoli in cui il desiderio di profitto ha sostituito le tradizioni secolari, l’eros, le passioni semplici. Questo deve fare un poeta, gridare che “Il livello del mare sale!” riportando sulla terra l’eco di una speranza che è amore e Kate Tempest, l’abbiamo visto, non ha paura di dirlo apertamente, alla faccia di tutto il cinismo industriale di cui siamo ormai impregnati.

Oltre alla lettura è necessario ascoltare l’album per capire come questa voce c’incalzi e ritmicamente canti e racconti la nostra personale e collettiva spoliazione di senso e futuro.

Così in questo poemetto una visione necessariamente tragica dell’esistenza s’intreccia con una roboante denuncia sociale. Così Londra assomiglia a Bangkok, Marsiglia, Milano, Tokyo, Città del Messico, a qualsiasi città, dove il disastro terrestre è diventato forma di palazzi e alienazioni micidiali e dove l’anima umana è spremuta nell’ingranaggio di produzione e consumo.
Kate Tempest esprime un’energia debordante ma non smarrisce mai la misura del verso.

I suoi personaggi sono spiantati la cui vita è “veloce, merdosa, a basso costo.”, giovani vedove con bambini piccoli, uomini di successo rosi da un’angoscia inesplicabile; pensieri di disfatta, claustrofobici, attraversano la loro mente, ”Londra è una fortezza murata/è tutta per i ricchi/se non ce la fai/sei fuori.”

Con forza Kate Tempest cerca di scuotere la nostra apatia di esseri satolli d’indifferenza e ci spiega l’origine della nostra nevrosi: ”La tragedia e la sofferenza/ di una persona che non hai mai incontrato/ è presente nei tuoi incubi, /nell’attrazione che provi verso/la disperazione.”

L’invito è dunque riconoscersi nella comunità, anche in questo mondo disgregato, perché: ”Il mito dell’individuo/ ci ha lasciati scollegati smarriti/e in stato pietoso.”
Anche nel divenire nulla, anche nella morte c’è una segreta necessità. Ascoltiamo prima in inglese:

“The point of life is live/Love if you can. Then pass it on/We die so others can be born/ We age so others can be young./The point of life is live, /Love if you can/Then pass it on.”

Il senso della vita è vivere/ Amare se si può. E poi tramandare/Si muore perché altri possano nascere/S’invecchia perché altri possano essere giovani./Il senso della vita è vivere, /Amare se si può / e poi tramandare.”

2 commenti:

Elena ha detto...

Ho trovato questo testo in libreria, l'ho sfogliato e acquistato. Poi ho ricordato di aver letto qui le tue impressioni.
Credo che troverò qualcosa di interessante tra questi versi.

Ciao Ettore,

Elena

Ettore Fobo ha detto...


Sono convinto che ti piacerà. Ciao Elena.