sabato 3 febbraio 2018
Se la letteratura deve
necessariamente esprimere il proprio tempo, per poter magari in un secondo
momento assurgere a una dimensione extratemporale e universale, grave è il
compito che incombe oggi sullo scrittore, poeta o narratore che sia. La forma romanzo è esautorata, in un contesto
di “società liquida” o, come
scrive Giuseppe Genna “vaporosa”, la linearità non può essere più possibile. Così nella prima
60-70 pagine, che sono anche le migliori, di questo Italia De Profundis, edito da minimum fax nel 2008, il
tempo narrativo procede a sbalzi, la scrittura conquista i suoi buchi neri, la
geometria euclidea del racconto viene messa in crisi, per cui alla rassicurante
linea retta si sostituisce magari una più inquietante spirale. I tempi della narrazione si accatastano come
i resti di una temporalità al collasso. Anche il mito della leggibilità come
fonte del valore letterario è infranto. Genna porta al limite il suo
linguaggio, nei territori pericolosi dell’incomunicabile, cosa che gli permette
di esprimere una densità concettuale, a
volte eccedendo però in ghirigori
mentali di una certa pesantezza. L’inizio comunque è promettente ma vedremo nel
corso della lettura questo romanzo - non romanzo progressivamente sfaldarsi.
Inizialmente si procede per punti
d’intensità variabile, il racconto del ritrovamento del cadavere del padre può
precedere l’incontro con uno sciamano in contatto con i morti, o una lucida e disperata
requisitoria contro l’Italia, “un luogo che ho disimparato ad amare”,
brano in cui narrativa e saggistica si
confondono in un unico urlo e che stilisticamente rappresenta l’apice di
questo testo per compattezza e forza
espressiva . Poi una successiva caotica
narrazione psichedelica, definita dall’autore stesso noiosissima (e lo è) che
sembra un fatto di scrittura privatissimo, solipsistico, come certe cose, sperimentali fino al delirio e in fondo
discutibili, di Burroughs o Miller,
citati come modelli. Tutto questo forse per evitare di rimanere troppo impantanati
nella classica “forma romanzo” che ormai veicola quasi
unicamente contenuti di retroguardia, conservatori, fossili, spesso
ad uso di un gruppo di lettori addomesticati.
Vorrebbe essere sin da subito un
libro che attinge alle profondità di una visione del mondo precisa e non si
limita come fanno molta narrativa e molto cinema italiano contemporanei a
confezionare storielle consolatorie per convincere un pubblico, assuefatto alla sua stessa povertà di
orizzonti, che è ancora, nonostante tutto, aggrappato a un senso, alla vita e
non alla sua caricatura. Storie che sono specchi per coloro che non riflettono
più alcuna immagine, come i vampiri e solo ammirano, rappresentata da scrittori e sceneggiatori
spesso senza scrupoli, la propria vacuità. Qui si vorrebbe mettere in scena la
dissoluzione di una cultura, quella italiana in particolare e occidentale più
in generale, con un tono, però non sempre azzeccato. La sensazione è che troppo
spesso Genna sia in qualche modo connivente con il malcostume che deplora e che
suoi diversi j’accuse siano una
semplice posa narcisistica.
Autobiografia sui generis questa, con diversi cali di
tensione narrativa, con qualche pesantezza di troppo si è detto; è la vita di
questa maschera, persona, che diventa personaggio: Giuseppe Genna e le sue
malattie psicosomatiche (asma, orticaria), Giuseppe Genna e la sua
inadeguatezza, Giuseppe Genna che si autocommisera fino a essere patetico, Giuseppe
Genna e la scrittura come un’autoterapia in tempi di malessere collettivo.
Il libro comincia a spegnersi
quando segue le rotte più convenzionali di una storia d’amore fra citazioni eliotiane
o pasoliniane disseminate nel testo che vira verso dimensioni di ulteriore
degrado, descrivendo anche con efficacia una Milano perduta, fra
dosi di eroina, casermoni anonimi di
periferia, drag queen appassionate di
sadomaso, purtroppo con accenni fastidiosi e sostanzialmente gratuiti di
pornografia autocompiaciuta. L’incontro onirico con David Lynch, che con
naturalezza parla del proprio cinema come esperienza che esplora i limiti della
ragione, portando lo spettatore in una dimensione quasi misterica d’incontro
con i segreti più profondi e ineffabili dell’esistenza umana, è fra le cose più
belle del libro.
L’ultima parte invece è deludente; è la
descrizione di una vacanza in un villaggio turistico di Cefalù, dove il continuo riferimento a personaggi dello
star system televisivo è imbarazzante e puerile, la scrittura diventa debole, l’ironia è a volte fuori luogo.
Fra autocommiserazione ostentata e un po’ finta e un disprezzo per l’umanità
media espresso con linguaggio medio, strisciante moralismo di un intellettuale
perennemente fuori contesto, il romanzo naufraga definitivamente, assumendo gli
stessi tic linguistici che deplora e si toglie la maschera di arguto tentativo
sperimentale, rivelandosi un libro con
troppe velleità. Francamente questa satira del villeggiante - consumatore
funziona poco, non ha la leggerezza e la
forza icastica di un Foster Wallace (citato come esempio dall’autore), è un
concentrato di luoghi e volti comuni del mainstream
cinematografico e televisivo nostrano e non solo. Meglio quando colpisce al cuore la figura
dell’industriale brianzolo, condannandone la spersonalizzazione, la mancanza di
un’individualità, l’ansia conformistica, dimostrando di aver compreso la
lezione pasoliniana. O come quando riporta una discussione sulla poesia dei
villeggianti in vena, come sempre, di luoghi comuni deprimenti.
Bisogna far saltare i codici. In questo testo che non è un romanzo, non
è un pamphlet, non è
un’autobiografia, non è un saggio, non è un poema in prosa ma utilizza l’ampio
spettro dell’espressività letteraria, Giuseppe Genna ci ha provato ma, secondo
me, non ci è riuscito del tutto.
Nel complesso la sensazione
finale è di un’accozzaglia eccessiva di stili e contenuti divergenti, che
cozzano tra loro. Buone le intenzioni ma non del tutto felice l’esito. Libro
originale, certamente, ben scritto, a tratti interessante ma francamente
diseguale e abnorme, con lampi improvvisi affogati in una prosa a volte melmosa, lucide analisi dell’Italia scritte da
un intellettuale che si pone, però, un po’ troppo al di sopra, nella sua torre
d’avorio, anche se dichiara il contrario.
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