Canzone del mese di maggio - Jacques Prévert

domenica 28 ottobre 2012








Per me,  sin dall’adolescenza, Jacques Prévert è stato un poeta che ha incarnato una visione semplice,  se non addirittura semplicistica,  della poesia, un poeta popolare in virtù di un’operazione di semplificazione dei grandi temi presenti nella poesia del Novecento, in particolar modo un divulgatore dei temi del surrealismo.

Leggendo questa raccolta Canzone del mese di maggio la mia idea si è rafforzata: Jacques Prévert è un poeta facile e vacuo, adatto a una lettura veloce e distratta, e allora mi chiedo perché sia stato incluso in questa collana del Corriere della Sera.

La poesia francese del Novecento ha avuto sicuramente esiti più alti e interessanti e penso in particolare a Blaise Cendrars e a Saint John Perse, ma anche a Breton, Artaud, Jouve o Eluard, che più di Prévert meritavano, a mio avviso, di rappresentarla. Fra gli autori di canzoni  lo stesso Boris Vian è più interessante di Prévert. Ma tant’è, la scelta in questo caso si rivela infelice e quest’antologia, Canzone del mese di maggio, è tra le meno interessanti fra quelle proposte.

Già nell’introduzione di Roberto Rossi Precerutti questo è evidente. Leggiamo, infatti, che nel poeta francese è assente “un pensiero complesso” e latita “un’analisi matura”.  Al più egli è generosamente  definito” grande costruttore di  atmosfere”.  Prendiamo questa poesia:

A digiuno sperduta assiderata
Tutta sola senza un soldo
Ferma in piedi una ragazza
Età sedici anni
In Place de la Concorde
Il quindici agosto a mezzogiorno.”

In effetti, qui , con pochi tocchi, con poche semplici parole, Prévert tratteggia un’atmosfera, che contiene in sé in nuce una critica sociale abbozzata, che diventa più articolata nella celebre poesia Pater Noster che inizia con i famosi versi” Padre nostro che sei nei cieli/ restaci pure”, dove la divinità è l’incarnazione dei “padroni del mondo” e dove la vita è raccontata nelle sue miserie e nei suoi splendori.

In queste poesie manca, però,  il pensiero, ci si accontenta di far baluginare echi di surrealismo, che ricordano  Dalì, in quella che Roberto Rossi Precerutti definisce “grammatica del sogno”,  ma questi sogni non rovesciano la normale e spesso opprimente percezione della realtà, rimangono lacerti superficiali di una moda espressiva.

“Ho messo il képi nella gabbia
E sono uscito con l’uccello sulla testa”

Così la maggior parte delle poesie di Prévert appaiono istantanee un po’ scolorite, resti di un sogno non pienamente sognato, abbozzi e giochi un po’ frusti. Il surrealismo qui diventa una maniera, un codice che, lungi dal liberare il linguaggio, crea una certa pesantezza, la pesantezza dell’assenza di idee, che produce poesie scadenti,  come questa su Napoleone:

“Giovanissimo Napoleone era assai magro
e ufficiale d’artiglieria
divenne più tardi imperatore
mise su pancia e conquistò nazioni
e il giorno che morì aveva ancora
una bella pancia
ma era diventato più basso. “

Ci sono le poesie d’amore, che sono forse il motivo principale del successo del poeta francese, che mi sembra una versione minore e ridotta di Apollinaire, altro poeta che non amo.

Non sono granché interessanti nemmeno queste tanto decantate poesie d’amore, raccontano la passione erotica in maniera convenzionale(anche se va detto che è difficilissimo non farlo) e non graffiano la pagina con le unghie della trasfigurazione.

L’impressione finale è che Prévert scriva sotto l’impulso di sensazioni non pienamente sviluppate, appena abbozzate e anche la sua critica alla società pare più un omaggio alla moda dell’epoca che una reale esigenza, una reale indignazione.

Davvero un’antologia di un poeta qualunque, che non merita, secondo me, tutta l’attenzione critica che gli è stata dedicata;  la sua è una poesia al massimo piacevole, di quella piacevolezza però che agisce solo in superficie. Manca davvero il pensiero, manca anche il grido, manca sostanzialmente  una visione del mondo profonda e coerente.  Nonostante ciò,  leggiamo anche qui  dei versi potenti, per esempio nella poesia Il lamento di Vincent, dedicata a Van Gogh:

“E Vincent resta lì e dorme sogna rantola
E il sole sopra il bordello
Come un’arancia folle su un deserto senza nome
Sopra Arles il sole
Urlando gira in tondo.”

Qui una tensione cinematografica si palesa in tutta la sua forza visionaria, e da sola sembra dare un senso a questa lettura che altrimenti sarebbe stata inutile. Altri versi interessanti concludono la poesia Place du Carrousel:

“Oh
giardini perduti
fontane dimenticate
distese di prati nel sole
oh dolore
misterioso splendore
di ogni avversità
sangue e chiarori
bellezza offesa colpita
Fraternità.”

Sostanzialmente troppo poco per giustificare la fama di Prévert, che rimane per me un mistero; l’inconsistenza di alcuni suoi versi sembra dar ragione ai detrattori della poesia, quando ne deplorano la vacuità. Eccone un esempio, fra i tanti:

“Tutti i chilometri/ tutti gli anni/ c’è qualche vecchio con la fronte esigua/ che mostra ai ragazzi la strada/ alzando il braccio di cemento armato.
E’ evidente che non c’è nulla  in questi versi, neanche il dolore o il disgusto per il nulla della propria mente.

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