lunedì 19 febbraio 2018
Si inizia con il silenzio,
inevitabilmente. L’attore, Paolo Spaziani, è seduto su un cubo e sembra
attendere l’ispirazione con un aspetto fra il meditabondo, lo stranito,
l’indifferente. Il pubblico lo scruta,
in attesa. Il palco è piccolo, angusto, claustrofobico. Spetterà
all’attore rivelare le sue potenzialità nascoste, dove la parola si riscopre canto.
Ed ecco dunque, come un’improvvisa eruzione, che comincia il dire. Ed è un fiume in piena che
utilizza un testo ispirato ad Artaud, accostando le due lingue, francese e
italiano, per ispezionare il limite
stesso di ciò che chiamiamo realtà e infrangerlo con l’irruzione nel linguaggio
dei segni del caos, prelinguistico e
primordiale, qui annunciato anche dalle glossolalie che sono già nel titolo dello spettacolo, Lor Ga Na Crur.
Tutto ciò per restituirci le
fascinazioni dell’immediato, facendo saltare le sovrastrutture linguistiche,
per ridarci il senso di un altrove tanto più potente quanto più la parola è
spinta nel precipizio di una dizione puramente musicale. Il testo è un furente attacco ai concetti di realtà,
identità, essere, Dio, mondo; tutto
l’armamentario delle menzogne metafisiche che fanno dell’uomo un recluso sul
fondo dell’abisso.
Nell’interpretazione magistrale
di Paolo Spaziani la poesia cessa di essere un morto significato letterario per
divenire flusso melodico, rituale magico che si contrappone, anche con
violenza, alla magia nera sociale, quell’insieme di codici e convenzioni che
rendono la nostra esperienza del mondo “tristemente
carceraria” come si legge nella presentazione dello spettacolo.
La letteratura viene
disintegrata, non è più scrittura ma ritrova l’oralità come suo fondamento.
Così Paolo Spaziani riscopre Artaud come fatto musicale, lo reinventa,
mescolando con leggerezza i linguaggi, il francese, l’italiano e quello strano
grammelot glossolalico che rappresenta la cifra dell’ultimo Artaud.
L’estraneità del poeta francese al mondo, alla letteratura, all’essere, al
senso, a quello che Auden chiamava ”il
dialetto della tribù” e Artaud stesso “la
fogna del pensiero di tutti” è assoluta e con rigore assoluto la voce di
Spaziani ce la mostra in tutta la sua radicalità. E la crudeltà di questo
teatro si rivela soprattutto nella demolizione dei concetti che puntellano le
nostre prigioni mentali.
Così, in questo che è il più piccolo teatro
milanese, il Teatro Studio Frigia Cinque,
con una scenografia spartana, una luce fissa e quasi dolente, con la regia di
Letizia Corsini, il 16 e il 17 febbraio di questo 2018, Paolo Spaziani ha regalato due serate
indimenticabili di poesia allucinata, ispirata a questo grande visionario che è
stato Antonin Artaud. La voce di Paolo Spaziani, moltiplicando i moduli sonori,
ha spaziato dal soffio al grido, dalla dolcezza all’orrore, senza mai perdere
in consapevolezza musicale.
Lo spettacolo si riscopre evento
e l’attore un negromante che contrappone il rigore scandaloso della propria
musica interiore alla volgarità della rappresentazione. Così
l’irrappresentabile della poesia demolisce la scena, la disincarna, la dissipa. Essa non è più il luogo dove si
replicano i rapporti di potere in seno alla società ma la crisi stessa di
questi in un linguaggio che desidera ardentemente frantumarli. “Arte Anarchica”,
si legge nel volantino di presentazione. Tutto si dissolve tranne la voce, tranne il corpo, questo grande incatenato nel
regno della Metafisica e dei concetti.
Paolo
Spaziani diventa Antonin Artaud, se questo nome può designare qualcosa di più
di flussi, punti di forza, singolarità e ci restituisce così un’antica idea di
teatro; è colui che esce dalla folla e comincia la cadenza di un canto tragico,
al ritmo del ditirambo dionisiaco, un’idea antica certo ma paradossalmente colma di un futuro
che oggi pare impossibile, quando, come ha
scritto Foucault: “ Le parole di Artaud apparterranno al suolo stesso del nostro linguaggio
e non alla sua rottura. “
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